Diritti dell’uomo e diritti di Dio
Sovvertimento e restaurazione nella Rivoluzione Francese
Prima Parte
Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli
Mt 23,8
Rendete a Dio quello che è di Dio
e a Cesare quello che è di Cesare.
Mt 22,21
Deposuit potentes de sede
Lc1,52
Che cosa è la rivoluzione?
Gli antichi Romani distinguevano un diritto umano da un diritto divino (ius et fas). Tale distinzione è stata ripresa e arricchita dal cristianesimo, il quale ha collegato ragione, diritto, legge e giustizia. Il cristianesimo pertanto distingue una ragione umana da una ragione divina, un diritto umano da un diritto divino, una legge umana da una legge divina e una giustizia umana da una divina.
È stato col razionalismo cartesiano che è sorta una teoria del diritto, della legge e della giustizia indipendente da Dio e pertanto, contrariamente agli intenti dichiarati, sorgente di violenza, tirannia ed ingiustizia. Questo razionalismo aveva inquinato la Corona francese così da ingenerare un regime tirannico, ma ancor più debitori a Cartesio, mediante la massoneria, furono i rivoluzionari che abbatterono la monarchia, così da dare sì alla Francia un regime repubblicano, ma viziato dal razionalismo massonico e liberale.
L’uccisione di Luigi XVI fu un tirannicidio o un regicidio? Il Papa Pio VI deplorò amaramente il fatto e considerò il Re come un martire. Commovente è il testamento spirituale del Re redatto pochi giorni prima della morte. Certamente egli morì per non aver voluto accettare la Costituzione civile del clero, ma è esente da colpe per quanto riguarda il suo operato come sovrano? Egli voleva mantenere la religione cattolica come religione di Stato, mentre la Rivoluzione volle la libertà di religione. Ma anche il Papato fino al Concilio Vaticano II sostenne la religione di Stato come preferibile alla libertà religiosa.
Per poter parlare adeguatamente della Rivoluzione francese occorre che chiariamo prima che cosa si deve intendere per rivoluzione e in particolare per rivoluzione sociale, quale appunto è stata la Rivoluzione francese.
La rivoluzione sociale in generale è un’insurrezione armata che si propone di rovesciare mediante l’uso della forza un regime supposto tirannico ed instaurare la libertà dei cittadini e la retta pratica della giustizia. È un mutamento sociale radicale attuato con l’uso della forza, un mutamento legislativo tale da sostituire i vecchi princìpi di condotta con nuovi che si suppongono migliori e più progrediti.
Secondo S.Tommaso la legge è un ordine della ragion pratica ordinata al bene comune promulgata dal principe, avente valore coattivo al fine di indurre efficacemente i cittadini alla virtù[1]. È chiaro che l’atto umano di sua natura è volontario e libero. Tuttavia il principe, per il bene stesso della persona, ha il diritto e il dovere di sanzionare la promulgazione della legge, senza che ciò costituisca necessariamente violenza o tirannia, salvo il caso che l’ordine imposto sia ingiusto o la pena annessa sia eccessiva.
Una rivoluzione è giusta e doverosa se è l’abbattimento con la forza in nome della volontà popolare[2] di un regime che abusa della sua autorità , si impone con la violenza ed è violatore del diritto. San Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio del 1968 insegna che a certe condizioni la rivoluzione può essere legittima.
Per definire meglio che cosa è una rivoluzione sociale, è interessante confrontarla con un fenomeno simile, che è quello della guerra civile. Che cosa succede in una guerra civile? Anche nel suo corso può avvenire mediante l’uso della forza un profondo cambio di regime, ma a prezzo di una grave divisione interna del popolo o della nazione con se stessi. Un popolo perde in quel momento la coscienza di sé e dei propri valori, si smarrisce, si trova nella confusione, sollecitato da due prospettive contradditorie, entrambe apparentemente buone: monarchia o repubblica? Socialismo o liberalismo? Cristianesimo o massoneria? Regime islamico o regime democratico? Stiamo con gli Americani o stiamo con i Russi?
