Guido Mattiussi e Joseph Maréchal
Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant
alle origini del modernismo
Seconda Parte (2/3)
Che cosa volle fare Kant?
Kant ritenne che ai suoi tempi era giunto il momento che la ragione mettesse ordine in se stessa liberata da vane pretese o ingenue credulità, speciose illusioni, irragionevoli dubbi, mescolanza con fantasticherie, indisciplina logica, soggezione a superstizioni e fanatismi, capace di fare l’inventario dei suoi contenuti, dei suoi princìpi, delle sue operazioni e delle sue leggi, di misurare le sue forze e le sue risorse, di chiarire qual è il suo scopo, di determinare il suo ambito e i suoi confini, nel suo rapporto con i sensi, l’esperienza, la sua storia, la volontà e la realtà esterna.
Per Kant uscire dai limiti della ragione è illusione, follia, demenza, irrazionalità, immoralità. Superarli? Li supera con l’idea suprema della ragione, l’idea di un Dio, ente primo e supremo, fine ultimo, sommo bene, creatore, personale, provvidente, rimuneratore, onnipotente. Tuttavia la ragione non è superata e non è creata da questo Dio, che è immanente alla ragione la quale lo coglie come idea superando sé stessa.
Tuttavia per Kant la pretesa di dar realtà a questo ente supremo, che non è impossibile, ma la cui esistenza non può essere dimostrata, costituisce un’illusione naturale della ragione, la impiglia in antinomie e in raziocini dialettici sofistici e irresolubili. La ragione necessita di questo sostegno ultimo di tutte le cose, ma nel contempo le manca, così che nel contempo si apre quello che Kant chiama «baratro della ragione»[1]. Dal che vediamo come l’ottimismo razionalistico di Kant sia controbilanciato da un altrettanto tragico irrazionalismo, che fa pensare al dramma di Lutero e precorre la ragione dialettica hegeliana.
Ad ogni modo a Kant la ragione appare come un tutto completo in se stesso, fondata su se stessa, fine a se se stessa, regola a se stessa, capace di soddisfare se stessa con la forze che essa dispone per sua natura. Certo esistono le cose in sé. La ragione le contatta mediante i sensi. Esiste la natura esterna. Esistono gli altri, esistono i rapporti sociali. Esiste la religione. Esiste Dio. Esisto io col mio corpo. Ma tutto ciò, tuttavia, è controllato, sanzionato, catalogato, riconosciuto e convalidato dalla ragione.
Una scienza che Kant ritiene urgente sistemare e fondare è la metafisica. Egli non condivide in ciò lo scetticismo empirista di Hume ed invece, con la sua «rivoluzione copernicana». accetta la rifondazione della metafisica operata da Cartesio e ne accentua da una parte l’aspetto idealistico, mentre d’altra parte sostiene con la metafisica precartesiana l’esistenza evidente delle cose esterne. Il trascendentale non è più l’ente, ma il soggetto pensante.
Kant si era formato alla metafisica di Wolff[2], la quale, alla maniera di Cartesio, non partiva dalla constatazione delle cose per ricavare la nozione dell’ente, ma partiva dalla coscienza di sé e delle cose. Inoltre Wolff sulla questione dell’oggetto della metafisica non è chiaro, perché egli espone il suo pensiero in merito in due trattati, uno in tedesco, la Metafisica tedesca, e uno in latino, l’Ontologia, dove l’oggetto della metafisica è presentato in due modi differenti[3].
Infatti nella Metafisica tedesca egli non pone ad oggetto della metafisica l’ente, che in tedesco si può rendere con la parola seiende o wesen o Dasein. Usa invece il termine Ding o Sache, che significa «cosa», in latino res, da cui viene realtà, in tedesco Wircklicliteit.
Ora la cosa (res) non è esattamente l’ente (ens), ma è uno dei trascendentali, quello che si riferisce all’ente in quanto essenza. Ente, invece, non dice solo essenza, ma anche essere, che è l’atto dell’essenza.
