Guido Mattiussi e Joseph Maréchal - Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant alle origini del modernismo - Terza Parte (3/3)

 

Guido Mattiussi e Joseph Maréchal

Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant

alle origini del modernismo

 Terza Parte (3/3)

 

La dottrina kantiana della conoscenza

può conciliarsi con quella di San Tommaso?

Negli anni seguenti alla pubblicazione dell’enciclica nella Compagnia di Gesù apparvero due dotti Gesuiti, prima il Padre Guido Mattiussi e successivamente il Padre Joseph Maréchal, i quali, accortisi che l’enciclica Pascendi era sostanzialmente una messa in guardia contro gli errori di Kant, che col pretesto dell’ammodernamento della teologia, erano penetrati fra i cattolici, assunsero due atteggiamenti opposti: Mattiussi dette giustificazione degli errori kantiani condannati dall’enciclica, mettendo in luce l’agnosticismo di Kant dovuto al suo fenomenismo e principio del suo immanentismo, per cui lo contrappose  a San Tommaso[1], mentre Maréchal, forte di diligentissimi studi kantiani e di una buona preparazione tomista, si dette a elaborare una tesi audace, preparata dalla pubblicazione di ben cinque libri, pieni di una ricchissima erudizione storico-critica, secondo la quale tesi, salve restando le condanne papali, era tuttavia possibile trovare un punto di convergenza fra la filosofia di San Tommaso e quella Kant, in quanto, secondo il Maréchal il metodo trascendentale kantiano potrebbe essere «trasposto» in termini di realismo gnoseologico tomistico[2].

Maréchal non nega l’agnosticismo kantiano, ma crede che esso possa essere superato con un’adeguata interpretazione e dar adito al realismo, «partendo dai suoi stessi princìpi»[3] e così accordarsi col pensiero di San Tommaso. Tuttavia, devo dire francamente che davanti a queste proposizioni programmatiche si rimane quanto meno perplessi, perché accostandole tra di loro, non appare chiaro se il punto di contatto fra Tommaso e Kant è dato dal fatto che dicono la stessa cosa con due linguaggi diversi o l’uno e l’altro si incontrano nel realismo, Tommaso in forma coerente, Kant fornendo princìpi con i quali sarebbe possibile superare il suo idealismo e rimediare al suo agnosticismo.

Che in Kant resti una traccia di realismo è senz’altro vero, e questo è dato dalla dottrina della cosa in sé, che resta realmente esistente, esterna alla mente e indipendente dalla mente, sorgente di conoscenza in quanto l’esperienza sensibile che ne abbiamo ci fornisce i dati del senso che ci consentono di conoscere la cosa come fenomeno.

Tuttavia il fatto che della cosa ci resti ignota l’essenza mentre l’oggetto del conoscere, il fenomeno, è costruito dal soggetto che si avvale delle forme a priori, chiaramente è un principio idealistico, in contraddizione col realismo della cosa in sé esterna.

E per questo Fichte, al quale stava a cuore sviluppare il principio idealistico, accortosi delle virtualità idealistiche del principio kantiano dell’io penso, pensò bene potenziare questo facendo scomparire, con grave disappunto di Kant, la fastidiosa cosa in sé, che intralciava il cammino all’avanzata dell’idealismo: trasportò la cosa in sé dall’esterno dell’io al suo interno, facendone un «non-io» posto dall’io all’interno dell’io con un tono di commiserazione e di derisione dei poveri realisti, che si immaginano che sia al di fuori dell’io quella realtà che è posta dall’io all’interno dell’io.

Ora Maréchal sembra trovare un principio di realismo e quindi di aggancio a San Tommaso in Kant non tanto nella cosa in sé, elemento di indubbio realismo rimasto in Kant, quanto piuttosto in quello che egli chiama «finalismo o dinamismo dell’intelletto», per cui l’intelletto in ogni suo giudizio possederebbe uno slancio o una tensione immediata verso l’assoluto, idea, questa, che in realtà non esiste né in Kant né in Tommaso, i quali connettono come è giusto il conoscere e l’attività dell’intelletto al pensiero, alla causa formale ed alla rappresentazione e non al moto, all’azione o alla causa finale, propria della volontà.

