Diritti dell’uomo e diritti di Dio
Sovvertimento e restaurazione nella Rivoluzione Francese
Seconda Parte
La questione dell’autorità politica
Per quanto riguarda la questione dell’autorità politica e di quella del governante, la Dichiarazione non tiene conto dell’importantissimo insegnamento di San Paolo:
«Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna» (Rm 13,1-2).
Ben lungi da avallare qualunque situazione di fatto, qui San Paolo, al contrario, ci dà il criterio per sapere qual è il fondamento della legittima autorità umana, che non sia dispotismo e tirannide: è il fatto di partecipare dell’autorità divina.
Autorità, infatti, viene da latino augere, che vuol dire aumentare. Il possessore della vera autorità, sia un maestro, sia un re, sia un presidente della repubblica, qualunque governante o capo di governo, è una persona che fa aumentare, fa crescere e progredire, quindi è un benefattore di colui al quale essa comanda e che, ben lungi dal ritenersi schiavo od oppresso, ha tutto l’interesse ad obbedire.
Ciò non vuol dire affatto che il popolo, composto da persone mature e ragionevoli, non abbia la facoltà e il diritto di governare sé stesso. Non esclude affatto la legittima esistenza di una volontà popolare, espressa eventualmente da una maggioranza, magari per mezzo di un referendum, la quale volontà può votare anche cose contrastanti con la legge morale. Al governante, che non approva simile volontà, non resta che tollerare adoperandosi nel contempo a dissuadere i cittadini a perseverare in simili scelte e corrispettive pratiche.
La Dichiarazione riconosce che il popolo ha diritto all’autogoverno e che il governante deve comandare solo per servire il popolo, come già insegnò San Tommaso d’Aquino, secondo il quale il governante è vicem gerens multitudinis. È il principio evangelico secondo il quale l’autorità è servizio. L’Assemblea Costituente compilò un elenco di diritti dell’uomo intesi come servizi che il governante deve rendere al cittadino per il suo bene e che il cittadino può e deve reclamare dal governante.
Quindi non solo il cittadino è soggetto passivo di diritto, ossia oggetto di diritto, per cui gli è data facoltà di esigere per giustizia che vengano rispettati i suoi diritti, è autorizzato a rivendicare e a far valere e difendere legalmente ma anche con la forza i propri diritti, ma gli è anche fatto obbligo di essere soggetto attivo di diritto, ossia di adoperarsi, di rispettare e far rispettare i diritti del prossimo, e quindi deve non solo remunerare e ricompensare il prossimo per i suoi meriti, ma deve anche soccorrere, dare assistenza e aiuto, andare incontro gratuitamente ai bisogni del prossimo, che non è in grado di meritare o compensare. E queste sono le opere della misericordia, che sono implicite quindi nei diritti dell’uomo elencati dalla Dichiarazione.
I diritti invece riguardano il rapporto passivo, ossia i benefìci dovuti dal prossimo a noi, nei nostri confronti. Ma non c’è nessuno che abbia solo doveri e nessun diritto, perché per poter esercitare il dovere, occorre evidentemente essere in grado di farlo; e per questo occorre essere forniti di una capacità o virtù sufficiente, che proviene dal fatto che siano soddisfatti i diritti e i bisogni dell’agente.
Quindi il diritto umano è ciò che l’uomo può esigere dal governante o dagli altri o dalla comunità come dovutogli per il rispetto o in nome della sua dignità umana. Ed egli ha a sua volta il dovere di rispettare i diritti degli altri e del governante.
I diritti dell’uomo sono quei beni che sono dovuti all’uomo da parte del prossimo o del governante per soddisfare ai suoi legittimi bisogni ed esigenze e perchè possa conseguire quei fini della sua natura che rendono felice la sua esistenza.
Natura umana, diritti dell’uomo, giustizia
La ferma volontà di rispettare il diritto degli altri e di Dio, di obbedire alle leggi, di compiere il proprio dovere verso gli altri e verso Dio, di dare a ciascuno quello che gli spetta, è la virtù della giustizia. La giustizia è anche rivendicazione e difesa del proprio diritto. Al diritto da parte nostra corrisponde un dovere da parte degli altri.
