Il punto di contatto fra cristianesimo e idealismo
Terza Parte (3/3)
Cartesio confonde il pensare col volere
Dunque nessuna confusione del conoscere col fare o col volere, come invece si avrà nell’idealismo a partire da Cartesio, per il quale l’intelletto non è necessitato all’assenso dall’evidenza, ma è forzato dalla volontà ad accettare una tesi circa la quale l’intelletto dubita.
Si parla a proposito di Cartesio di dubbio metodico. Ma in realtà, nonostante l’apparenza contraria, le cose non stanno così. Cartesio ipotizzare dubbi assurdi per poi scartarli. Anche Tommaso prospetta una universalis dubitatio de veritate[1] per poi scartarla come assurda. Invece Cartesio la prende sul serio e pretende di praticarla nel momento stesso in cui ci propone come certezza primaria ed assoluta il suo cogito.
Cartesio non dubita provvisoriamente in vista di conseguire verità e certezza, ma dubita per principio e in modo gratuito e irragionevole. Infatti il cogito non ha oggetto, perché equivale a dubito, e il dubbio semplice oscillazione tra il sì e il no. Da qui, tra l’altro, la doppiezza che nasce dal metodo cartesiano.
Dobbiamo allora dire che la tanto vantata certezza cartesiana non è effetto della presenza dell’essere, ma di una decisione della volontà, la quale dà per certo non ciò che si rivela esser certo e che è sensibilmente, oggettivamente ed evidentemente certo, ma ciò che la volontà vuole che sia certo, giacchè se cogito vuol dire dubito, come fa l’intelletto a risolvere il dubbio? Se l’intelletto nel cogito non ha un oggetto, dove e come fonda una certezza oggettiva? La certezza di dubitare non serve a niente, se non si risolve il dubbio in base all’evidenza dell’essere.
La certezza cartesiana non è una vera certezza, ma è la sicumera di chi vuole imporre agli altri le proprie idee. Cartesio si caccia nei guai da solo col dubitare delle più elementari evidenze, pretendendo poi di ritrovare tutto con una soluzione forzata, senza lasciare che il dubbio si risolva da sé grazie all’evidenza dell’oggetto.
Una concezione idealista della creazione
Il realismo tomista secondo Bontadini troverebbe la sua fondazione rigorosa non in Aristotele, ma in Parmenide, del quale Aristotele non seppe apprezzare la potenza speculativa, per la quale Parmenide avrebbe colto il valore dell’essere ad un livello di maggior coerenza di Aristotele, il quale, accettando la realtà del divenire, non si sarebbe accorto della sua contradditorietà, così da tradire quel principio di non-contraddizione che egli pure sosteneva, ma che a giudizio di Bontadini sarebbe stato affermato con maggior rigore da Parmenide.
È vero che Aristotele non seppe cogliere la possibilità di un einai sussistente che era offerta da Parmenide. Ma del testo è comprensibile come l’essere parmenideo nel suo monismo panteista abbia suscitato lo sdegno di Aristotele, mentre San Tommaso che conobbe Parmenide solo attraverso Aristotele, non poté far altro che seguire il giudizio severo di Aristotele.
Ma possiamo esse certi che Tommaso, se avesse potuto accedere ai testi in greco di Parmenide dei quali disponiamo oggi, già istruito sull’ipsum esse di Es 3,14, non avrebbe mancato di vederlo anche in Parmenide e vi avrebbe trovato, come fece Heidegger, la differenza ontologica fra l’ente e l’essere, che ad Aristotele, fermo sul suo ente, era sfuggita, mentre per Aristotele l’einai non è altro che copula del giudizio; mentre da solo senza un soggetto e un predicato, non significa nulla[2].
Quanto a Bontadini, egli fece sua da Heidegger questa scoperta e alla luce dell’essere parmenideo si assunse l’impegno di affrontare l’ardua dottrina della creazione del mondo da Dio, caposaldo della metafisica tomista e della fede cristiana, in evidente contrapposizione all’attualismo gentiliano dell’autoctisi.
Occorre però osservare che senza le categorie aristoteliche dell’atto e della potenza, dell’essenza e dell’essere, della sostanza e degli accidenti, della materia e della forma, è impossibile spiegare il divenire, la realtà materiale e la molteplicità.