È indubbio che l’intelletto ha un fine, che è quello di conoscere la verità. Ma ci pensa la volontà a dirigere l’intelletto a conseguire il suo fine, che è il suo bene; e l’intelletto muove la volontà al conseguimento del fine; ma non è che l’intelletto abbia per conto suo una forza o una spinta per cui si muova verso il suo fine a somiglianza di un soggetto agente che si avvicina a una meta. Tutto questo dinamismo appartiene alla volontà.

L’intelletto raggiunge il suo fine semplicemente in un atto che è l’atto di un atto e non di una potenza. L’atto dell’intelletto è l’identificazione del pensare col pensato, atto istantaneo e intemporale. È la potenza intellettiva che passa dalla potenza all’atto, ma non l’atto del conoscere. Questo è istantaneo e sovratemporale, a differenza dell’atto della volontà che, per muovere un corpo, si svolge nel tempo.  

È vero che Kant concepisce il conoscere più come un fare o un formare che come un essere intenzionale o un rappresentare ed assegna alla ragion pratica la decisione di affermare («postulare») l’esistenza di Dio. Ma trattando della conoscenza, Kant non parla mai di finalismo dell’intelletto[4]. Tanto meno ne parla San Tommaso, il quale, come è noto, distingue con la massima cura l’attività dell’intelletto da quella della volontà, ponendo la tensione verso il fine nella volontà e non nell’intelletto. Nell’attività dell’intelletto non c’è alcuna inclinazione, alcuna tendenza, ma solo atto, ossia identificazione dell’atto del pensare con l’atto del pensato, del rappresentare col rappresentato.

Ma in campo gnoseologico, idealismo e realismo si oppongono senza possibilità di conciliazione, se si esclude l’identità intenzionale dell’intelletto e della cosa nell’atto del sapere, come è stato notato sia dai filosofi idealisti che da quelli tomisti. Voler essere ad un tempo realisti ed idealisti, tomisti e kantiani è un servire a due padroni, cosa disdicevole e vergognosa per un filosofo o un teologo degno di questo nome. Questo ci insegna il grande Papa Pio X con la sua immortale enciclica.

Ombre e luci della filosofia kantiana

Mattiussi, esplicitando l’accusa di agnosticismo fatta dall’enciclica, mette in luce il fatto che Kant, nel momento in cui vuol eliminare il dubbio, l’agnosticismo e lo scetticismo, vi cade dentro, giacchè distrugge proprio ciò che gli serve per costruire, nega il criterio stesso che gli serve per giudicare, nega il termine di paragone che gli serve per fare il confronto. È ciò che mette in rilievo il Mattiussi.

Se neghiamo infatti la possibilità del nostro intelletto di adeguarlo alle cose come sono, come non dovremmo supporre di fare con ciò un’affermazione vera, ossia adeguata alle cose come sono? Se neghiamo di poter conoscere le cose come sono, in base a quale criterio noi neghiamo questa possibilità, se non perché convinti di rispecchiare con la nostra tesi le cose come sono? Se neghiamo di poter cogliere la realtà, come possiamo farlo se non perché convinti che così facendo noi diciamo la verità, ossia cogliamo la realtà?

Kant ammette tuttavia l’incondizionato, ammette l’oggettività, l’universalità, la necessità e la certezza del sapere. Ammette l’intellegibile e il pensabile, che egli chiama noumeno. Non è un materialista né uno scettico.

Si potrebbe dire altresì che la cosa in sé kantiana non è la realtà ut sic, ma è la realtà materiale, giacchè la cosa della quale parla offre ai sensi il materiale del conoscere. E d’altra parte non si può negare la validità della scienza dei fenomeni, per la quale noi possiamo di una cosa conoscere la sua apparenza esteriore o le sue proprietà sensibili, benché, la sua essenza ci sfugga. Viceversa, nel trattare di quanto riguarda lo spirito umano Kant si muove con sicurezza e piena certezza, dando ad intendere che qui conosce perfettamente l’essenza della realtà della res.

