Come si concilia la speranza
con la coscienza che non tutti si salvano?
Seconda Parte (2/2)
Che cosa è la speranza?
La speranza della quale parla il presente Anno Santo è ovviamente la speranza cristiana, virtù teologale basata sulla fede ed animata dalla carità, speranza nella propria salvezza, proveniente dal fatto che ci adoperiamo anche per la salvezza degli altri, ma speranza anche in un senso più ampio, umano, anche se non teologale, speranza per tante cose belle che ci sono indicate o suggerite dalla ragione e dalla fede, in primis speranza che anche i nostri amici e i nostri cari vivi e defunti possano salvarsi, speranza che i malvagi si convertano e così possano salvarsi. In questo senso si potrebbe parlare di uno «sperare per tutti»
La speranza in generale, è un gioioso moto dell’animo col quale la volontà o il desiderio di un bene futuro possibile ma difficile da conseguire muove l’intelletto a guardare a questo bene, con la conseguenza che il cuore si apre gioiosamente ad attendere o a tendere fiduciosamente e coraggiosamente verso questo bene non ancora posseduto, ma che è bello concepire, mentre la volontà si mette all’opera per conseguirlo con un moderato timore di non riuscirvi o che quel bene le sfugga, perché la speranza ben motivata o fondata dà la certezza di raggiungere il bene sperato, ma si tratta solo di una certezza morale, che non dipende dal fatto che l’intelletto è necessitato dalla presenza del bene, ma che dipende o dalla convinzione di farcela o da soli o con l’aiuto di un altro nel quale si ripone fiducia, soprattutto Dio.
Dobbiamo distinguere la speranza umana dalla speranza cristiana. Come fa notare San Tommaso[1], lo sperare è già una virtù naturale, è un moto psicoemotivo, esprime una forza d’animo (che egli chiama «irascibile»), che consente, in base a motivi ragionevoli, di vincere il timore di non farcela e di guardare con fiducia a un avvenire luminoso, sicchè questo stesso atto di protenderci verso un avvenire desiderabile e desiderato dà gioia e provoca una spinta ad agire per il raggiungimento o la realizzazione di questo avvenire.
Bisogna pertanto saper sperare, sapere che cosa, quanto e fin dove si può sperare e che cosa non ha senso sperare. Occorre sapere che cosa possiamo sperare in base alle nostre forze e che cosa possiamo sperare con l’aiuto degli altri o di Dio.
Se sperare dipende dalla nostra volontà, come si può onorare la virtù della speranza, così si può peccare contro la speranza o per eccesso o per difetto. Per eccesso, quando speriamo cose o impossibili o irragionevoli o sproporzionate o al di sopra di ciò che Dio vuole per noi.
Per esempio è sbagliato pensare, come i luterani e come fa Moltmann[2], che l’oggetto della speranza cristiana sia in contraddizione con i dettami della ragione. Una speranza contraria alla ragione, anche se spacciata per cristiana, è e resta vana speranza, spacconata, stolta vanteria, presunzione o arroganza, provenienti dalla superbia.
La speranza riposta nell’uomo tuttavia può deludere perché l’uomo è peccatore. Oppure può capitare che dall’uomo, noi stessi o gli altri, ci attendiamo troppo. Se invece è Dio stesso che nella fede ci rivela e ci promette dei beni futuri a condizione che osserviamo i suoi comandamenti, allora le cose sono molto diverse.
Bisogna distinguere la speranza dalla prescienza. Tra le cose che Dio ci rivela come future, alcune avverranno immancabilmente perché decise da Dio, come i flagelli apocalittici, le primizie dello Spirito, il Ritorno finale di Cristo, la sua vittoria apocalittica sulle forze del male, la fine del mondo, la fine delle pene temporali dei buoni e delle loro penitenze, il conseguimento del pieno dominio del loro spirito sulla carne, la riconciliazione di tutti i buoni fra di loro nella cessazione di ogni conflitto e nel superamento di ogni divisione e nella pace, l’ingresso di Israele nella Chiesa, la piena presenza dello Spirito Santo nel cuore di tutti i buoni, la risurrezione dei morti, il giudizio universale, la separazione definitiva dei beati dai reprobi, i cieli nuovi e la terra nuova.
Se da Dio accettiamo il bene,
perché non dovremmo accettare il male?
Gb 2,10
È facile capire che le cose buone che allietano la nostra vita vengono da Dio, Che è bontà infinita. Ci sdegniamo invece con Lui quando ci manda la sofferenza. Facciamo fatica a far risalire a Lui i dolori, le sventure, la calamità che ci colpiscono o a causa degli uomini o della natura. Siamo portati al rimprovero. Ci viene voglia di odiarLo. Siamo portati a protestare, al rifiuto di quanto ci capita, non lo vogliamo. Non ci piace affatto. A volte ci lascia sconcertati e nell’angoscia. Ci sentiamo da Lui abbandonati. Ci viene addirittura il dubbio se Egli esista veramente.
