La giustizia del Padre - Terza Parte (3/3)

 

La giustizia del Padre

Terza Parte (3/3)

 Mysterium Crucis

Morendo ha distrutto la morte

Dal Prefazio della Messa

 

Vexilla Regis prodeunt,

fulget Crucis mysterium

            Inno

 

Noi predichiamo Cristo crocifisso,

scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani

I Cor 1,23

Il mistero della croce è un mistero di sapienza, di amore, di giustizia, di misericordia, di salvezza e di gloria. Mistero di sapienza, perché denota un’intelligenza provvidenziale che ha saputo volgere in bene ciò che era conseguenza del male e progettare per l’uomo un destino migliore di quello che era previsto prima del peccato, utilizzando le conseguenze del peccato. Mistero di amore, perché Cristo si sacrifica per noi per amore. Mistero di giustizia, perché è riparazione dell’offesa fatta da noi al Padre e soddisfazione alla sua dignità. Mistero di misericordia, perché è espressione della misericordia del Padre nei nostri confronti. Mistero di gloria perchè per crucem ad lucem, perché per mezzo della croce meritiamo ed otteniamo la gloria di figli di Dio eredi della vita eterna.

La cosa misteriosa nel dogma della Redenzione, cosa che testimonia dell’onnipotenza e dell’infinita bontà di Dio, del Dio della vita e della gioia, è il fatto che qui la sofferenza, accettata per amore, per obbedienza, come soddisfazione, sconto ed espiazione del peccato, fatta propria da Cristo, libera dalla sofferenza, dal peccato e dalla schiavitù di Satana, conducendo l’uomo redento da Cristo e rinato nel battesimo, ad una gloria di eterna felicità nella visione celeste ed immediata della Santissima Trinità insieme con tutti i santi in paradiso, nei nuovi cieli e nella nuova terra della risurrezione gloriosa.

La sofferenza ripugna alla natura, la quale spontaneamente fugge o evita la sofferenza e, se capita, si adopera per alleviarla o toglierla in sé stessi e negli altri, anche negli animali o nelle piante. Ciò è un preciso dovere morale relativo alla cura che dobbiamo avere per il benessere fisico e per la salute, preziosi doni di Dio che ci mantengono in vita ed efficienti nelle nostre attività, anche se occorre evitare i piaceri smodati e le eccessive mollezze, essi pure dannosi alla salute o anche moralmente biasimevoli.

Da qui si motiva la nobile arte della medicina e non c’è che da lodare il progresso oggi in atto nel campo farmacologico concernente i sedativi, gli antidolorifici e gli anestetici. Non bisogna avere tanto in odio la sofferenza fino ad essere degli scansafatiche o al punto di cadere nel peccato, pur di evitarla, come avviene nell’eutanasia o ricorrere all’aborto o rifiutarsi di difendere la patria con le armi.

La virtù della temperanza, della fortezza, della pazienza, della penitenza e della religione e in generale la vita ascetica c’insegnano che non sempre la sofferenza è da fuggire, non sempre è un male, ma può essere anche amata e cercata con dovuta moderazione.

Il peccato è sempre un male assoluto da fuggire sempre e comunque, ma la sofferenza può, in unione con Cristo, diventare, se lo vogliamo, un bene redentivo, sorgente di grazia e pegno di vita eterna. Esiste pertanto nel culto cristiano l’adorazione della croce di Cristo. Grande perfezione cristiana è quella di parlare con San Francesco, di «sorella morte» non per una forma morbosa di necrofilìa, ma con i sentimenti con i quali Cristo ha affrontato la morte. Egli ha voluto morire non in odio alla vita, ma proprio per procurarci la vita.  Ha sudato sangue davanti alla morte; eppure è stato consolato dagli angeli e dal Padre, che ha accolto il suo sacrificio.

Certo il sacrificio non è amore della sofferenza per sé stessa, il che sarebbe masochismo, ma amore della sofferenza in quanto abbracciata o per motivi ascetici o penitenziali o espiativi o per riparare o scontare le colpe o per soddisfare per i nostri peccati.

Offrire sacrifici può essere doloroso, anche se non sempre necessariamente. L’offerta del sacrificio eucaristico, la Messa può essere anzi cosa sublime e consolante per lo spirito, alto godimento estetico, e tuttavia ricordiamoci che l’assistenza alla Messa o la celebrazione della Messa sarebbero farisaismo, se non fossero congiunte con l’offerta della nostra croce quotidiana.

Rahner segue l’interpretazione hegeliana della croce di Cristo, a sua volta interpretazione della cristologia luterana. È interessante come il Gesuita Emilio Brito nel 1983[1] pubblicò un volume di 700 pagine dal titolo La cristologie di Hegel[2], con il significativo sottotitolo «Verbum Crucis».