Tuttavia, rifiutando la possibilità della ragione speculativa di elevarsi a Dio partendo dai fenomeni e dalla conoscenza delle cose in sé, Kant chiude lo spirito umano su se stesso e da qui sorge la tendenza immanentista: se Dio esiste, esiste solo all’interno della nostra mente. Che esista realmente è una possibilità, ma non è dimostrato.

Per Kant Dio esiste come idea suprema della ragione speculativa e come bisogno della ragion pratica. In tal senso lo si può considerare ens summum e realissimum. Lo sbaglio di Aristotele e del cristianesimo per Kant è quello di personificare e ipostatizzare una semplice idea come se fosse una persona davanti a me sopra di me con la quale interloquire e dalla quale ricevere rivelazioni e favori. Questo pertanto è fanatismo e superstizione.

Ne viene come conseguenza uno stravolgimento della metafisica. Kant ha stima della metafisica, ma, come Cartesio, giudica insufficientemente fondata quella di Aristotele e pretende di dare lui fondamento certo e scientifico alla metafisica seguendo Cartesio. Allora, come in Cartesio, l’oggetto della metafisica non è più l’ente, ma l’autocoscienza cartesiana.

Oggetto della metafisica non è più la realtà, ma la conoscenza di sé e di ciò che si trova apriori nella coscienza o, come dirà Heidegger, è l’uomo che si interroga sull’essere, l’uomo che è quindi l’esserci (Dasein) dell’essere. Quindi la metafisica si confonde con l’antropologia. Ma l’essere assoluto è Dio; ecco che allora l’uomo diventa Dio. E abbiamo l’ateismo e il panteismo moderni.

Il trascendentale in Kant, come è noto, non è più l’ente e la filosofia trascendentale non è più quella che ha per oggetto l’ente, ma come dice Kant, la filosofia trascendentale diventa «ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori»[5].

Ora, per Kant questo che egli chiama «modo» del conoscere non è un vero modo, ma è già contenuto e oggetto del conoscere, perché è l’autocoscienza, è l’io penso, è l’attività dell’intelletto in possesso delle sue forme a priori, i «concetti puri» o categorie, che danno forma al materiale proveniente dall’esperienza nel sapere sperimentale o sono le idee della ragione nel campo speculativo o la legge morale nel campo della condotta umana.

Quindi questo «modo» kantiano di conoscere in realtà è già un conoscere; è una precognizione immediata e indeterminata dell’assoluto, come orizzonte circoscrivente, trascendentale, a priori e formale, previo al sapere categoriale sperimentale, a posteriori, tratto dall’esperienza delle cose.

Il trascendentale kantiano è la conseguenza della sua «rivoluzione copernicana», per la quale il soggetto non si volge più all’oggetto, ma verso sé stesso. In termini gnoseologici: l’intelletto non si volge più alla res, alla cosa fuori dell’anima, ma a se stesso e ai propri dati di coscienza, non più alla realtà, ma all’idea della realtà. In termini religiosi: l’uomo non si dirige più verso Dio, ma verso se stesso. L’idealista dice a Dio: non la tua, ma la mia volontà sia fatta.

È chiaro che non è un vero trascendentale, perché è solo lo spirito umano, che chiaramente è solo un categoriale, che di per sé si spartisce l’essere insieme col materiale, ma che con Kant ha la pretesa di accaparrare per sé tutto l’essere. Ma siccome anche la materia è essere, l’idealismo, che non può ignorare la materia, ma non vuol rinunciare a restringere l’essere allo spirito, finirà col materializzare lo spirito e cadere nel materialismo. Esempio eclatante di questa dialettica è il passaggio da Hegel a Marx.

Si vede allora che per Kant il conoscere non è un rappresentare la forma della cosa, ma è un fare, è un dar forma a una materia, sia pur offerta dalla cosa. La cosa conosciuta non ha una forma per conto proprio indipendentemente dall’intelletto, una forma che viene fatta propria dell’intelletto, il quale non riceve la forma, non è informato, ma la dà o la possiede già prima di conoscere la cosa stessa.

Diciamo invece che il vero modo del conoscere, che Kant evidentemente non conosce o respinge è l’operazione astrattiva, per la quale l’intelletto astrae l’essenza universale del particolare sensibile. Egli ammette l’astratto ma senza sapere che è astratto dai sensi, e crede che sia già astratto per conto suo, come già pensava Platone.