Senza l’uso delle suddette nozioni, il divenire appare contradditorio. Ma Bontadini parte proprio da questa impressione per dimostrare l’esistenza di Dio come scioglimento della contraddizione che vi sarebbe se considerassimo il divenire come originario.
Così con queste premesse parmenidee in realtà la dottrina della creazione perde la sua conformità col dogma cattolico, cioè perde la sua densità ontologica e diventa un ente di ragione, dove scompaiono la causalità efficiente, materiale e finale e restano solo quella formale ed esemplare. Restano solo il relativo e l’assoluto, il tutto (o intero) e le parti, il positivo e il negativo, l’essere e il non-essere, l’essere e l’apparire.
Limitarsi a queste sole categorie non comporta una rigorizzazione del discorso, ma un impoverimento per cui la mente si ferma e si chiude nel mondo delle idee come fossimo davanti a un teorema di geometria o a uno schema di logica, e lascia fuori la realtà. Bontadini ha un bel parlare di creazione, di distinzione fra il mondo e Dio, di libertà dell’atto creativo. Il risultato è che abbiamo l’ideale senza il reale, una metafisica senza la fisica, l’astratto senza il concreto, l’universale senza il singolare, la quiete senza il movimento.
Inoltre, equivocando sul motto «dal nulla non viene nulla», trascura il fatto che la preposizione italiana «da» non significa solo il lat. ab, ossia l’agente, ma anche ex, ossia la provenienza, l’origine o derivazione. Comprendendo l’impossibilità che il nulla causi qualcosa, gli sfugge che ciò non significa necessariamente che dal nulla non possa provenire nulla. Dio infatti, nella sua onnipotenza creatrice, fa precisamente derivare l’essere creato dal nulla, rende il suo essere da possibile a reale.
Ma Bontadini, vittima del suddetto equivoco, non riesce ad accettare la formula «creatio ex o de nihilo», perché appunto secondo lui il nulla non esiste, salvo poi ad indulgere all’idea di Severino, secondo il quale la formula creatio ex nihilo sarebbe «nichilistica», perché Severino non vede come sia possibile nell’atto creativo il passaggio dall’ente possibile non esistente all’ente esistente.
Se quindi prima c’è il non essere e poi c’è l’essere, non c’è alcuna contraddizione. Prima del 1941 non esistevo. Nel 1941 ho cominciato ad esistere. C’è qualcosa di contradditorio perché ho introdotto il tempo? Contraddizione ci sarebbe se essere e non-essere fossero simultanei. Si introduce dunque la simultaneità (l’essere nello stesso tempo) proprio per evitare la contraddizione e mostrare che nel divenire e nel creare non c’è alcuna contraddizione.
Severino piuttosto, che si vanta di esser più rigoroso di Aristotele e San Tommaso nel rispettare il principio di non-contraddizione, non sfugge alla contraddizione più ripugnante quando si rifiuta di considerare che il prima è prima del poi e non è simultaneo, mentre la contraddizione nasce proprio se togliamo il prima e il poi. Quindi, ben lungi dall’assicurare l’identità, l’assenza del prima e del poi è proprio quella che crea la contraddizione.
Ma purtroppo Bontadini segue Severino su questa linea: infatuato dell’essere eternalista parmenideo, anche lui vuol togliere irragionevolmente il riferimento al tempo dall’enunciato del principio di non-contraddizione, per cui il dire che un ente prima non c’è ed è solo ideato e poi c’è, sarebbe come dire che c’è e non c’è, il che è evidentemente contradditorio.
Non si accorge che enunciare quel principio a quel modo è un’assurdità[3], mentre bene aveva fatto Aristotele a riferire quel principio anche al tempo e al divenire, così da dare un’identità anche a queste dimensioni dell’essere e del reale. Ma il fatto è che per Severino come per Parmenide non c’è nulla di possibile o di potenziale, ma tutto è in atto.
Così Bontadini su tale base parmenidea cerca di elaborare un teorema della creazione che non faccia riferimento al nulla. È allora obbligato ad escludere la causalità efficiente, ossia la produzione dell’essere dopo il non essere e di limitarsi alla sola categoria della dipendenza o della relazione del creato al creatore, categoria che vale certamente dal punto di vista della creatura, ma non del creatore, il quale fa dipendere da Sé la creatura non solo logicamente o razionalmente, ma anche attivamente producendola dal nulla.
Un teorema metafisico o un teorema logico?