In una rivoluzione c’è una guerra civile e una guerra civile è una rivoluzione. Ma qual è allora la differenza? Che il termine rivoluzione vuole esprimere un risultato che si ritiene positivo, un progresso, mentre guerra civile dice di per sé soltanto smarrimento, violenza e conflitto e quindi esprime qualcosa di spiacevole e doloroso. Nessun popolo, che non abbia smarrito la propria dignità , può volere la guerra civile, che è una specie di suicidio. Invece può volere una rivoluzione per liberarsi da un regime tirannico o da una schiavitù allo straniero.
Può accadere tuttavia in una rivoluzione che vengano intaccati o sovvertiti princìpi o valori fondamentali, per cui non si verifica un progresso ma un regresso. E allora, senza smentire le conquiste fatte, occorre recuperare quei valori e tornare ad applicare quei princìpi, per salvare la vita della nazione e assicurarne la prosperità .
Ciò mette un campo la questione importantissima in etica sociale della volontà popolare, che è connessa col concetto di «sovranità popolare» e quello russoiano di «volontà generale». Dice un antico motto: vox populi, vox Dei. È vero? Ha qualcosa di vero, perché è vero che i popoli sanno conservarsi e prosperare in base alla ragione naturale e alla saggezza popolare, che esprime dei buoni governi che li dirigono. Ogni popolo possiede convinzioni etiche comuni o prevalenti, che gli consentono di vivere e perdurare dignitosamente. Esiste una coscienza popolare che sta alla base della sanità di un popolo e gli consente di autogovernarsi e perdurare nella sua identità per secoli.
Luci e tenebre della rivoluzione francese
La ragione cartesiana fondata su sé stessa
Sappiamo tutti che il giudizio sulla Rivoluzione francese non è facile. Essa fu un fenomeno storico di estrema complessità , dove agirono fattori di ogni genere: ideologici, spirituali, morali, politici, economici e religiosi. Su di lei da allora si è accumulata un’immensa letteratura, che ha prodotto i giudizi più contrastanti, spesso passionali ed unilaterali, tanto vivi sono gl’interessi che essa pose in gioco.
Ma appunto per questo è sommamente importante non scoraggiarsi davanti alla difficoltà di esprimere giudizi, ed è invece importante uno sforzo fiducioso di obbiettività , di ricerca, di riflessione e di chiarimento, seppur fatto con modestia e pronti a rivedere le proprie opinioni. Tuttavia la Rivoluzione francese resta una lezione fondamentale per chi vuol capire di che cosa lo spirito umano è capace nel bene come nel male nel corso della storia dei popoli e delle nazioni.
Possiamo dire in sintesi che nel giudizio da dare sulla Rivoluzione francese dobbiamo stare attenti a evitare due errori opposti ovvero due visioni parziali ed unilaterali: o quello di chi la giudica un fenomeno collettivo di sanguinaria ingiustizia e di sfrenata empietà o quello di chi la giudica una poderosa rivendicazione della dignità umana, del suo bisogno di essere libera dalle tirannidi, una svolta storica nella fondazione del diritto degli Stati e dei princìpi del governo civile, una forte affermazione di giustizia sociale e di attuazione dei diritti dell’uomo. In realtà nella Rivoluzione francese c’è stata l’una e l’altra cosa.
Nei confronti della Rivoluzione francese, quindi, non si tratta né di opporre una «controrivoluzione» reazionaria e indietrista, la quale, puntando l’occhio solo sui valori veri o presunti da essa sovvertiti, nega non senza una certa animosità la realtà del progresso storico da essa provocato.
E neppure è saggio assumere l’atteggiamento modernista e idolatrico di colui il quale crede ingenuamente che la Rivoluzione abbia segnato per la prima volta nella storia la via sicura dell’umana felicità , via finalmente trovata dopo l’oscurantismo e la barbarie medioevali. La Rivoluzione francese è un fenomeno umano come ogni altro, dove il buono è mescolato al cattivo. Si tratta semplicemente di separare l’uno dall’altro con saggezza, pazienza e discernimento. Per certi aspetti segna un progresso, ma per altri un regresso.