Invece, nella sua Ontologia, scritta in latino, Wolff usa il termine ens per designare l’oggetto della metafisica, solo che per lui non è l’ente esistente in atto d’essere, e tanto meno è l’essere come atto d’essere, ma è l’ente possibile, nell’anima, che può essere attuato e divenire reale fuori dell’anima. Egli non nega quindi affatto l’esistenza della realtà esterna, solo che, come Cartesio, crede che non la si possa ricavare dall’esperienza sensibile, ma la si debba dedurre dall’autocoscienza.
Da qui noi comprendiamo come da questa metafisica possa scaturire l’idealismo al posto del realismo. Infatti è chiaro che il possibile appartiene al piano dell’ideale e non del reale[4] e se il primo oggetto del pensare è il possibile, il reale perde il primato che esso ha nel realismo, e diventa un derivato del possibile: l’idea diventa più importante della realtà. Opportunamente, quindi, in polemica contro l’idealismo, il Papa ci ha richiamato al primato della realtà sull’idea[5].
Wolff, come Cartesio, inverte e falsifica il processo del conoscere umano: noi cominciamo col conoscere le cose esistenti in atto, e da qui traiamo la nozione della loro possibilità. Non cominciamo a conoscere il possibile (ideale) per aggiungervi successivamente l’attuale (reale), ma attingiamo all’attuale, per capire successivamente che è l’attuazione del possibile. Spetta a Dio creatore e non all’uomo conoscere a priori l’idea delle cose e, se crede, scegliere fra di esse quelle che vuol realizzare creandole. Ma noi le attingiamo già create e solo conoscendole ne conosciamo la loro possibilità.
Kant crede peraltro alla possibilità del sapere scientifico certo ed apodittico, veritiero, necessario, immutabile ed universale e lo chiama «sapere a priori», cioè a partire da ciò che sta prima e che è più importante, ciò che è all’inizio. Egli però seguì Wolff e Cartesio nel ritenere che ciò che è prima nel valore o nella realtà, sia anche punto di partenza od oggetto originario del sapere, mentre invece in realtà noi cogliamo i massimi valori e l’esistenza stessa di Dio al termine di un ragionamento per induzione che parte dall’esperienza delle cose materiali, immediatamente percepite dai sensi, ossia, come si esprime Kant, procedendo «a posteriori», cioè da ciò che vien dopo nella scala dei valori, come sono le cose materiali rispetto alle spirituali.
D’altra parte Kant respinge quello che egli chiama «dogmatismo», ossia il fare affermazioni metafisiche non dimostrate. Con ciò Kant, influenzato dallo scetticismo di Hume, nonostante la sua volontà di vincere lo scetticismo, intende colpire non solo la metafisica cattolica ma anche quella wolfiana.
Egli infatti racconta di esser stato svegliato da Hume dal suo «sonno dogmatico». Egli si riferisce alla metafisica di Wolff, nella quale si era formato. Hume faceva presente a Kant la necessità di tener conto, nella scienza, dei dati dell’esperienza avvertendo di non avventurarsi in affermazioni che non siano garantite dall’esperienza e verificabili nell’esperienza. Senza questo aggancio all’esperienza, mossi dal desiderio di oltrepassarla, avvertiva Hume, noi viaggiamo tra le nuvole e le chimere credendo di raggiungere verità eterne ed assolute.
Ma Kant osserva contro Hume – e in ciò restava legato a Wolff – che in filosofia, in metafisica, in morale e in teologia noi non abbiamo bisogno di oltrepassare l’esperienza, perché noi apriori con la nostra ragione, grazie all’io penso cartesiano siamo già oltre l’esperienza sin dall’inizio del nostro pensare e giudicare. Secondo Kant la ragione conosce se stessa nella sua purezza già da sé, in base all’autocoscienza; essa sa già da sé ciò che è in lei, ciò che essa fa e sa senza bisogno di usare i sensi e di fare alcuna esperienza delle cose fuori di lei. L’esperienza serve per Kant come per Hume alla costituzione della fisica sperimentale, ma non è affatto necessaria alla fondazione della metafisica, della morale, della religione e della teologia.