La questione della speranza è connessa con quella della vittoria sul male o della liberazione dal male: Dio un giorno farà sparire tutto il male o resteranno le pene dell’inferno? Esiste una vittoria definitiva del bene sul male? È bene che ci sia il male o sarebbe stato meglio se il male non fosse mai esistito? Dio trionferà sui suoi nemici? Chi è che ha inventato il male? La Chiesa prevarrà sulle forze dell’inferno? I buoni saranno un giorno liberati dall’oppressione dei malvagi? Chi ha patito ingiustizia adesso otterrà giustizia da Dio? Chi l’ha fatta franca adesso sarà punito nell’al di là? Sono tutte domande che qualsiasi persona onesta credente o non credente si pone. È chiaro che se il peccato non viene punito, ciò è un ottimo lasciapassare del peccato. Il misericordismo non toglie i peccati, ma li aggrava.
Tra il buonismo di Von Balthasar e quello di Origene non c’è sostanziale differenza. Se solo questo è stato condannato dalla Chiesa, anche quello è implicitamente condannato. Infatti il nocciolo della questione non è una questione di subito o più tardi, di adesso o dopo. L’essenziale sta nel sapere se il castigo c’è o non c’è.
Negare che il castigo sia eterno o negarlo del tutto è sostanzialmente la stessa eresia. Anzi è peggio ancora negarlo del tutto. Almeno Origene lo ammette per un certo tempo. Ma in tutte e due le teorie si viene a dire in sostanza che Dio non castiga il peccato. Infatti o il castigo è eterno o non c’è.
La pena del purgatorio non è un castigo ma una purificazione. Né si può dire che il castigo vada contro la misericordia o sia una mancanza di misericordia, perché l’oggetto al quale si applica la misericordia, ossia il pentito, è diverso dall’oggetto al quale si applica la punizione, che è l’impenitente ostinato.
È vero che Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto perdonare tutti. Ma di fatto perdona solo alcuni e non sappiamo perché perdona solo alcuni e non tutti. Egli però lo sa. Per questo sappiamo che il perchè esiste, anche se Egli non lo rivela, perché non lo potremmo comprendere. Ci deve bastare il sapere che Egli è bontà infinita.
Dio ha voluto anche esercitare la giustizia con la giusta punizione. Se dunque Dio castiga, non per questo è ingiusto, né va contro la misericordia. Ma negare che Dio castighi equivale dire che Egli è ingiusto, è questo è ingiusto ed è un’eresia.
Ma castigando, Dio vuole il male? Sì, il male di pena. Ma il male di colpa, il peccato, che è la causa del castigo, l’ha voluto la creatura. La volontà di bene propria di Dio, non esclude la volontà di punire il malvagio, perché ciò è un bene, è un’azione giusta e buona.
Quanto al male di colpa, Dio non l’ha voluto; e tuttavia Dio ha voluto non impedirlo. Si tratta del peccato, al quale ha fatto seguito il male di pena, cioè il castigo. Se avesse voluto, avrebbe potuto impedire l’esistenza del peccato dell’angelo e dell’uomo e elevare entrambe le creature allo stato di gloria immediatamente dopo la creazione. Invece Egli cancella il peccato, ma lascia la pena.
Il castigo del peccato ha due forme: c’è il castigo immanente e il castigo conseguente. Il primo è intrinseco all’essenza stessa distruttiva del peccato. Questo castigo neppure Dio lo può togliere o impedire, perché sarebbe cosa contradditoria. Sarebbe come un togliersi la vita senza morire.
Invece il castigo conseguente è quello fissato per convenzione dal giudice, castigo che può essere dilazionato ed anche tolto dalla misericordia divina. Dio può punire con l’inferno un assassino non pentito e non sanzionato dalla giustizia umana anche molto tempo dopo che ha commesso il delitto.
Viceversa Dio può sospendere la pena a un peccatore pentito che ha già sperimentato il castigo intrinseco al peccato stesso, come il Vangelo narra del figliol prodigo, giacchè l’atto stesso del peccare provoca nel peccatore, anche di quello che è indurito nel peccato, un turbamento interiore, al di là della magra soddisfazione d’aver fatto la propria volontà e non quella di Dio.
Se Dio è infinitamente buono, come mai esiste il male?
Come mai Dio infinita bontà può aver voluto non impedire il male? Non lo sappiamo perchè non possiamo saperlo, tanto le ragioni sono nascoste nell’imperscrutabile mistero della sua volontà. Se la cosa fosse stata alla nostra portata, Cristo ce lo avrebbe rivelato. Questo è il senso profondo di un’espressione di Papa Francesco, espressione a tutta prima apparentemente infelice, che egli pronunciò dicendo «non sappiamo il perchè della sofferenza».
Uno potrebbe dire: ma come? Che cosa ci ha rivelato Cristo se non il perché della sofferenza? Occorre distinguere: se questo «perchè» vuol dire che ci ha rivelato che cosa è il male, la sofferenza, il peccato, la morte, il castigo, l’origine e la causa e lo scopo del male, nonché la cura e il rimedio al male e come liberarsi dal male, certamente tutto ciò Cristo ce lo ha rivelato ed è cosa consolantissima.
