Lo sguardo nel buio
Il concetto rahneriano del «Mistero assoluto»
Prima Parte (1/2)
Egli conta il numero delle stelle
Sal 147,4
Conta le stelle, se riesci a contarle
Gen 15,5
Il mistero assoluto e il mistero relativo
Il mistero in generale è una realtà o un’asserzione dal contenuto intellegibile, che istruisce la nostra mente, così che ci è possibile esprimere in concetti ciò che conosciamo, e tuttavia in questa conoscenza del mistero, ci accorgiamo che la nostra intelligenza giunge solo a un certo limite o a un certo punto, e che quindi nel mistero c’è dell’altro, e anche il di più, finito o infinito, cosmico, umano o divino, che ci è ignoto e che è la ragione o il motivo o il fondamento di ciò che sta davanti al nostro intelletto, e che per la sua oscurità supera la nostra capacità di comprensione e ci resta ignoto. Del mistero sappiamo qualcosa e possiamo parlarne; ma non conosciamo tutto e sotto questo punto di vista è meglio tacere. Da qui la parola «mistero», che fa riferimento al tacere e al silenzio.
Bisogna distinguere il mistero assoluto dal mistero relativo. Il mistero assoluto è quel mistero che ci si mostra inesauribile: per quanto andiamo avanti o lo approfondiamo o vi facciamo luce, o per quanto qualcuno ce lo riveli, fosse Dio stesso, resta sempre per noi un margine invalicabile di mistero e di ignoto, si tratti del mistero del mondo, dell’anima, degli angeli o di Dio.
Qui, anche quando si tratta di realtà ontologicamente e quantitativamente o estensivamente o numericamente determinate, limitate o finite, come le creature corporali e spirituali, è per noi un mistero come possano essere tali e ad un tempo il nostro conoscerle progredisca continuamente e indefinitamente nello scoprire corpi sempre più piccoli senza mai giungere a corpi costituiti da corpi atomici, come credeva Democrito o a corpi-punti privi di dimensioni, come credeva Leibniz, o senza mai giungere ai confini dell’universo, a causa della scoperta di distanze sempre maggiori e di corpi sempre più lontani, benché lo spazio sia finito. Né sapremmo immaginare dei confini spaziali al di là dei quali non ci sarebbe nulla, come il campo visivo del nostro occhio.
Ad ogni cosa che diventa nota, ecco balzarne sempre fuori un’altra, nuova, che ci era ignota, e così senza fine. Le cose devono essere numericamente limitate, ma noi ne scopriamo sempre di nuove. Come si spiega questo? Forse si potrebbe rispondere dicendo che i mezzi del nostro sapere, nella loro limitatezza, sono sproporzionati rispetto all’immensità dell’universo e alla piccolezza dei corpi elementari. Questo è vero.
Ma la risposta non sembra del tutto soddisfacente, perché la questione non è quella di paragonare l’umanità indagante all’universo come si potrebbe paragonare ad un succedersi di generazioni umane davanti a una quantità finita di oggetti: arriverà bene il momento che li abbiamo contati tutti!
La questione non è così semplice, perchè ognuno di noi, se riflette su come funziona il nostro sapere nei confronti delle cose, si accorge che le cose stesse sono fatte in modo che il nostro saperne non è capace di capirle totalmente o contarle fino alla fine.
E c’è il mistero relativo, il quale o a seguito delle nostre indagini o perché qualcuno ce lo rivela, esso viene totalmente svelato, lo comprendiamo totalmente, in modo che il mistero sparisce. Tutto diventa chiaro, comprensibile e spiegato., Tutto appare nelle sue ragioni, perché esse ci si manifestano. Si tratta qui semplicemente o di proposizioni razionali che riusciamo a dimostrare o ci vengono dimostrate, per esempio un teorema di geometria o di fatti empirici, per esempio scoprire chi è stato ad uccidere una data persona.
Del mistero assoluto c’è dunque qualcosa che conosciamo e qualcosa che non conosciamo. L’indagine può consentirci di capire di più e di sapere di più, ma per quanto aumenti la nostra conoscenza, resta sempre un’ulteriorità che ci sfugge e ci oltrepassa; avvertiamo l’esistenza di questa ulteriorità, ma in essa non vediamo nulla, non siamo quindi in grado di concettualizzarlo.