Kant, quindi – e qui egli va contro Hume - non rinuncia a quella che egli chiama «ragion pura», cioè non rinuncia a un sapere a priori, universale, necessario e apodittico. Non accetta la gnoseologia di Hume secondo la quale nel conoscere la ragione è sempre connessa con l’esperienza sensibile, non funziona mai da sola; e se lo fa, si estranea dalla realtà.
Per Hume, come per Guglielmo d’Ockham, la molteplicità degli individui non è una perché tutti gli individui hanno la medesima essenza specifica, quindi in forza di un universale reale, ma per il semplice fatto di essere designati con un solo nome. Così, per esempio, per Ockham, non esiste l’uomo, ma esistono gli uomini. Ciò che noi chiamiamo natura umana non è qualcosa di reale comune agli individui, non è un universale, ma è semplicemente la parola con la quale noi designiamo l’insieme degli uomini, ognuno dei quali è diverso dall’altro, senza nulla avere in comune con l’altro se non la parola «uomo».
Kant, quindi, si accorge che Hume è incapace del vero sapere, che è scienza dell’universale; e tuttavia anche Kant è vicino al nominalismo senza raggiungerlo, perché anche per lui l’intelletto non coglie un universale reale, ma solo un concetto universale. L’essenza della cosa in sé resta ignota. Tuttavia Kant ammette l’universalità del sapere riflesso della ragione, nello stile cartesiano; ed è questa, secondo lui, la vera metafisica. Hume, invece, incapace di raggiungere l’universalità, resta bloccato come Ockham nell’individuo, per cui per lui non esiste un sapere inconfutabile e definitivo, ma il nostro sapere resta sempre fermo all’opinione e alla credenza, resta sempre falsificabile e bisognoso di essere corretto una volta che una nuova esperienza mostra la sua inconsistenza, e non è suscettibile di esser condiviso da tutti, perché ci sarà sempre qualcuno al quale la nostra tesi parrà dubbia o falsa.
Perché San Pio X accusò i modernisti di superbia?
Il motivo lo troviamo nel fatto che il Santo Pontefice attacca nei modernisti una teoria della conoscenza che pone l’io anziché il reale ad oggetto del sapere. Naturalmente il Papa, con questa accusa non ha la pretesa di giudicarli in foro interno, cosa riservata al giudizio divino: per cui è ovvio che egli non intende riprovare tutte e singole le persone ma gli errori.
Che cosa è infatti la superbia? È la volontà di primeggiare e ordinare tutto al proprio io considerato come l’assoluto, in base al concetto del proprio io come autosussistente e come base e fondamento di tutto. Ebbene, a che cosa porta l’«io penso» kantiano derivato dal cogito cartesiano se non a questa visione egocentrica e idolatrica dell’io?
L’accusa di fondo del Papa ai modernisti si riduce a questo grave rimprovero, che vuol essere anche un richiamo paterno al pentimento e alla conversione: abbandonare quel principio, che in fondo è il principio di quella che i cartesiani chiamano «filosofia moderna», che in realtà non è altro che una più raffinata ripresa dell’antico soggettivismo protagoreo; tornare a quella fede che hanno abbandonato, tornare a quella comunione ecclesiale che hanno interrotto, tornare a mettere al servizio di Dio e non di se stessi i doni ricevuti, memori del giudizio divino.
Segno di superbia è anche quella «smania di novità», della quale il Papa accusa i modernisti. Infatti il superbo, per emergere fra tutti, per farsi notare e per darsi dell’importanza, per suscitare l’attenzione e la meraviglia, per crearsi una fama universale ed imperitura, per ottenere da tutti lode e riconoscenza perenni, per apparire un genio e una guida dell’umanità, si atteggia e si spaccia per un luminare inaudito, un rivoluzionario radicale del sapere, che dona finalmente ai tempi futuri la luce della certezza e della verità assolute e definitive, il vero sapere, ad un’umanità vissuta fino ad allora nelle tenebre, nel dubbio o nell’incertezza. Gesù Cristo, davanti a questi luminari, fa la figura al massimo di un pallido precursore o di un maldestro abborracciatore.