L’anima dottrinale della Rivoluzione francese fu la famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789. Essa era ispirata alla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 e avrà il suo sviluppo e coronamento – purificata dagli errori - nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Successivamente questa Dichiarazione fu oggetto di lode ed approvazione da parte della Chiesa[3].
I lati positivi e quelli negativi della Rivoluzione francese sono la conseguenza degli aspetti positivi e di quelli negativi della Dichiarazione del 1789. Sappiamo come dopo la caduta di Napoleone, che tentò di esportare in Europa con le armi i princìpi della Rivoluzione, il famoso Congresso di Vienna del 1815 tentò di riportare al potere i governi spodestati dalle armate napoleoniche.
Nel frattempo si diffuse in Europa una reazione anche all’illuminismo, che era stato l’ispiratore del furore rivoluzionario nel suo egualitarismo astratto che in nome della giustizia aveva schiacciato la giustizia. Nacque dalla Germania il turbinoso movimento romantico in associazione con l’idealismo tedesco, orientato a sostituire il sentimento e la libertà soggettiva al razionalismo illuminista.
Nell’’800 nasce la contrapposizione politica tra destra e sinistra, della quale soffriamo ancor oggi, un dualismo che oppone conservatori e progressisti., anche se la loro coesistenza dovutamente moderata dai princìpi costituzionali, serve al buon ordine del sistema sociale, il quale risulta effettivamente dal concorso moderato di queste due forze di per sé reciprocamente complementari.
Nel contempo accanto al liberalismo massonico restava vivo il populismo rivoluzionario, che presto avrebbe fatto sorgere il socialismo e il marxismo. Il senso religioso ebbe una ripresa orientata sul sociale, mentre la cultura cattolica stentava ad avviare un dialogo col pensiero contemporaneo. Ciò causò nella Chiesa un’esagerata opposizione alla modernità , che sarà sanata solo con l’avvento del Concilio Vaticano II.
La posizione della Rivoluzione francese
nei confronti del ceto nobiliare.
La Dichiarazione non nega che i più meritevoli per virtù o per capacità , siano degni di governare la cosa pubblica, ma sembra non riconoscere adeguatamente la possibilità che una dinastia nobiliare associ la nobiltà di sangue a una nobiltà di virtù nel campo del governo civile.
La Dichiarazione infatti non tiene conto del fatto che è giusto che la cura del bene comune e il governo di una nazione siano affidati ai cittadini più capaci ed è giusto che i figli di costoro, se conservano la capacità del padre, si assumano il compito di governare la nazione e di prendersi cura del bene comune. Di fatto, nella storia delle nazioni si dà l’esistenza di famiglie che si distinguono per speciali capacità che le rende degne di governare e prendersi cura del bene comune. I figli, per la buona educazione ricevuta, ereditano le qualità dei padri e le trasmettono a loro volta ai figli.
I degni e i capaci hanno il diritto e il dovere di presiedere e comandare, anche se non hanno avuto antenati che ne fossero all’altezza e i discendenti possono perdere la detta capacità o le qualità necessarie per governare. Tuttavia a volte si verifica il fenomeno di una serie più o meno lunga di generazioni successive originate da un capostipite e che tuttavia possono decadere ed estinguersi. Si attua così quella forma di governo che si dice aristocratica.
Il governante ha il diritto e il dovere di comandare ciò che è giusto e i princìpi e le norme di ciò che è giusto sono contenuti nel codice fondativo o costitutivo della vita giusta e ordinata dei cittadini in ordine all’attuazione del bene pubblico o comune della nazione.
Come è giusto che siano le famiglie più capaci a governare una nazione, altrettanto è giusto che da esse emerga la famiglia reale, che si suppone capace di governare la nazione. Da qui ha fondamento l’istituto monarchico.
Il sistema monarchico suppone la permanenza di una dinastia, cosa che può risultare precaria. Da qui la validità del sistema repubblicano, dove il governante e la classe di governo, elette dal popolo, non sono necessariamente garantiti da una dinastia o dalle famiglie nobili, ma ciò non toglie che possano possedere le qualità adatte ai compiti di governo.