Ora il problema di Dio e della creazione implica che noi non ci muoviamo tra enti di ragione, ma fra enti reali extramentali, perché è di questi, che non abbiamo prodotto noi, che ci chiediamo la causa e non degli enti di ragione o delle idee, che siamo noi a produrre con la nostra mente nella nostra mente.
Con tutto ciò Bontadini sembra mostrare realismo quando parla di «esperienza», senza però chiarire che cosa intende con questo termine, se esperienza sensibile o esperienza interiore o esperienza intellettuale. Tiene molto inoltre al suo concetto di «Unità di Esperienza», ma anche qui non appare chiaro che cosa intende dire.
Sembrerebbe trattarsi di un’esperienza della unità e totalità dell’essere, che egli chiama anche «intero» (Dio e mondo), e che fa sempre pensare all’essere parmenideo, ma visto come sensibile, immaginabile, intellegibile ad un tempo. È realtà extramentale? Non pare. Per questo, nonostante l’apparente realismo, siamo sempre nell’orizzonte dell’idealismo.
D’altra parte Bontadini non avrebbe avuto difficoltà ad accorgersi dell’incontradditorietà del divenire, solo che avesse adottato la distinzione aristotelica della sostanza immutata e dell’accidente mutevole, della materia permanente dalla forma variabile o la dottrina del passaggio dell’ente dalla potenza all’atto, senza ostinarsi di interpretarlo alla luce dell’eternalismo e dell’immobilismo parmenidei.
Inoltre Bontadini col porre il mondo in Dio coeterno a Dio, ignora il dato di fede che l’atto creatore di fatto è avvenuto in un determinato passato; mentre se Dio avesse voluto, avrebbe anche potuto non creare il mondo, giacchè Dio è libero di creare o non creare. La creazione avrebbe potuto anche non avvenire, perché è atto della libertà divina; è effetto, come dice il Concilio Vaticano I, di «liberrimo divino consilio» e non è atto dell’essenza. Dio solo è necessario; il mondo è contingente; non esiste necessariamente. Ma è chiaro che assumendo il principio parmenideo per il quale l’essere non può non essere, il contingente diventa impossibile.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 22 marzo 2025
Il problema di Dio e della creazione implica che noi non ci muoviamo tra enti di ragione, ma fra enti reali extramentali, perché è di questi, che non abbiamo prodotto noi, che ci chiediamo la causa e non degli enti di ragione o delle idee, che siamo noi a produrre con la nostra mente nella nostra mente.
In Bontadini la creazione diventa un attributo dell’essenza divina. Dio diventa l’«Intero» (Dio+mondo). Col pretesto che il mondo nulla aggiunge a Dio, Dio non può essere concepito se non come creatore, perché il nulla non esiste, nulla esiste fuori di Dio ma tutto è in Dio; per cui la creatura non viene dal nulla ma viene da Dio.
D’altra parte, se la creatura è stata il termine dell’atto creatore, e l’atto creatore coincide con l’essere di Dio, non per questo essa è necessaria all’essenza divina, ma tra essa e l’atto c’è una distinzione di ragione, e anche la creatura è distinta dall’atto divino creatore del quale è stata oggetto venendo all’essere dal nulla. Se infatti la creatura coincidesse con l’atto creatore, dato che questo è Dio stesso, la creatura s’identificherebbe col creatore e si cadrebbe nel panteismo.
D’altra parte, la riduzione idealistica dell’essere al pensiero fa sì che la creazione cada solo sotto la categoria della causa formale ed esemplare, proprie del pensiero, e sia incompatibile con quella efficiente, propria dell’essere e dell’agire. Dio, la creazione e il mondo non sono più enti reali, ma solo enti pensati. Ora ci salviamo grazie a un Dio reale o un Dio pensato?
Immagini da Internet: Mosaici Battistero San Giovanni, Firenze
[1] Commento alla Metafisica di Aristotele, l. III, cap. I, lect. I, n.343, Edizioni Marietti, Torino-Roma 1964, p.97.
[2] Commento al Perì hermeneias di Aristotele, l. I, c. III, nn.71-73, Edizioni Marietti, Torino 1964, p.29.
[3] Il vero enunciato del principio non è l’essere non può non essere, perché questo lascia fuori l’identità del contingente, che è l’essere che può non essere, ma: l’essere non può essere e non essere simultaneamente sotto il medesimo aspetto.
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