L’enciclica lascia intendere che nella superbia la volontà si sostituisce all’intelletto. Infatti il principio dell’umiltà e dell’obbedienza è l’intelletto, il quale si arrende all’evidenza e alla dimostrazione, si adegua alla realtà delle cose come sono, si lascia guidare da ciò che le cose gli dicono e segue il cammino che gli indicano fino a giungere alla scoperta di Dio, del quale ascolta la parola e accetta la legge.
Con l’intelletto, mediante la ragione e l’applicazione del principio di causalità (per ea quae facta sunt, ossia a posteriori) noi ci eleviamo dalla conoscenza delle cose alla conoscenza di Dio (l’agostiniano transcende et teipsum), riconoscendoci sue creature. Quindi eleviamo sì a lui il nostro pensiero, ma con ciò stesso, scoprendo la grandezza di Dio e la nostra piccolezza, ci abbassiamo davanti a lui. Al contrario, il superbo, che confonde sapere ed essere, crede che elevandosi a Dio diventi Dio egli stesso. Siccome Dio precede il mondo, egli crede che il suo sapere apriorico di Dio sia la condizione di possibilità della conoscenza del mondo.
Invece, nel vero, sano ed umile trascendimento di noi stessi, noi ci trascendiamo non nel senso di negare i nostri limiti e pretendere di oltrepassarli con le nostre forze o con la pretesa di aumentare il nostro essere; non nel senso di innalzarci o esaltarci o superare noi stessi, ma nel senso che il nostro sguardo s’innalza verso l’alto, verso di Lui, verso l’Altissimo, verso Dio che nella sua infinità è al di là di ogni limite.
L’intelletto è un potere di interiorizzazione e di rappresentazione della realtà esterna. Con l’atto del conoscere, ciò che è fuori di noi, ciò che ci trascende, il trascendente, diventa in qualche modo, ossia immaterialmente e spiritualmente, immanente in noi.
Non è questa l’immanenza condannata dall’enciclica, ma è l’idea che Dio sia immanente nel nostro spirito per sua stessa essenza e non semplicemente in quanto rappresentato dal nostro intelletto. È ancora una volta la confusione idealistica del pensare con l’essere, la confusione dell’essere con l’essere pensato.
Non è la pietra ad essere nella mente, dice Aristotele, ma l’immagine della pietra. Qui può affacciarsi la tentazione della superbia: siccome abbiamo la facoltà di conoscere Dio, possiamo avere la tentazione di credere di essere Dio, confondendo così pensare ed essere. È la tentazione dell’idealismo e di Kant. È la superbia della quale parla la Pascendi.
La volontà, invece, è il potere che abbiamo di operare sulla realtà. Siccome la superbia ci spinge a ritenerci plasmatori e creatori della realtà e autori del nostro stesso io (causa sui), essa ci spinge a sostituire la funzione dell’intelletto, che è quella di ricevere, di adeguarsi, di assoggettarsi, di rappresentare, di imitare e di riprodurre, con quella della volontà, che è quella dell’ordinare, del trasformare, del comandare e del possedere.
Il superbo, allora, concepisce il conoscere non come atto dell’intelletto, ma del volere. La verità non è per lui effetto del sapere, ma della prassi. L’agire non è applicazione del previo sapere, ma è frutto dell’agire. Il sapere non riflette, non rispecchia, ma cambia e trasforma. Confonde l’attività, il dinamismo e l’intenzione dell’intelletto col dinamismo, col movimento, l’orientamento, l’inclinazione e la tensione del volere.
La superbia è ciò che motiva la filosofia kantiana, perché essa non è fondata sull’umile fedele accettazione e riconoscimento delle cose come sono, su di una base realistica, ma al contrario è fondata sull’assolutizzazione dell’io suggerita dal cogito cartesiano.