Nel mistero a noi dunque appare una luce mista alla tenebra. Qualcosa comprendiamo e qualcosa non compendiamo. Se lo indaghiamo, lo comprendiamo meglio, ma resta il margine di mistero, a meno che non si tratti di un mistero relativo, per cui a un certo punto riusciamo a svelarlo: tutto allora appare chiarito e il mistero scompare.
Tuttavia mistero assoluto, compreso quello divino, non vuol dire un qualcosa o un oggetto o un ente assolutamente oscuro, nascosto, occulto e inintellegibile, un qualcosa di totalmente buio e tenebroso, senz’alcun barlume di luce, un qualcosa dove non capiamo o non vediamo niente e dove non c’è niente da capire o da concepire. Questa è un’assurdità e un’offesa all’intelletto, perché il qualcosa (aliquid) non è altro che un trascendentale, non è che l’ente in quanto determinato e se è determinato è intellegibile.
Un ente del quale non capiamo nulla, un ente totalmente indeterminato, quindi il mistero assoluto in questo senso, il buio ovvero la tenebra totale, ripugnano al pensiero, è un’assurdità, perchè l’ente in quanto vero è oggetto dell’intelletto. O c’è l’intelletto, e allora c’è l’ente. O non c’è l’ente, e allora non c’è neppure l’intelletto. Ma immaginare un ente dove l’intelletto non intende, non intuisce o non capisce niente è pura stoltezza.
Dio non è un mistero assoluto nel senso del buio totale, che comporterebbe da parte nostra la cecità, ma è mistero assoluto che per lascia trapelare la luce e ci Si rivela in Cristo, anche se resta un margine di mistero. Ciò tuttavia non vuol dire che Dio sia in parte visto e in parte non visto, similmente a quanto succede per noi per la luna, come se fosse composto di due parti, Egli che è assolutamente semplice; ma siamo noi che nel vedere arriviamo solo fino ad un certo punto e non riusciamo ad andare oltre.
Il concetto biblico del mistero
La Bibbia presenta Dio, certamente, come mistero infinito. «Nubi e tenebre lo avvolgono» (Sal 97,2). Egli «parla dall’oscurità» (Dt 5,22). E tuttavia è anche luce, come dice Giovanni: «Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre» (I Gv 1,5). Cristo è «la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16). Il Verbo è la luce che illumina ogni uomo.
Se Dio appare avvolto nella tenebra, non è tenebra in se stesso, ma è che noi siamo ciechi e non lo vediamo. Ma Egli è in Se stesso luce. La mistica pertanto non sta nel crogiolarsi nel buio pensando che questa sia la somma del sapere, ma nella consapevolezza che al di là di quanto sappiamo di Dio c’è un’ulteriorità per noi ineffabile che ci supera infinitamente, mentre ciò che vediamo è di una tale bellezza che non abbiamo parole per esprimerlo.
Il trovarsi al buio per la Bibbia non è il vertice del sapere, ma è la disgrazia della cecità, dalla quale la persona normale, che non gode nello stare nelle tenebre, chiede a Dio di essere liberato. E per questo molti miracoli di Cristo consistono nel dare la vista ai ciechi, mentre Egli rimprovera coloro che camminano nelle tenebre e quei ciechi che pretendono di essere guida degli altri.
Dio nella Scrittura è bensì rappresentato con l’immagine della nube, ma come nube luminosa. Dio è invisibile non solo perchè non è oggetto della vista fisica, ma perché è puro spirito immateriale ed oltre a ciò infinito, conoscibile quaggiù non in se stesso, ma solo per il tramite delle creature, visibile solo per mezzo dell’intelletto (Rm 1,20). In tal senso Giovanni dice che nessuno ha mai veduto Dio; ma poi precisa che Cristo ce lo ha rivelato e che la beatitudine consiste nel vedere Dio così com’è.
Benedetto XII nel 1336 ha definito dogmaticamente che la beatitudine celeste consiste nel vedere l’essenza divina immediatamente e direttamente come è in se stessa, senza la mediazione di alcun concetto. Il Salmista esprime questa prospettiva col parlare della visione del «volto di Dio».