La questione
dell’uguaglianza
Circa l’uguaglianza si pone un delicato problema di giustizia, perché certamente ad uguali va dato l’uguale, ma ai diversi va dato il diverso, perché se vien dato l’uguale, si fa ingiustizia. Infatti la Dichiarazione riprende il concetto russoiano di uguaglianza, circa il quale Maritain osserva che Rousseau
«confonde uguaglianza e giustizia, distruggendo la giustizia. La giustizia infatti implica una certa uguaglianza, un’uguaglianza geometrica o di proporzione (trattare ognuno proporzionalmente al merito) e non un’uguaglianza aritmetica o di grandezza assoluta (trattare ognuno identicamente qualunque ne sia il merito); di modo che la confusione della giustizia con questa seconda specie di uguaglianza, con l’uguaglianza pura e semplice, distrugge completamente la giustizia»[4].
Certo ogni individuo è diverso dall’altro, questo è evidente. Esiste anche un più o un meno, ossia esistono disuguaglianze anche nei talenti e nelle capacità e nei meriti dei singoli; anche questo è evidente.
La Dichiarazione afferma che le «distinzioni» sono ammesse, ma solo quelle giustificate dall’«utilità comune». Anche questo è giusto: perché c’è il medico, l’avvocato o il parroco? Per il bene comune. Se per nobiltà intendiamo l’eccellenza in certe capacità , la Dichiarazione non è contro la nobiltà in tal senso.
La Dichiarazione da una parte ha prodotto del bene, ma dall’altra ha fatto anche del male. Da una parte ha messo in luce che, se è giusto che siano i migliori a governare e se è naturale che esistano tra gli uomini capacità disuguali ossia più o meno accentuate o elevate, e meriti più o meno grandi, non è detto che questi migliori o più capaci o meritevoli siano necessariamente i membri di una medesima famiglia, nella quale il potere si trasmetta di padre in figlio, ossia non è detto che il passaggio del potere di governo sia legato a una dinastia basata sul sangue, a un casato che perdura nel tempo o nei secoli; vale a dire che non è necessario che i governanti discendano da antenati governanti e abbiano il diritto di trasmettere ai figli il loro potere di governo, ma i migliori e i più capaci possono essere persone senza antenati governanti, elette dal popolo.
È vero infatti che siamo tutti uguali in quanto membri della medesima umanità , in quanto la natura di ciascuno è la medesima natura umana di animale ragionevole; ma nel concreto ognuno attua questa natura a diversi livelli di perfezione, dal che si verificano disuguaglianze, che non sono necessariamente ingiustizie o discriminazioni da riparare o ingiusti privilegi da togliere, ma si tratta di cose naturali, che vanno trattate secondo una giustizia proporzionale.
Se uno ha inclinazione alla medicina o all’avvocatura, è giusto che diventi medico o avvocato; non sarà un favoritismo il titolo che gli viene assegnato e i poteri e facoltà speciali che acquisisce nei confronti del prossimo. Altrimenti, ingannati da un falso egualitarismo, rischiamo di impedire al prossimo che ha attitudine ad una data attività in un dato campo di ottenere il titolo corrispondente per non dar ombra a coloro che quella attitudine non posseggono.
La Dichiarazione inoltre non fu contro la famiglia; pose invece in luce il fatto che la vera nobiltà di una famiglia non dipende dal sangue ma dalla virtù. La nobiltà , quindi, non è un valore biologico ereditario, un’eredità fisica nei discendenti, ma può essere acquistata solo con la buona volontà , il rispetto della legge, l’acquisizione di meriti, il traffico dei propri talenti, e la correzione dal vizio.
In una società c’è chi è più o meno dotato, chi è più o meno laborioso o industrioso o virtuoso ed è giusto che ciò sia pubblicamente riconosciuto, e valorizzato. Qui non c’è offesa all’uguaglianza. Questo è un campo dove invece riconoscere le differenze è giustizia.
La Dichiarazione tuttavia non dà spazio a comprendere che esistono tra noi distinzioni naturali, diversi gradi di capacità o di attitudini. Vi sono in ciascuno di noi inclinazioni più o meno forti alla virtù, per cui alcune famiglie vengono a distinguersi al di sopra delle altre per virtù e così si costituisce legittimamente il ceto della nobiltà , la famiglia nobile e l’aristocrazia.