Kant spaccia per umiltà il suo rifiuto di oltrepassare i fenomeni per elevarsi alla conoscenza metafisica e teologica e vorrebbe fondare una metafisica e una teologia che si esauriscono nella coscienza che la ragione ha di sé e del proprio operare. La metafisica diventa antropologia e teologia, esattamente ciò che sarà ripreso da Heidegger e da Rahner.
Ma in realtà questa è la superbia di chi non vuol mettersi umilmente alla scuola dei sensi per consentire all’intelletto di elevarsi al livello dello spirito, ma, quasi egli fosse un puro spirito, pretende di trovare originariamente, aprioricamente ed immediatamente l’idea di Dio nell’autocoscienza dello spirito.
Fine Seconda Parte (2/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 26 dicembre 2024
Kant si era formato alla metafisica di Wolff, la quale, alla maniera di Cartesio, non partiva dalla constatazione delle cose per ricavare la nozione dell’ente, ma partiva dalla coscienza di sé e delle cose. Inoltre Wolff sulla questione dell’oggetto della metafisica non è chiaro, perché egli espone il suo pensiero in merito in due trattati, uno in tedesco, la Metafisica tedesca, e uno in latino, l’Ontologia, dove l’oggetto della metafisica è presentato in due modi differenti.
Infatti nella Metafisica tedesca egli non pone ad oggetto della metafisica l’ente, che in tedesco si può rendere con la parola seiende o wesen o Dasein. Usa invece il termine Ding o Sache, che significa «cosa», in latino res, da cui viene realtà, in tedesco Wircklicliteit.
Ora la cosa (res) non è esattamente l’ente (ens), ma è uno dei trascendentali, quello che si riferisce all’ente in quanto essenza. Ente, invece, non dice solo essenza, ma anche essere, che è l’atto dell’essenza.
Invece, nella sua Ontologia, scritta in latino, Wolff usa il termine ens per designare l’oggetto della metafisica, solo che per lui non è l’ente esistente in atto d’essere, e tanto meno è l’essere come atto d’essere, ma è l’ente possibile, nell’anima, che può essere attuato e divenire reale fuori dell’anima.
Da qui noi comprendiamo come da questa metafisica possa scaturire l’idealismo al posto del realismo. Infatti è chiaro che il possibile appartiene al piano dell’ideale e non del reale e se il primo oggetto del pensare è il possibile, il reale perde il primato che esso ha nel realismo, e diventa un derivato del possibile: l’idea diventa più importante della realtà. Opportunamente, quindi, in polemica contro l’idealismo, il Papa ci ha richiamato al primato della realtà sull’idea.
Wolff, come Cartesio, inverte e falsifica il processo del conoscere umano: noi cominciamo col conoscere le cose esistenti in atto, e da qui traiamo la nozione della loro possibilità. Non cominciamo a conoscere il possibile (ideale) per aggiungervi successivamente l’attuale (reale), ma attingiamo all’attuale, per capire successivamente che è l’attuazione del possibile. Spetta a Dio creatore e non all’uomo conoscere a priori l’idea delle cose e, se crede, scegliere fra di esse quelle che vuol realizzare creandole. Ma noi le attingiamo già create e solo conoscendole ne conosciamo la loro possibilità.
Immagine da Internet:
- La creazione, Battistero San Giovanni, Firenze
- Christian Wolff
[1] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza,Bari 1965, p.491.
[2] Vedi Metafisica tedesca, Edizioni Rusconi, Milano 1999, p.61-65.
[3] Per queste notizie, vedi l’introduzione alla la Metafisica tedesca.
[4] Il Gilson spiega tutto questo in L’être et l’essence, Vrin.Paris 1981, pp.166-180.
[5] La dipendenza dell’idea dalla realtà nell’Evangelii gaudium di papa Francesco, in PATH, 2014/2, pp.287-316.
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