La nostra mente nella vita presente non può volgersi verso Dio se non pensandolo mediante i dogmi della fede, quindi mediante l’esercizio dell’intelletto, anche se ovviamente mosso dalla carità. La Scrittura si esprime come se Dio fosse oggetto del senso, e per questo usa espressioni che fanno riferimento ai sensi.
Il concetto nella conoscenza di Dio e del suo mistero serve per renderci mentalmente presente la natura divina così che la abbiamo davanti allo sguardo del nostro intelletto. Il concetto è una luce che ci fa vedere. Esso toglie l’ignoranza, il buio ed illumina. Se manca il concetto non vediamo niente o siamo nella pura immaginazione. Tanto meno senza di lui possiamo avere un’esperienza del mistero assoluto. È solo in paradiso, non su questa terra, che valgono le parole dell’Apocalisse: «Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (Ap 22, 4-5).
La Bibbia ci insegna la preziosità della fede in Dio per ottenere la conoscenza del mistero divino. Infatti, se ci è possibile già con la sola ragione provare l’esistenza di Dio e alcuni suoi attributi, è logico che abbiamo ben più da imparare su Dio se ascoltiamo quanto Egli stesso in Cristo ci rivela del suo mistero, cose che superano quanto noi da soli possiamo imparare e che solo Lui può sapere e rivelarci, benché poi, anche una volta rivelate, non cessino di restare misteriose e la stessa visione beatifica non tolga il mistero. Anzi in cielo capiremo come non mai perchè e quanto Dio sia un mistero, anzi il mistero per eccellenza, chiamiamolo pure con Rahner, il «Mistero santo».
Il fatto inoltre che la Bibbia ponga Dio in cielo e non lo consideri un ente terreno, significa che vede Dio come assoluta intellegibilità. Il cielo, infatti, con la sua luminosità, rappresenta lo splendore della verità. Se in Dio noi troviamo dell’oscurità, non è perché Egli sia oscuro in se stesso, ma dipende dalla limitata capacità di comprensione del nostro intelletto. Il «dio o principe di questo mondo», con la sua intrinseca oscurità legata alla materia, ci dice Cristo, non è il vero Dio, ma è il demonio.
È chiaro per la Bibbia che Dio è anche in terra, ma solo nel senso che ne è il creatore e conservatore. Dio anzi secondo il Nuovo Testamento giunge addirittura ad assumere un corpo umano nell’unità della Persona del Figlio di Dio, ma è chiaro che sussiste sempre una distinzione fra la spiritualità divina e la materialità del corpo umano di Cristo. Dio è creatore della materia, ma non è materiale. La materia quindi è buona, ma non tanto quanto lo spirito divino che l’ha creata. Da qui la superiorità biblica del cielo sulla terra, che corrisponde alla superiorità aristotelica dell’intelletto sul senso, dell’atto sulla potenza e dello spirito (pura forma) sulla materia (composto di materia e forma).
Così come il cielo sta in alto al di sopra di noi, mentre la terra e il mondo sono in basso sotto i nostri piedi, la Bibbia, per significare la trascendenza di Dio, Dio come ente supremo o sommo bene, lo chiama «altissimo». Per questo l’orante, nella Bibbia, e Cristo stesso, quando prega volge lo sguardo al cielo e nella luminosità del cielo vede in qualche modo Dio.
La Bibbia non invita mai a fissare lo sguardo nel buio o nel nulla o nelle tenebre , dove non si vede niente, non c’è niente da pensare o da sapere, nessun concetto da formare, e niente da dire. Non è questo il tacere del mistico, ma il tacere dello stolto. Non sono i giusti ma i malvagi che avanzano nelle tenebre. I giusti sono «figli della luce». La tenebra è il dio dei malvagi. «Nella notte dice la Scrittura (Gb 24, 14) – si aggira il ladro». Viceversa, i figli di Dio sono «figli del giorno». Ciò non toglie la legittimità di considerare il mistero per indagarlo e svelarlo con modestia e intraprendenza ad un tempo, senza la pretesa di sapere ciò che non ci è consentito sapere.