E non si può escludere affatto, come effettivamente avviene in tanti casi, che i valori morali o culturali eminenti di una data famiglia, grazie a una buona educazione e alla conservazione delle tradizioni di famiglia, si trasmettano di generazione in generazione, anche per la durata di secoli.
Famiglie nobili di questo genere non hanno forse diritto di regnare? I popoli stessi, grati dei loro benefìci, lo desiderano e lo vogliono. Perché la Chiesa ha canonizzato re e regine? Se certe dinastie durano, è perchè le stesse popolazioni, sono a loro affezionate e grate per il loro buon governo.
E perchè non riconoscere tra i diritti umani anche quello che una dinastia benemerita perduri e sia rispettata? Se una famiglia, grazie ai suoi meriti ed acclamata dal popolo è riuscita a salire al potere e a fare del bene, perché mai il popolo non dovrebbe gradire che essa si perpetuasse nei suoi discendenti? Così sono nate nobili famiglie che son durate anche secoli. Certo sarebbe ipocrisia e sopruso conservare titoli nobiliari ai quali non corrisponde l’adeguato merito. Certamente una famigli nobile può decadere e dare scandalo. Solo in questo caso essa perderebbe i suoi titoli di nobiltà .
Nella Dichiarazione dei diritti del 1789 non si fa parola della fratellanza. Essa appare nella Dichiarazione dei diritti e doveri del cittadino, della Costituzione del 1795, come terzo elemento del motto repubblicano, e definita così: "Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi" (cosiddetta etica della reciprocità ). Si tratta di un termine di evidente risonanza evangelica, anche se è chiaro che l’ideale dell’uguaglianza e della libertà di trova già nel Nuovo Testamento. Si pensi per esempio alla dottrina di San Paolo sulla libertà . Quanto all’uguaglianza, si pensi solo a questo passo:
«Qui non si tratta di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. Per il momento la vostra uguaglianza supplisca alla loro indigenza, perchè anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza e vi sia uguaglianza, come sta scritto: colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno» (I Cor 8, 13-15).
Fine Prima Parte (1/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 2 gennaio 2025
L’anima dottrinale della Rivoluzione francese fu la famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789. Essa era ispirata alla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 e avrà il suo sviluppo e coronamento – purificata dagli errori - nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo proclamata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Successivamente questa Dichiarazione fu oggetto di lode ed approvazione da parte della Chiesa.
I lati positivi e quelli negativi della Rivoluzione francese sono la conseguenza degli aspetti positivi e di quelli negativi della Dichiarazione del 1789.
Uno dei punti cardine della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 fu la proclamazione e la promozione dell’uguaglianza fra gli uomini: «Art. 1 – Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti»: gli uomini sono tutti uguali ed hanno gli stessi diritti.
L’uguaglianza della quale parla la Dichiarazione è evidentemente l’uguaglianza di natura: tutti hanno la medesima natura umana specifica con i suoi fondamentali bisogni, diritti e doveri. La legge morale è la stessa per tutti. È proibito pertanto fare accezione di persone. I privilegi devono essere giustificati da ragionevoli motivi e non effetto di discriminazioni, favoritismi o parzialità .
Ma la Dichiarazione ha prodotto anche danni ed ingiustizie gravissime per una malintesa concezione dell’uguaglianza umana. Ha voluto vedere nella Chiesa cattolica il sostegno di un regime tirannico basato sul fanatismo e l’irrazionalità , confondendo l’ossequio che il cristiano presta a Dio con una servile soggezione a chi sta al potere.
Nella Dichiarazione dei
diritti del 1789 non si fa parola della fratellanza. Essa appare nella Dichiarazione
dei diritti e doveri del cittadino, della Costituzione del 1795, come terzo
elemento del motto repubblicano, e definita così: "Non fate agli altri ciò
che non vorreste fosse fatto a voi" (cosiddetta etica della reciprocità ).