Cristo ha voluto morire non nel senso che si sia dato la morte o si sia suicidato, - il fatto del morire come tale gli ripugnava ed Egli è stato ingiustamente ucciso -, ma in quanto ha voluto esprimere il suo immenso amore per noi pagando con la vita questo amore e intendendo il suo morire come offerta di sé in sacrificio per la salvezza del mondo.

Per questo, mentre gli uccisori di Cristo hanno commesso un orribile delitto, il Padre celeste, che ha voluto la morte del Figlio in riscatto del peccato, ha compiuto un’opera di giustizia e di misericordia con la quale ha glorificato Sé stesso, il Figlio e l’umanità. Il Padre ha voluto il sacrificio del Figlio, non di per sé la morte del Figlio. L’ha voluta solo in quanto espressione del suo amore per noi e riparazione dell’offesa del peccato.

La Croce di Cristo sembra scandalosa o cosa stolta, ma in realtà è sapienza e potenza di Dio. Occorre dunque dissipare la sembianza di scandalosità e di stoltezza e mostrare dove sta la sapienza e la potenza. Lutero ed Hegel con Rahner assumono erroneamente scandalo e stoltezza della Croce come fossero reali e presentano la Croce come vero scandalo e vera stoltezza, da cui la fede contro la ragione; ma nel contempo pretendono di sciogliere un’apparente contraddizione falsando il contenuto del dogma della Redenzione come se Dio ci salvasse senza meriti o volesse la nostra morte o ci spingesse al masochismo o al sadismo.

Infatti, da una parte Rahner non teme di concepire un Dio che si incarna mutando la sua natura nella natura umana, mentre dall’altra, per rendere gradevole quanto Dio fa per la nostra salvezza ci assicura che non abbiamo niente da pagare ma si tratta solo di ricevere gratis pur continuando a peccare. Ma questo non è cristianesimo: questa è meschina furbizia che fa solo il nostro danno. 

Hegel con la sua dialettica del negativo che produce il positivo intendeva interpretare la concezione luterana della Redenzione. Nel mistero della Croce sembra che la morte produca la vita. Invece questo è un errore gravissimo, che sconvolge totalmente il significato della Croce e lo trasforma in un’opera del demonio: è il demonio che ci vorrebbe convincere che uccidendo e uccidendoci otteniamo la vita. In realtà è solo la Vita che procura la vita e uccide la morte. Solo che sulla Croce la Vita si serve della stessa morte per ottenere la vita. Non è infatti la morte come tale che ci procura questo prodigio, ma è la morte assunta da un Dio che è il Dio della vita.

Lutero non distingue il male di colpa dal male di pena; per questo, secondo lui, dato che Cristo ci ha ottenuto la salvezza soffrendo, noi beneficiamo della sua opera redentrice peccando. Il peccato diventa via di salvezza. Subire la morte equivale a procurare la morte, perché otteniamo e diamo la vita procurando la morte nostra e del prossimo.

Per Lutero, come sappiamo, il peccato e la concupiscenza sono invincibili. Dio non cancella il peccato, ma lo copre. Il peccato resta, ma Dio fa finta che non vedere, non ne tiene conto, volge lo sguardo altrove, alla giustizia di Cristo, e dona ugualmente la grazia e il perdono dichiarando che il peccatore è perdonato.

Stando così le cose, visto che il peccato diventa come una seconda natura, il peccato o infrazione alla legge non appare più un male da togliere, ma una cosa normale. Da qui vediamo come il luterano perde il senso del peccato. Il senso di colpa che comunque gli resta non lo considera più un richiamo della coscienza alla conversione, ma un semplice disturbo psicologico da affidare agli psicofarmaci, agli ansiolitici e alle cure dello psicologo. La «preoccupazione» (Sorge) e l’«angoscia» (Angst) e l’esser colpevole (schuldig) dei quali parla Heidegger non sono stati d’animo da guarire con la penitenza e la confessione dei peccati, ma condizioni esistenziali dell’uomo come manifestazione dell’essere.

La «giustificazione»[3] della quale parla Lutero è stata chiamata «giustificazione forense». Ma questo è far torto alla magistratura. Chiamiamola col suo vero nome: è una truffa e un voler prendersi gioco di Dio. Essa pertanto non attira alcuna misericordia, ma una maggior dose di ira divina.  