Il proposito dichiarato di Kant, similmente a Cartesio, è quello di dar fondamento e certezza al sapere, ma il risultato è deludente, giacchè è vero che il fenomeno è l’apparizione, lo svelamento o la manifestazione della cosa. Ma se essa resta con un’essenza che a noi resta ignota, che ce ne facciamo di una «manifestazione della cosa» che non ci dà l’essenza della cosa?

Se non possiamo conoscere la quidditas rei materialis, che criterio abbiamo per vincere lo scetticismo? Abbiamo forse un’intuizione o visione immediata dello spirito? Come fa Kant a fare le sue osservazioni sullo spirito, sulla ragione, l’intelletto, la coscienza, il pensiero, il sapere, i giudizi, se non vi è arrivato partendo dalla conoscenza delle cose esterne sensibili come sono in se stesse?

Vorrà dire che egli ritiene possibile concepire il fenomeno come apparizione dello spirituale? E quando Kant parla di esperienza, siamo certi che si riferisce solo all’esperienza sensibile e non ammetta anche un’esperienza spirituale? Da dove gli viene la certezza delle leggi universali e necessarie della ragione pratica e speculativa? Dei concetti puri e delle idee della ragione? Della certezza della scienza a priori e dell’assolutezza del dovere?

Per Kant la rappresentazione non rappresenta niente se non sé stessa, come modificazione del soggetto. La cosa rimane al di fuori dell’intelletto ignota in sé stessa. Sappiamo che esiste, sappiamo che il materiale dell’esperienza viene da lei, ma l’oggetto del nostro sapere sperimentale non è altro che il fenomeno, che però è la cosa così come ci appare, si mostra, si rivela. Non è semplice apparenza che può ingannare; è verità, ma verità che ci lascia ignota l’essenza della cosa in sé.

Kant si mostra impreparato invece per quanto riguarda la filosofia della natura o cosmologia filosofica. E ciò è molto dannoso, perché essa abbraccia anche l’antropologia filosofica, dove è possibile conoscere l’essenza della cosa in sé e questa è la stessa natura umana. In ciò Kant risente del dualismo cartesiano di res cogitans, la ragione e res extensa, il corpo, e gli manca la percezione dell’anima umana come forma sostanziale del corpo.

Tuttavia bisogna tenere presente che Kant ammette esplicitamente e insistentemente anche l’esistenza dello spirito. Di ciò la Pascendi non parla. La «cosa» kantiana è la cosa materiale, la natura fisica. Dunque Kant ammette il materiale assieme allo spirituale. Egli chiama «reale», però, solo il materiale. Lo spirito, per lui, sembra appartenere solo al piano dell’ideale.

Ma qui Kant sbaglia: la distinzione fra reale (ens reale) ed ideale (ens rationis) non corrisponde a quella fra materiale e spirituale, ma a quella fra pensiero ed essere. Occorre osservare altresì che il reale non è solo il materiale, ma anche lo spirituale. E l’ideale è sì spirituale, ma è atto dello spirito, che è ente sostanziale. La cosa (res), d’altra parte, non è solo la cosa materiale, ma anche quella spirituale. La cosa è l’ente sotto l’angolatura dell’essenza, è la realtà.

Ponendosi il problema se noi possiamo conoscere l’essenza della cosa materiale, bisogna distinguere: di alcune cose possiamo cogliere l’essenza; di altre, sappiamo che hanno un’essenza, ma non la conosciamo se non nel fenomeno o come fenomeno. Kant riconosce la scienza dei fenomeni, ma ha fallito nel riconoscere la filosofia naturale, ossia la scienza filosofica della natura[6] o dell’essenza della sostanza materiale vivente e non vivente, quindi la scienza della forma materiale e di quella forma spirituale, che è l’anima.

Per questo egli non è stato capace di accogliere la distinzione aristotelica fra i gradi dell’ente naturale: la forma materiale, l’anima vegetativa, quella sensitiva e quella razionale. Egli considera bensì la ragione, ma lo fa alla maniera di Cartesio, come fosse una sostanza sussistente, mentre invece la ragione è una potenza dell’anima.