Si tratta di un termine di evidente risonanza evangelica, anche se è chiaro che
l’ideale dell’uguaglianza e della libertà di trova già nel Nuovo Testamento. Si
pensi per esempio alla dottrina di San Paolo sulla libertà .
Immagini da Internet:
- Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, 1776
- Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, 1789
[1] Sum.Theol., I-II, q.90. aa.2-3.
[2] Lex debet habere vim coactivam ad hoc quod efficaciter inducat ad virtutem. Hanc autem virtutem s coactivam habet multitudo vel persona publica, ad quam pertinet poenas infligere, Sum.Theol., I-II, q.90, a.3, 3m.
[3] Vedi Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana 2004, p.81.
[4] Tre riformatori. Lutero Cartesio Rousseau, Morcelliana, Brescia 1964, p.166.
Caro padre Giovanni,
RispondiEliminaho appena iniziato a leggere il suo articolo in parti separate sulla Rivoluzione Francese, e sono appena arrivato al paragrafo "La posizione della Rivoluzione francese nei confronti del ceto nobiliare", al quale vorrei riferirmi in questo che vuole essere la mia rispettosa e fraterna obiezione, se me lo permette.
Nella lettura delle sue pubblicazioni, mi ha sempre sorpreso la sua capacità di amalgamare l'indefettibile rispetto verso il Magistero della Chiesa e lo sforzo sincero per riconoscere i valori della modernità , impegnandosi nello stesso tempo a mantenersi alla buona riparazione degli estremi, sia il Modernista che l'Indietrista.
Tuttavia, in questo paragrafo sulle classi nobiliari, tendo a dissentire con lei.
Gli argomenti che lei adduce per sostenere attualmente, nel 2025, l'istituto della monarchia, mi sembrano molto deboli. Credo che lei stesso lo riconosca affermando in qualche passo della sua riflessione la precarietà di sostenere ancora la validità delle dinastie regnanti.
In fin dei conti, come mi sembra di capire alla fine le sue riflessioni su questo paragrafo, tutto si riduce all'EDUCAZIONE e non all'EREDITÀ. Voglio dire: se è possibile l'esistenza di una altissima capacità per il degno e giusto ufficio di governare nel fondatore di una dinastia, non è l'EREDITÀ (la parentela, la filiazione) che assicura nel figlio la stessa capacità del padre per il governo, ma l'ISTRUZIONE che può ricevere, che non è assicurata da nessuna educazione, nemmeno da educarsi nelle migliori scuole e università europee... Bisogna fornirgli gli "esemplari" in cui sono diventate le attuali dinastie britanniche, spagnole, olandesi, belghe, ecc...
Del resto, il fatto dell'attuale esistenza di monarchie costituzionali, dove il governo è di fatto portato avanti dai rappresentanti del popolo, rende irrilevanti (e sempre eccessivamente onerose per il popolo) Il mantenimento di quelle famiglie dinastiche...
Sicuramente lei mi obietterà e mi indicherà dove sbaglio.
Caro Don Silvano,
Eliminaho detto anch’io nel mio articolo che ciò che giustifica una dinastia non può essere soltanto il sangue, ma è soprattutto la virtù che fonda delle tradizioni morali, che danno alla dinastia un prestigio morale che le merita affetto e devozione da parte del popolo e della classe nobiliare.
Per quanto riguarda le moderne monarchie costituzionali, mi sembra una cosa saggia la divisione del potere tra il re e il primo ministro, perché è una cosa che permette al re di restare al di sopra dei contrasti politici e quindi esente da responsabilità nel caso di errori politici. Nello stesso tempo al re può essere consentito di dare al paese la politica di fondo. Per quanto riguarda le spese della casa reale, è chiaro che oggi come oggi le si chiede quella sobrietà , che un tempo non esisteva.
In ogni caso il principio monarchico, già teorizzato da Aristotele, è essenziale a qualunque forma di regime politico, non necessariamente nella forma di una dinastia, ma comunque come principio di unità della molteplicità , la quale, come già osservava Aristotele, non è sufficiente da sola a garantire l’unità , ma occorre concretamente una sola persona, che sia effettivamente rappresentante del popolo e che sappia rispondere sia a Dio che al popolo.