Noi abbiamo doveri verso Dio e Dio ha diritto di essere conosciuto, amato, onorato, glorificato, adorato e obbedito. Noi non abbiamo diritti verso di Lui, se non quelli che Egli si è degnato di donarci creandoci bisognosi di Lui. Non ha doveri se non quelli stessi che si è imposto come fedele esecutore delle sue promesse di grazia.
La giustizia comporta varie specie. La divisione fondamentale è quella relativa all’oggetto: se si tratta della giustizia verso il singolo, abbiamo la giustizia individuale o particolare, che rispetta il diritto privato; se invece è il bene comune, abbiamo la giustizia sociale, che rispetta il diritto pubblico. Dal punto di vista dell’atto giusto, abbiamo la differenza fra la giustizia distributiva e quella commutativa, come per esempio quella economica: la prima distribuisce in proporzione dei diversi bisogni; la seconda tratta ugualmente gli uguali ed è detta anche equità o imparzialità. È la giustizia che crea l’uguaglianza.
Dal punto di vista invece del soggetto agente abbiamo la giustizia legale, che è quella che esercita il giudice in tribunale; è il far giustizia; l’epicheia, virtù del giudice, che è una forma superiore di giustizia che si avvicina all’equità e alla misericordia o alla clemenza; la giustizia governativa o amministrativa, che è quella del governante e la giustizia politica, che è il dovere di obbedienza all’autorità da parte del cittadino; la giustizia religiosa che è l’adempimento dei nostri doveri relativi al culto divino.
In rapporto al bene e al male, abbiamo la giustizia costituzionale o legislativa, che fa buone leggi; la giustizia legislativa si basa sul diritto positivo come applicazione del diritto naturale; la giustizia riparatrice o espiativa, che ripara al mal fatto e la giustizia restitutrice, che restituisce il mal tolto. È chiaro che in tutti questi atti c’è sempre il rispetto di un diritto o un diritto da rivendicare.
I diritti umani si fondano sulla volontà di Dio
Si parla bensì di diritti universali: ma se non c’è il riferimento a Dio, questa universalità diventa come in Kant un qualcosa di puramente astratto e formale, che può essere alla fine riempito con qualunque contenuto.
Abbiamo allora il concetto liberale del diritto, per il quale esso consiste semplicemente nel fatto che l’individuo per conto proprio e di suo arbitrio decide ciò che è bene e male e pretende che gli altri lo rispettino.
La Dichiarazione non ha negato la necessità di una gerarchia sociale in base alle capacità, cosa indispensabile ad una società civile ben ordinata, ma ha mostrato che tale gerarchia non è necessariamente condizionata dai gradi di nobiltà o da legami di sangue.
La Dichiarazione ha messo in luce il fatto che al vertice della gerarchia sociale deve bensì funzionare un governante supremo, ma questi non deve essere necessariamente un re, ossia il membro primogenito di una famiglia dinastica, il discendente fisico di altri re a sua volta padre di discendenti che saranno re.
Per quanto riguarda il rapporto governante-governato, la Dichiarazione abbandona lo schema aristocratico padre-figlio, signore-suddito, comando-obbedienza, sostituendolo con lo schema servitore-servito, benefattore-beneficiato. La volontà del governante e quella del governato sono soggette alla medesima legge, al medesimo dovere: al rispetto dei diritti umani, al rispetto del prossimo. Bisogna agire così da non danneggiare gli altri. Questa è la libertà. Non è vera libertà quella che danneggia il prossimo.
Appare il concetto russoiano della «volontà generale», ma non compare il concetto della volontà divina. Potremmo chiederci se il popolo rappresenta la volontà divina o ha per suo conto una volontà sufficiente a fondare i diritti, la giusta convivenza civile e il regime di governo.
L’uomo, il popolo si autogoverna politicamente, d’accordo; ma deve obbedire a Dio od obbedisce solo a sé stesso? Dio può coesistere con un uomo che obbedisce solo a sé stesso ed è temuto solo all’amore del prossimo e non a quello di Dio? Un uomo che fissa un patto con l’uomo, ma non con Dio? Perché allora la Bibbia parla di un’alleanza del popolo con Dio?
È vero che il Preambolo della Dichiarazione recita: «l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Ente Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino». Ma chi è questo Ente supremo? È semplicemente un Dio posto dalla ragione, utile alla ragione, immanente alla ragione, un Dio ideale e astratto come quello di Kant[1] o un Dio realmente esistente al di sopra della ragione, creatore della ragione, al quale la ragione deve servizio ed obbedienza?