Se restiamo nel campo delle scienze sperimentali, potrà bastarci la registrazione e codificazione di valori osservabili, misurabili, costanti e regolari verificabili dall’esperienza; e qui Kant è certamente nel giusto. È questa la scienza dei fenomeni, come la chimica, la fisica, l’astronomia, la biologia, la zoologia, la botanica, la psicologia sperimentale, la glottologia, la sociologia, l’etnologia.

Ma se si tratta di sapere qual è l’essenza dell’ente (ti to on?) o la scala degli enti naturali o che cosa è l’uomo o che cosa è la vita o lo spirito o la natura cosmica o qual è il valore della morale o della religione o della teologia, allora il nostro intelletto ha la possibilità di conoscere scientificamente l’essenza di queste cose come sono in sé stesse. E del resto lo stesso Kant lo ammette implicitamente facendo della ragione e della conoscenza l’oggetto della sua indagine filosofica.

D’altra parte non possiamo negare un certo valore dell’etica kantiana, per la quale la legge morale dettata dalla ragion pratica, è universalmente ed assolutamente obbligatoria per tutti ed immutabile, eseguibile dalla libera volontà, la cui esecuzione o trasgressione è rispettivamente imputabile a merito o demerito.

Se Maréchal voleva quindi trovare punti di contatto di Kant con Tommaso, oltre alla dottrina della cosa esterna al soggetto, avrebbe potuto citare lo statuto epistemologico della scienza dei fenomeni fisici (la fisico-matematica) e i caratteri di intellegibilità, universalità, necessità, obbligatorietà ed immutabilità propri della legge morale ordinata dalla ragion pratica.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 26 dicembre 2024

 

Maréchal sembra trovare un principio di realismo e quindi di aggancio a San Tommaso in Kant non tanto nella cosa in sé, elemento di indubbio realismo rimasto in Kant, quanto piuttosto in quello che egli chiama «finalismo o dinamismo dell’intelletto», per cui l’intelletto in ogni suo giudizio possederebbe uno slancio o una tensione immediata verso l’assoluto, idea, questa, che in realtà non esiste né in Kant né in Tommaso, i quali connettono come è giusto il conoscere e l’attività dell’intelletto al pensiero, alla causa formale ed alla rappresentazione e non al moto, all’azione o alla causa finale, propria della volontà.

È indubbio che l’intelletto ha un fine, che è quello di conoscere la verità. Ma ci pensa la volontà a dirigere l’intelletto a conseguire il suo fine, che è il suo bene; e l’intelletto muove la volontà al conseguimento del fine; ma non è che l’intelletto abbia per conto suo una forza o una spinta per cui si muova verso il suo fine a somiglianza di un soggetto agente che si avvicina a una meta. Tutto questo dinamismo appartiene alla volontà.

L’intelletto raggiunge il suo fine semplicemente in un atto che è l’atto di un atto e non di una potenza. L’atto dell’intelletto è l’identificazione del pensare col pensato, atto istantaneo e intemporale. È la potenza intellettiva che passa dalla potenza all’atto, ma non l’atto del conoscere. Questo è istantaneo e sovratemporale, a differenza dell’atto della volontà che, per muovere un corpo, si svolge nel tempo.  

 

 

Mattiussi, esplicitando l’accusa di agnosticismo fatta dall’enciclica, mette in luce il fatto che Kant, nel momento in cui vuol eliminare il dubbio, l’agnosticismo e lo scetticismo, vi cade dentro, giacchè distrugge proprio ciò che gli serve per costruire, nega il criterio stesso che gli serve per giudicare, nega il termine di paragone che gli serve per fare il confronto. È ciò che mette in rilievo il Mattiussi.

 

 Immagini da Internet:
- Guido Matteussi
- Joseph Maréchal


 



[1] Nel suo libro Il veleno kantiano, Roma 1914.

[2] Le point de départ  de la métaphysique, Paris-Louvain 1927, p.30.

[3] P.2.

[4] Anche quando Kant parla del giudizio estetico, dice che l’intelletto considera la natura come un fine, ma non dice che l’intelletto tende ad un fine.

[5] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.58.

[6] Sulla filosofia della natura vedi il Maritain: La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974.

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