Così nella visione luterana, per salvarci e salvare gli altri il soffrire e il peccare vanno assieme, sono inscindibili. «Il peccare – dice Lutero – è fare un dispetto al demonio». Questo è il significato del famoso justus et peccator. Che importa se pecchiamo, quando comunque siamo in grazia e purchè crediamo di essere perdonati?

 Questa è la consolazione dei luterani come Rahner. Quindi non occorre fare alcuna opera soddisfattoria o riparatrice, ma solo lasciarci guidare e vivificare dalla grazia. Questo è il significato del famoso «sola gratia» luterano.

Perorazione finale

Nella vita cristiana di oggi, che tanto ha allargato gli orizzonti alla diversità delle culture e delle religioni, che vede una socialità ed una comunicazione mondiali nelle quali più che mai sperimentiamo l’universalità e la ricchezza dell’umano, la relazione uomo-donna ha raggiunto livelli mai visti di maturità e produttività, la tecnologia ci rende padroni della natura, gli orizzonti delle scienze si allargano vertiginosamente, le forze della natura si confermano più che mai nella loro potenza incontrollabile e distruttiva, ancora permangono dislivelli spaventosi tra i pochi ricchi e le masse sterminate dei poveri, gli spiriti maligni che nei secoli passati ci hanno divisi e tormentati sono ancora vivi, le minacce di una distruzione atomica gravano sull’umanità.

Le forze demoniache più che mai si accaniscono sul Crocifisso e sulla comunità del Crocifisso, la Chiesa. Più che mai la attaccano dall’esterno e la tormentano dall’interno. È in atto in modo particolare da decenni all’interno della Chiesa il tentativo da parte di cristologi eretici di svuotare e distruggere il mistero della Croce: la cancellazione, il fraintendimento e la denigrazione di tutte le nozioni dogmatiche che concorrono all’intellegibilità del mistero; tra tutte in modo speciale quella della soddisfazione vicaria e poi quella di sacrificio, redenzione, espiazione, riparazione fino a quella stessa di religione, del sacro e del soprannaturale. 

Anche oggi ci sono molti martiri, il che vuol dire che viene ancora apprezzata la Croce. Ma quanti di noi vorremmo morire martiri? Quanti di noi hanno convinzioni di fede così salde, da accettare per esse ogni sofferenza? O non ci lasciamo piuttosto sedurre dai teologi di successo?

Chi l’ha detto che i voti religiosi, l’austerità e l’ascetismo sono dualismo, rigidezza e arretratezza scolastiche medioevali, mentre il relativismo morale, il lassismo e il buonismo sono modernità, ampiezza di vedute, liberalità, misericordia, progresso, pluralismo e messaggio del Concilio Vaticano II?

Come mai tanti preferiscono l’etica protestante, edonista e permissiva, a quella cattolica, austera ed esigente? Come mai si sta diffondendo anche tra noi cattolici la tesi secondo cui la Messa è un pasto comune e non è un sacrificio e che il sacrificio, come sostiene Massimo Recalcati[4], è una stortura psichica? Non sarà che forse abbiamo dimenticato o falsato il mistero della croce?

Davanti alla sofferenza siamo totalmente smarriti e ci troviamo impreparati. proviamo un senso di frustrata e sterile ribellione, emettiamo un urlo disperato, ci pare di trovarci davanti all’assurdo e ci siamo dimenticati quale tesoro è invece la sofferenza nella visione evangelica, quale vantaggioso affare o quale prezioso investimento è il soffrire nella visione cristiana. Ci siamo dimenticati dell’esempio di Cristo, della Madonna e dei Santi.

Oppure la vediamo come cosa normale e naturale, una necessità del cosmo, una oscura e irrazionale fatalità fino ad arrivare all’amor Fati di Nietzsche o fino a credere che Dio stesso soffra. La sofferenza allora diventa un assoluto, diventa divina. È facile allora unire il masochismo col sadismo o essere sedotti dal nazismo. Ci siamo dimenticati che uno dei pregi essenziali ed incomparabili del cristianesimo è proprio quello di dare una ragionevole benché misteriosa risposta all’enigma della sofferenza.

Non saper dare un perché alla sofferenza vuol dire non essere cristiani. Cristo è venuto apposta per rivelarci il perchè della sofferenza e come la si toglie. Se la sofferenza dovesse restare un mistero anche dopo la venuta di Cristo, allora rendiamo vana la sua rivelazione. Il bello del cristianesimo è proprio il sapere perché soffriamo e come si toglie la sofferenza.

Certamente, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto creare un mondo dove il male fosse assente. Perché Egli invece, bontà infinita, ha voluto non impedire il peccato, origine del male, questo non lo sappiamo e non possiamo saperlo, tanto è al di sopra della nostra capacità di comprensione.