Durante il Terrore, nel corso della Rivoluzione francese il partito di Robespierre venne ai ferri corti con quello di Hébert, che voleva fondare la Dichiarazione sull’ateismo, mentre Robespierre sosteneva che la Dichiarazione si basava sull’affermazione dell’Ente supremo, E Robespierre, come è noto, dopo aver ottenuto la pena di morte per Hébert, fu a sua volta giustiziato per questo suo atteggiamento intransigente riguardo all’esistenza di Dio. Ma di quale Dio si trattava? Molto probabilmente era il Dio di Rousseau e di Voltaire, un Dio non personale ma semplicemente ideale, culmine della ragione, che la Massoneria sveva già fatto proprio attingendo a Kant[2]. In realtà la Dichiarazione, al di là della sua professione di teismo, di fatto prescrive di obbedire allo Stato e non di obbedire a Dio.
Come dimostra l’esperienza, la legge positiva potrebbe permettere e volere delle norme ingiuste, alle quali pertanto non sarebbe lecito obbedire. Dunque il criterio della giustizia della legge va cercato più a fondo, nei bisogni, nei diritti e nelle finalità della natura umana. Il legislatore, per fare leggi giuste, deve basarsi su questi valori.
La Dichiarazione, col suo riferimento ai diritti inalienabili, fa implicitamente riferimento al valore e al fondamento della legge. Non dice tuttavia che la legge umana dev’essere applicazione o deduzione della legge divina. Sembra giocare solo la volontà umana, per cui sembra esser sufficiente obbedire alla volontà umana. Ma con ciò non si reintroduce il dispotismo? Dopo tutto il Re riconosceva di dover render conto a Dio delle sue disposizioni legislative.
Assoggettarsi a Dio non è schiavitù. Il governato deve obbedienza al governante, non però come la deve a Dio nel senso di sottomettersi al sovrano in modo assoluto, né il sovrano ha diritto di comandare come fosse Dio, ma il suddito deve obbedienza al sovrano in quanto il sovrano gli comanda ciò che il suddito comprende esser il suo bene, bene che fa riferimento ai diritti costituzionali, i quali a loro volta corrispondono ai dieci comandamenti e alla legge morale naturale.
Il comando dell’autorità umana dev’essere un servizio, non una volontà arbitraria, né può essere una tirannia. Esso dunque sarà giusto se ordinerà ciò che è giusto e vantaggioso per il suddito, il quale sarà tenuto ad obbedire non per cieca obbedienza, ma perché capisce che il governante opera per il suo bene in base alla Costituzione.
Così l’autorità ha il diritto e il dovere di comandare e il suddito ha il dovere di obbedire a tutto suo vantaggio senza sentirsi oppresso o vessato. Così il cittadino si sente libero perché capisce che deve obbedire e quindi lo fa liberamente. La sua volontà viene a coincidere con quella del governante, perché il governante vuole il bene del governato, per cui questi, se vuole il suo bene, non può che obbedire al governante.
La questione
della libertà
Con l’illuminismo nasce la ripugnanza in nome della ragione e dell’uguaglianza ad ammettere una persona più in alto di noi che ci comandi quello che dobbiamo fare per essere felici, sia essa il sovrano o sia Dio. Lo sappiamo da soli in base alla nostra ragione e alla nostra coscienza e lo decidiamo noi autonomamente. Le leggi le facciamo noi. Nel governo civile siamo noi che governiamo noi stessi. Dio non è un Signore che sta in cielo, ma è il vertice della nostra coscienza e il dettame della ragion pratica.
Se esiste una Chiesa, questa è semplicemente la collezione delle nostre coscienze, senza gerarchie e pontificati. Non abbiamo alcun bisogno di altri che ci facciano da mediatori fra Dio e noi, dato che Dio è immanente alla nostra coscienza. Tutti gli uomini sono nelle stesse condizioni davanti a Dio: ognuno ha Dio presente nella propria coscienza che gli fa da guida e quindi ognuno è libero di seguire la propria coscienza. Con tutto ciò gli illuministi credevano nei diritti universali dell’uomo.