Quello che alla Bibbia ripugna è il gusto dell’oscurare ciò che è chiaro, di mettere in dubbio l’evidente, di infirmare ciò che è certo, il gusto del confondere anzichè distinguere, il gusto della tenebra e del buio come tali, oppure lo scetticismo di chi, enfatizzando esageratamente le dimensioni del mistero, trae da ciò pretesto per respingere la verità e per rifiutarsi di cercare la verità.
Il fatto che la Bibbia concepisca Dio come spirito è un altro segno che per lei Dio non è tenebra ma luce. Infatti il concetto di spirito è connesso col concetto dell’intelletto e della coscienza, che sono la sede e gli organi della verità, rappresentata dall’immagine della luce.
Bisogna dire allora, al riguardo, che per la Bibbia la nostra mente può volgersi a Dio in due modi: o mettendosi alla sua presenza (Dio come un Tu) o ragionando di Lui nella teologia (Dio come un Egli). Il primo modo può avere due aspetti: o quello dell’incontro consolante e gratificante nella preghiera, nel colloquio con Lui e nella contemplazione, quando siamo puri dalla colpa, oppure l’incontro turbato con Lui quando siamo nella colpa.
Secondo il primo aspetto, la Scrittura mette in luce quanto la bellezza e la bontà di Dio sono attraenti: «Gustare e vedete come è buono il Signore» (Sal 34,9). In tal senso non è sbagliato parlare di «esperienza di Dio». Ecco che allora la Bibbia rappresenta Dio sotto l’immagine di ciò che può essere più amabile e gustoso, come il sole, il cielo, la roccia, la montagna, il miele, il vino, l’acqua, l’albero ombroso, la brezza rinfrescante, lo sposo, il padre.
Secondo il secondo aspetto la Scrittura parla allora di una presenza di Dio spaventosa mediante tuoni, fulmini, terremoti, tempeste, fumo e suoni assordanti. Queste immagini rappresentano la nostra indegnità di peccatori colpevoli davanti all’infinita bontà divina, e sono quindi anch’essi modi per guardare al mistero divino, mistero di giustizia e misericordia.
Se invece si tratta del discorso teologico, allora si tratta di parlare degli attributi divini secondo il metodo dell’analogia (la creatura immagine e somiglianza di Dio), della partecipazione (la grazia è partecipazione della natura divina), dell’eminenza (Dio eccelle sulle creature), della causalità (Dio conosciuto mediante gli effetti) e della negazione (Dio è in-finito, ossia non finito), arrestandosi nel silenzio quando la nostra indagine giunge a sperimentare l’incapacità della parola di esprimere quanto abbiamo sperimentato.
Il mistero nella Scrittura ha relazione col segreto. Infatti il segreto è una cosa nascosta e ignota. Per questo i Settanta traducono i termini ebraici raz o sod, con mysterion. In San Paolo il mysterion è il sacramento. Per questo la Vulgata traduce il mysterion paolino con sacramentum, in quanto il mysterion paolino si riferisce alla sacralità del divino. Paolo ha presenti anche i misteri pagani, che intendono esprimere l’iniziazione alla comunione con la divinità e l’esperienza di questa comunione.
La tenebra per la Scrittura ha una duplice valenza: da una parte può riferirsi al mistero divino: «nubi e tenebre lo avvolgono» (Sal 97,2). Ma per lo più esse rappresentano ciò che ripugna al pensiero, l’ignoranza, l’errore, la menzogna, il buio, il demoniaco.
C’è però una differenza tra la tenebra divina e quella demoniaca: che mentre la tenebra divina alimenta il pensiero e genera il dogma perché offre luce ed intellegibilità, la tenebra demoniaca si oppone al pensiero, lo fa deviare nell’errore e lo spegne per sostituirlo con la concupiscenza e i desideri carnali, dove lo spirito è pervertito, il concetto ed il dogma sono sostituiti con l’esperienza sensibile e con la sensualità, col sentimento, l’immaginazione e l’emozione. La tenebra divina, che è solo parziale perché lascia trapelare la luce, suppone l’umiltà, fonda la mistica e la contemplazione; la tenebra totale e il buio fondano il satanismo e la stregoneria, e sono la molla della superbia.