Per questo, Cristo non ce lo ha rivelato, perché non lo avremmo capito. E per questo non ci deve interessare. Cristo ci ha rivelato che cosa è la sofferenza, qual è la differenza fra male di colpa e male di pena, che Dio premia e castiga, è giusto e misericordioso, che vuole riparazione e concede perdono a chi si pente, che tutti possiamo salvarci, qual è la causa della sofferenza, come la si può utilizzare per salvarci e come la si può togliere. E questo ci deve bastare per renderci felici.

Comunque stat crux dum volvitur orbis. Nella croce di Cristo c’è la verità, la somma carità, la certezza, la sicurezza, la pace, il superamento del timore della morte, la riconciliazione, il perdono, la giustizia, la misericordia, la pregustazione del paradiso.

Santa Caterina invita spesso a trovare il nostro riposo nella croce. Ne siamo più capaci?  Si fugge ossessivamente la sofferenza a costo di peccare, come fosse il peggiore dei mali e ci siamo dimenticati che invece il peggiore dei mali, da evitare ad ogni costo[5], è il peccato. Crediamo che sia masochismo amare la sofferenza e invece l’amore alla croce è la più grande delle consolazioni, la sorgente delle virtù, il principio e il mezzo della nostra salvezza, l’espressione del massimo amore, l’esperienza della divina misericordia.

E invece fuggendo la croce non c’è più consolazione alla sofferenza, non più generosità e fortezza nel sacrificio, non più rigore nell’ascesi, non più disponibilità alla rinuncia, non più rassegnazione nella sventura, non più metodo nella disciplina spirituale, non più compassione per chi soffre, non più dolore per i peccati, non più pazienza nella sofferenza, non più serenità davanti alla morte, non più pianto per chi muore.

Sentiamo spesso oggi parlare dello Spirito Santo e del nostro dovere di tenerci a disposizione delle sue ispirazioni, sentiamo che la Chiesa ha una forma sinodale animata dallo Spirito Santo. Si tratta certo di una conquista della spiritualità del nostro tempo. Ma lo Spirito Santo è venuto per insegnarci ad unirci con amore alla croce di Cristo che compie ogni giustizia, così da essere giusti noi stessi, ci insegna ad onorare la giustizia del Padre e ad accogliere la sua misericordia.

Una gravissima questione che tormenta la Chiesa da sessant’anni e che, dopo i chiarimenti e le esperienze fatte, sembra finalmente ormai aperta ad una soluzione definitiva, è il giudizio da dare al pensiero di Karl Rahner, autore di un’immensa quantità di pubblicazioni. Perito apprezzato del Concilio, che fin dall’immediato postconcilio ha provocato un’accesissima discussione fra i più eminenti e dotti teologi in tutto il mondo circa alcuni gravi punti della sua dottrina, che mettevano in gioco molte verità della fede cattolica sotto colore di una loro presentazione in forme adatte al pensiero moderno, come era richiesto dai fini del Concilio.

Curiosamente i Papi non hanno mai preso posizione, né per lodarlo, nè per censurarlo[6].  Ciò ha consentito la penetrazione del rahnerismo tra i fedeli e negli stessi istituti accademici della Chiesa, nonchè un risorgere di modernismo, più pericoloso, come notò il Maritain, di quello del tempo di San Pio X. La reazione lefevriana è stata esagerata, finendo per prendersela con le stesse dottrine del Concilio.

Ormai è chiaro che i più gravi danni che la Chiesa ha dovuto subìre in questi sessant’anni, accanto alla realizzazione di indubbi progressi, sono dovuti all’influsso e al prestigio del rahnerismo. Dopo tante discussioni e controversie, sembra giunto il momento nel quale il Papa ci dica una parola definitiva di chiarimento su ciò che è giusto e ciò che è eretico nel pensiero di Rahner, in modo che si proibisca di chiamare «cattolico» ciò che cattolico non è, cessi il processo di decadenza e si realizzino finalmente in pienezza le conquiste del Concilio.

Inoltre, una cosa urgente e importantissima da fare e che secondo me lo stesso Concilio non ha chiarito, è come presentare in modo persuasivo il mistero della croce agli uomini d’oggi, così da togliere a tale arduo mistero la sua apparente asprezza, renderlo credibile, attraente e in armonia con la ragione, se è vero che la fede illumina la ragione e non la offende. Quindi bisogna presentare questo mistero in modo da non creare ripugnanza o scandalizzare le persone ragionevoli, senza togliere nulla della sua difficoltà.