Non erano soggettivisti come lo saranno gli idealisti tedeschi e come lo sono i luterani. Si può dire che su questo punto accettano il realismo di San Tommaso d’Aquino, con l’etica naturale e la religione naturale. La differenza da San Tommaso è data dal fatto che - e in ciò gli illuministi seguono la massoneria – non ammettono una rivelazione soprannaturale e una religione soprannaturale, perché per loro Dio non rivela niente, perché non è altro che il supremo ideale della ragion pratica.
Comunque con l’illuminismo e il suo tipico astratto egualitarismo metafisico e antropologico la filosofia perde di vista i gradi dell’essere e la scala dei valori: l’uomo non ammette nulla al di sopra di sé. Non solo l’esistenza della monarchia di diritto divino e del ceto aristocratico gli appare una tirannia, un’offesa alla libertà e alla dignità umana e un’ingiustizia, ma anche la stessa esistenza di Dio come Dio trascendente e celeste. Quindi basta sia col regime aristocratico che con la religione come culto divino. Basta col Re su questa terra e con un Dio in cielo. Il governante lo eleggo io e Dio è immanente alla mia coscienza. Quello che voglio io è quello che vuole Dio che ispira la mia azione.
La Dichiarazione definisce quindi così la libertà in questi termini: «Art. 4 – La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla Legge».
Notiamo che è vero che non è libertà il nuocere agli altri. È vero che essa sta nell’esercizio dei diritti naturali. È vero che essi hanno dei limiti e che i diritti naturali sono gli stessi per tutti gli uomini. Tuttavia i limiti di questi diritti non sono solo di carattere negativo – non danneggiare gli altri -, ma definiscono anche certe opere buone da fare, cioè hanno anche un carattere positivo, che corrisponde ai contenuti dei divini comandamenti, relativi del resto ai diritti inalienabili dell’uomo, che la stessa Dichiarazione ammette.
Tuttavia mancano dai contenuti dei diritti umani il diritto all’istruzione, il diritto di famiglia e di associazione. In tal modo si apre la strada al degrado della cultura religiosa e filosofica e alla dissoluzione della famiglia, mentre l’unica associazione ammessa è quella statale. Da qui si spiega lo scioglimento delle comunità religiose, a parte il pregiudizio che i voti fossero un’offesa alla libertà e un segno di fanatismo perseguibile per legge[3].
Si abbraccia la concezione liberale, per la quale l’ideale è semplicemente agire liberamente senza disturbare gli altri. Ma così ci si dimentica che la cosa fondamentale, ancor prima di essere liberi, è operare il bene. Quanto al disturbare gli altri, non bisogna aver paura di farlo, se questo è il prezzo del nostro operare il bene.
Chi governa con giustizia è tiranno agli occhi del ribelle. Esiste una falsa libertà, che è quella di chi non vuole che Dio comandi su di lui. La vera libertà viceversa nasce dall’obbedienza alla legge divina e alle giuste leggi umane. Essa è il clima dell’esercizio della virtù. Non è solo il poter mettere in atto la propria volontà, ma è la possibilità di fare il bene e di obbedire a Dio, è l’effetto di questa obbedienza.
Obbedire non è essere schiavi, se si obbedisce a chi ci procura il nostro bene. Indubbiamente la libertà è autogovernarsi o, se vogliamo usare un’espressone di Rousseau, è obbedire a se stessi, ricordando però che la norma ultima del nostro agire non può essere la nostra ragione, ma la legge di quel Dio che ci ha creati e che solo pertanto conosce la via della nostra felicità. Ora, tutto questo manca nella Dichiarazione e sembra che la legge dipenda solo dalla ragione umana e dalla volontà popolare.
La questione della fratellanza
La fratellanza si riferisce al principio della socialità umana, che era già stato posto da Aristotele quando definisce l’uomo come animale politico, e codificato dall’etica cristiana nel principio dell’amare del prossimo come se stessi. La Dichiarazione assume la formulazione secondo una modalità negativa: «non fare agli altri ciò che non vuoi che gli altri facciano a te».
È chiaro che si suppone che ciò che fa piacere a me, fa piacere anche a te. Cioè si suppone che i miei bisogni e diritti fondamentali siano gli stessi per tutti gli uomini e si esclude l’imposizione o la supposizione negli altri di certi gusti che sono solo i miei. Fin qui la Dichiarazione è a posto.