Affine al concetto di mistero nella Scrittura è l’enigma (gr.àinigma da ainìssomai che vuol dire dico copertamente, per allusione). L’enigma è un messaggio cifrato, criptico, misterioso, che ha bisogno di essere interpretato o decodificato da un esperto. Lo troviamo già nell’Antico Testamento[1]. Lo ritroviamo in S.Paolo quando parla della differenza tra come conosciamo Dio adesso mediante i concetti e le formule della fede e in cielo nella visione beatifica: «Ora vediamo come in uno specchio, come in un enigma (en ainigmati). Ma allora vedremo faccia a faccia» (I Cor 13,12).
L’enigma (anighma) propriamente è un messaggio cifrato; si tratta di decodificarlo; il mistero (raz o sod) nell’Antico Testamento è un messaggio segreto e riservato, da non divulgare o pubblicare, ma che può essere divulgato e pubblicato. In San Paolo al sod o raz veterotestamentario corrisponde il mysterion, che è il contenuto della rivelazione cristiana ed è la stessa realtà o verità divina significata dalle verità o proposizioni o articoli di fede. Il mistero viene predicato e conosciuto nella fede. È verità salvifica che prima di Cristo era nascosta, era stata preannunciata dai profeti e che Cristo ha rivelato.
La Genesi ci aveva già rivelato che Dio è il creatore del cielo e della terra, una verità di per sé raggiungibile dalla sola ragione, ma che di fatto è stata rivelata all’umanità solo dalla Bibbia. Chi si avvicinò di più a questa verità fra i pagani fu Aristotele col comprendere che Dio è causa prima e motore immobile. Ma egli si fermò alla causa del divenire e non pensò di interrogarsi sulla causa dell’essere.
Se inoltre nell’Antico Testamento Mosè ci rivela il Nome di Dio nelle categoria dell’essere, Cristo perfeziona questa rivelazione svelandoci il mistero di Dio nella categoria della persona, rivelandoci il Mistero Trinitario. Infatti con Mosè sapevamo già che Dio è persona, «una sola singola immutabile sostanza spirituale», come dice il Concilio Vaticano I, un sapere che del resto può essere già raggiunto dalla nostra ragione, anche se di fatto nessun filosofo o profeta prima di Mosè aveva intuìto o dimostrato questa verità.
Chi tra i pagani si era avvicinato maggiormente ad essa con la sola ragione fu Aristotele, che giunse a sapere che Dio è Pensiero del pensiero, ossia Autocoscienza assoluta, il che è come dire persona.
Fine Prima Parte (1/2)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 30 gennaio 2025
Non comprendiamo come si concili il fatto che la ragione ci dice che il mondo è finito e creato, eppure la ricerca scientifica ci mette davanti all’indefinitamente grande insieme con l’indefinitamente piccolo. Nel progredire del sapere abbiamo sempre davanti ad un tempo il comprensibile e l’incomprensibile, il noto e l’ignoto, una finitezza ed un’ulteriorità, il misurabile e il non calcolabile, il chiaro e l’oscuro, il determinato e l’indeterminato, l’effetto e non la causa. Cambiano gli oggetti, ma questo fenomeno gnoseologico si ripete sempre.
Ad ogni cosa che diventa nota, ecco balzarne sempre fuori un’altra, nuova, che ci era ignota, e così senza fine. Le cose devono essere numericamente limitate, ma noi ne scopriamo sempre di nuove. Come si spiega questo? Forse si potrebbe rispondere dicendo che i mezzi del nostro sapere, nella loro limitatezza, sono sproporzionati rispetto all’immensità dell’universo e alla piccolezza dei corpi elementari. Questo è vero.
Ma la risposta non sembra del tutto soddisfacente ... La questione non è così semplice, perchè ognuno di noi, se riflette su come funziona il nostro sapere nei confronti delle cose, si accorge che le cose stesse sono fatte in modo che il nostro saperne non è capace di capirle totalmente o contarle fino alla fine.
Immagine da Internet: "Copernico conversa con Dio", Jan Matejko (1872)
[1]Nm 12,8; I Re 10,1; Sal 49,5; Pr 1,6; Sap 8.8; Sir 39,3; Ez 17,2; Dn 5,12.
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