Dobbiamo impedire assolutamente che il mistero della croce sembri l’apologia del masochismo. Dobbiamo trovare il modo di annunciarlo nella sua pienezza, come l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, e non limitarsi a presentare Cristo come un semplice martire o una vittima del fariseismo o un profeta inascoltato. Da questa grave lacuna, una vera e propria eresia, sorge infatti quell’altra eresia, che è l’ignoranza e il disprezzo per la Messa, l’attualizzazione incruenta del sacrificio della croce.

Non meravigliamoci quindi del calo delle frequenze alla Messa. Non è questione di novus ordo o vetus ordo; è questione che non sappiamo presentare alla gente il valore della Messa. E questo perché? Perché non sappiamo più che cosa è la redenzione, abbiamo dimenticato il valore riparatorio, espiativo e soddisfattorio del sacrificio di Cristo.

Lo «scandalo della croce» non vuol dire che la croce sia veramente scandalosa, ché anzi, come ci dice San Paolo, essa è «potenza e sapienza di Dio». Quindi non dobbiamo presentare questo mistero come fosse contrario alla ragione, ma al contrario dobbiamo presentarlo in modo da renderlo credibile. Chi ci ascolta non deve credere che noi facciamo l’elogio del masochismo, ma dobbiamo fargli capire che gli insegniamo proprio il modo di liberarsi dalla sofferenza.

Il famoso credo quia absurdum di Tertulliano, ben lungi dal dirci che cosa vuol dire credere in Cristo, è un’offesa a Cristo, è un’enorme stoltezza. La fede cattolica è credere perchè è ragionevole credere e quindi è doveroso credere, pena il peccato di incredulità. Chi scandalizza con i suoi discorsi non è un apostolo, ma è un pericoloso impostore che non induce alla fede, ma alla superstizione e al fanatismo e allora ben vengano gli illuministi a fare piazza pulita, benchè anch’essi abbiano il torto contrario di idolatrare la ragione umana.  Ma resta sempre che chi, come fanno i protestanti, vorrebbe persuadere il prossimo, che per accettare la Parola di Dio bisogna andar contro il buon senso e la ragione, è un corruttore della religione e un falso cristo che dovrà render severamente conto a Dio della sua menzogna.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 gennaio 2025

Cristo ha voluto morire non nel senso che si sia dato la morte o si sia suicidato, - il fatto del morire come tale gli ripugnava ed Egli è stato ingiustamente ucciso -, ma in quanto ha voluto esprimere il suo immenso amore per noi pagando con la vita questo amore e intendendo il suo morire come offerta di sé in sacrificio per la salvezza del mondo.

La Croce di Cristo sembra scandalosa o cosa stolta, ma in realtà è sapienza e potenza di Dio. Occorre dunque dissipare la sembianza di scandalosità e di stoltezza e mostrare dove sta la sapienza e la potenza. Lutero ed Hegel con Rahner assumono erroneamente scandalo e stoltezza della Croce come fossero reali e presentano la Croce come vero scandalo e vera stoltezza, da cui la fede contro la ragione; ma nel contempo pretendono di sciogliere un’apparente contraddizione falsando il contenuto del dogma della Redenzione come se Dio ci salvasse senza meriti o volesse la nostra morte o ci spingesse al masochismo o al sadismo.

Hegel con la sua dialettica del negativo che produce il positivo intendeva interpretare la concezione luterana della Redenzione. Nel mistero della Croce sembra che la morte produca la vita. Invece questo è un errore gravissimo, che sconvolge totalmente il significato della Croce e lo trasforma in un’opera del demonio: è il demonio che ci vorrebbe convincere che uccidendo e uccidendoci otteniamo la vita. In realtà è solo la Vita che procura la vita e uccide la morte. Solo che sulla Croce la Vita si serve della stessa morte per ottenere la vita. Non è infatti la morte come tale che ci procura questo prodigio, ma è la morte assunta da un Dio che è il Dio della vita. 

Immagine da Internet: Inno



[1] presso le Edizioni Beauchesne di Parigi.

[2] Sulla cristologia di Hegel, vedi anche Xavier Tilliette, La cristologia idealista, Queriniana, Brescia 1993; Il Cristo della filosofia. Prolegomeni a una cristologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1997.

[3] La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione pubblicata nel 1999 dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani mette in luce certamente i punti di contatto fra la Chiesa e i luterani, ma è ben lontana da correggere gli errori di Lutero che sto ricordando.

[4] Vedi il suo libro Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.

[5] È famoso il detto di San Domenico Savio: «la morte, ma non peccati».

[6] San Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor, quando respinge la teoria dell’opzione fondamentale che distingue il trascendentale dal categoriale al n.65 certamente si riferisce a Rahner, ma non lo nomina.

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