Il problema nasce quando ci chiediamo: che parte ha la libertà e quindi la libera convenzione o il libero contratto o patto nel determinare fini e contenuti della socialità umana? Nessuno nega la legittimità ed utilità di patti o convenzioni liberamente stabiliti fra le due parti per affermare o difendere interessi comuni. Ma il «contratto sociale» di Rousseau non è semplicemente questo. Esso suppone un’antropologia per la quale l’associarsi non è attuazione di un’inclinazione naturale, ma solo effetto facoltativo della volontà dell’individuo, che di per sé potrebbe benissimo vivere tranquillo per conto proprio, se non fosse che si trova a vivere oppresso da poteri tirannici.
Infatti per Rousseau l’individuo, nell’associarsi, non tiene conto di inclinazioni o tendenze naturali, che secondo lui non esistono, ma sono semmai imposte arbitrariamente dalla società, ma è libero di stabilire lui di suo arbitrio e secondo i suoi desideri, i fini, i contenuti e i termini del patto sociale; egli solo è l’istitutore e fondatore della compagine e dell’organizzazione dello Stato.
L’individuo, infatti, per Rousseau, è naturalmente buono: è corrotto dall’influsso dell’ambiente; ma da sé sa liberarsi e la sua volontà nel volere il patto sociale non può che essere buona. Se si dà dunque l’insorgenza della tirannide, da essa l’individuo si libera mediante il patto sociale.
Ora la Dichiarazione, come si evince dai due articoli che cito sotto, invece di assumere la saggia posizione di Aristotele, col pretesto della parità dei diritti, dell’esclusione del dispotismo e sostenendo che il rapporto sociale dev’essere effetto di libera scelta, assume la posizione di Rousseau, secondo il quale nessun uomo ha diritto di comandare ad un altro uomo, per cui la socialità umana non ha una base naturale, né esiste una naturale necessità che una comunità abbia un capo, ma l’unità sociale sarebbe fondata e garantita esclusivamente dalla libera volontà di ciascun individuo. Così infatti recitano i citati articoli della Dichiarazione.
«Art. 2 – Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.
Art. 3 – Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa».
Il Maritain, commentando i princìpi di Rousseau, che si riflettono in questi articoli, mette in luce l’espediente astuto che Rousseau adotta per mettere d’accordo da una parte la necessità che l’individuo obbedisca al governante, che è rappresentante della volontà generale, e dall’altra l’esercizio della libertà, per il quale l’obbedienza non è obbedire al prossimo o a Dio, ma a se stessi. Ciò vuol dire che col patto sociale, secondo Rousseau, l’individuo trasferisce liberamente nel corpo sociale o nella Nazione la sorgente dei propri diritti e doveri, ma siccome lo fa liberamente, in realtà egli mantiene sempre la propria autonomia, sicchè alla fine, obbedendo all’autorità, obbedisce ancora a se stesso. Si ha così, osserva il Maritain
«L’alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Dov’è allora la libertà?». Maritain fa rispondere a Rousseau: «Ciascuno dandosi a tutti non si da a nessuno». E spiega: «è sottomesso al tutto, ma non è sottomesso ad alcun uomo: è qui l’essenziale; non c’è alcun uomo sopra di lui. Inoltre, nell’istante in cui il patto genera il corpo sociale, ciascuno resta talmente assorbito in questo io comune, che egli ha voluto, che obbedendo a lui egli obbedisce ancora a se stesso. Più dunque noi obbediamo non a un uomo, ma alla volontà generale, più noi siamo liberi … Così l’individualismo puro per ciò stesso che disconosce la realtà propria dei legami sociali sopraggiunti agli individui per esigenza di natura, sbocca facilmente, quando intraprende a costruire una società, in una vera statolatria»[4].
La fratellanza richiama anche all’idea della paternità; ma qui il concetto della Costituzione si arresta, perché essa non sa vedere una personalità trascendente in quanto a suo giudizio comprometterebbe l’uguaglianza per rintrodurre l’elemento gerarchico connesso con l’elemento aristocratico e monarchico.
Ma chiaramente, se qui scompare l’idea del governante o dell’autorità come paternità, è chiaro che viene meno anche il riferimento alla paternità divina, per cui viene da chiedersi chi sarebbe quell’«Ente supremo», che pur è citato dalla Dichiarazione del 1789. È veramente Dio trascendente e creatore? È un Dio personale e legislatore, al quale dobbiamo obbedire e dal quale ogni autorità proviene, senza che questo voglia assolutamente dare necessariamente fondamento a un regime monarchico? O forse è il Dio di Kant, suprema idea della ragione? O il Dio massonico, Grande Architetto dell’universo? È il Dio di Voltaire, di Robespierre o di Rousseau?
Bisogna riconoscere che la famosa triade è ben congegnata ed ha avuto un meritato successo ben al di à dei confini della Francia. Se le armate di Napoleone non hanno conquistato l’Europa, bisogna dire che la Francia, erede di una più che millenaria tradizione cristiana, con la rivoluzione, che pure si è macchiata di infiniti crimini contro quella stessa triade, al di là di quel che potrebbe sembrare, non ha soppresso quella tradizione, ma l’ha confermata generando mediante un doloroso parto, la concezione moderna dello Stato, che ha confermato quella laicità e quell’anima democratica che già San Tommaso, in pieno regime feudale, aveva insegnato e che oggi sono insegnati dalla dottrina sociale della Chiesa.
E se la stessa massoneria ha fatto di quella triade una sua bandiera, non deve dispiacercene, sempre che evitiamo l’ingenuità di interpretarla come se fosse una fotocopia del Vangelo, nonché la chiusura mentale di chi, per una maldestra difesa dell’ortodossia, non si accorge che non sta a noi cattolici imparare su questo punto dai massoni, ma sono loro che si sono impossessati per ignobili fini di ciò che appartiene a noi cattolici.
Fine Seconda Parte (2/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 13 gennaio 2025
Per sapere quali sono i diritti dell’uomo occorre sapere quali sono i caratteri essenziali della natura umana, quali sono i suoi fini e quali i doveri che la vincolano in coscienza davanti a Dio o quali sono le leggi che deve mettere in pratica per ottenere il suo bene e raggiungere la sua felicità. Occorre quindi sapere che l’uomo è creato da Dio al quale, in quanto creatore, spetta fissare le norme della condotta umana. Il fondamento dei diritti umani è quindi la volontà di Dio creatore dell’uomo.
La ferma volontà di rispettare il diritto degli altri e di Dio, di obbedire alle leggi, di compiere il proprio dovere verso gli altri e verso Dio, di dare a ciascuno quello che gli spetta, è la virtù della giustizia. La giustizia è anche rivendicazione e difesa del proprio diritto. Al diritto da parte nostra corrisponde un dovere da parte degli altri.
Difetto della Dichiarazione del 1789 è l’insufficiente rifermento a Dio, pur indicato come «Ente supremo», ma non come creatore dell’uomo, per cui sembra che i diritti non abbiano la loro origine e fondamento nella volontà di Dio, ma solo nella volontà umana.
Si parla bensì di diritti universali: ma se non c’è il riferimento a Dio, questa universalità diventa come in Kant un qualcosa di puramente astratto e formale, che può essere alla fine riempito con qualunque contenuto.
Possiamo aggiungere che evidentemente il concetto di fratellanza introduce un fattore affettivo, che non è immediatamente avvertibile nel concetto di uguaglianza, che porta il pensiero solo all’universalità della natura umana, della legge morale naturale e della giustizia. Fratellanza dice solidarietà, collaborazione, reciprocità, disponibilità, concordia, amicizia, confidenza, comunione,
La fratellanza richiama anche all’idea della paternità; ma qui il concetto della Costituzione si arresta, perché essa non sa vedere una personalità trascendente in quanto a suo giudizio comprometterebbe l’uguaglianza per rintrodurre l’elemento gerarchico connesso con l’elemento aristocratico e monarchico.
Immagini da Internet:
- Allegoria della Giustizia, G. Vasari, Firenze
- Allegoria della Fede, G. Vasari, Venezia
[1] Di esso Kant parla a lungo nella Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari, 1965, da p.530 a p.553.
[2] Come spiega Giuliano Di Bernardo il Dio della massoneria è il Dio di Kant: vedi Filosofia della massoneria, Edizioni Marsilio, Venezia 1992, pp.71-100.
[3] Ciò spiega il perchè della pena di morte che fu inflitta nel 1793 alla comunità femminile di carmelitana di Compiègne, rifiutatasi di sciogliersi rinunciando alla pratica dei voti religiosi. La Costituzione civile del clero, basata sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo giungeva all’assurdo di costringere ad essere «liberi» sotto pena di essere puniti con la morte.
[4] Tre riformatori, op.cit., pp.168-169.
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