Gesù ci ha fatto capire che il Padre nella sua misericordia e onnipotenza col donarci suo Figlio, non si è accontentato di restituire all’uomo la sua perduta innocenza redimendolo dal peccato e dalla morte, ma ha voluto renderlo figlio di Dio, ossia elevarlo per grazia ad una vita soprannaturale, superiore alle esigenze e finalità del vivere semplicemente umano, renderlo immagine del Figlio, un bene infinito superiore a quello del quale Adamo avrebbe potuto godere nello stato d’innocenza. Dio ha ricavato dal male un bene maggiore di quello che ci sarebbe stato se il male non ci fosse stato. Questa è la famosa splendida risposta di Sant’Agostino al perché del male.
Osserviamo tuttavia che se Dio avesse voluto, avrebbe potuto costituire angeli e uomini nello stato di gloria immediatamente dopo la creazione muovendo la loro volontà verso l’unione con Lui senza permettere la caduta degli angeli e dell’uomo e quindi senza condurre l’uomo peccatore redento da Cristo attraverso le infinite peripezie, drammi, fallimenti e tragedie, per tutta l’infinita successione di delitti, mali, lutti e sofferenze, che percorrono e costellano tutto il corso tormentato della storia.
Stiamo attenti ad evitare la tentazione di crederci più misericordiosi di Dio. Qualcuno infatti oggi sembra esser portato a dire: se fosse dipeso da me o fossi stato io al posto di Dio, avrei salvato tutti. Bisogna ricordare che la Chiesa non è un’efficiente squadra di soccorso che salva tutti i naufraghi di un naufragio o tutti gli abitanti di una casa in fiamme, per cui, se non salvasse tutti, riceverebbe il più severo dei rimbrotti.
L’opera divina della salvezza non è proprio la stessa cosa: essa suppone che non tutti vogliono essere salvati da Dio, ma alcuni ritengono di potersi salvare da soli o si ritengono sani e di non aver bisogno di alcuna salvezza.
Non tutti implorano la misericordia di Dio, perché alcuni non sentono affatto bisogno di essere compassionati o perdonati da Dio o perché ritengono di non aver fatto niente di male o perché a loro Dio non interessa o perchè lo odiano o perché non credono neppure nell’esistenza di Dio.
Dio, dal canto suo, non salva nessuno per forza: altrimenti perchè avrebbe dotato la persona di libero arbitrio? Dio certo vorrebbe tutti abbracciare nel suo amore. Ma non vuole essere amato per forza, perché l’amore è incompatibile con la costrizione e la violenza. A Lui interessa che sia la persona a scegliere liberamente. E se è vero che è Lui a muovere la volontà di coloro che Lo amano, ricordiamoci che Egli crea la stessa libertà dell’atto col quale è amato. E giunge al punto di creare anche l’atto della volontà di coloro che lo odiano, benché la malizia dell’atto sia causata solo dal peccatore.
Ma Egli davanti al rifiuto si fa da parte piuttosto che essere corrisposto per forza, anche se ha sempre la possibilità di mutare da malvagia a buona la volontà del peccatore. La minaccia del castigo non forza assolutamente la volontà dell’uomo, come ad alcuni potrebbe sembrare, perché chi lo rifiuta lo fa volontariamente perchè Lo odia pur sapendo a che cosa va incontro col rifiuto.
Alcuni della scuola di Severino, per il quale tutto è uno, eterno, necessario ed immutabile, e il non-essere non esiste, il male inteso come privazione, che è non essere, non esiste; ma ciò che noi riteniamo male, come il peccato e la sofferenza, appartengono anch’essi all’orizzonte dell’essere, e quindi dell’eterno, del necessario e dell’immutabile.
Anche ciò che a noi appare come male è anch’esso un insieme di apparizioni molteplici e successive dell’Essere in rapporto alla nostra individualità empirica. Se quindi a noi sembra che certe cose ci rechino danno, è solo perché non ci mettiamo dal punto di vista della Verità dell’Essere, ma solo dal nostro punto di vista particolare, limitato e transitorio e non ci eleviamo alla visione dell’Uno e dell’Intero, al di sopra dell’essere e del non-essere, del vero e del falso, del bene e del male. E vedremo che tutto è bene così com’è perché c’è.
Tuttavia, a ben esaminare questa soluzione, essa non convince per la sua falsità e contradditorietà. Non resta, pertanto, come vera e consolante risposta al mistero del male, altro che la risposta cristiana che ho detto.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 18 marzo 2025
Quanto è grande la saggezza di chi sa che da Dio viene anche la sofferenza!
Gesù, nelle spiegazioni che ci danno San Giovanni e San Paolo, ci chiarisce perfettamente questo punto delicato di teologia, che mette alla prova la nostra nozione di Dio, del bene e del male e il concetto che abbiamo del suo amore per noi.
Immagine da Internet:
- Dipinto del Purgatorio, Penati N., Manfredonia
Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere
RispondiEliminaCaro Anonimo,
Eliminaqueste sagge parole di San Paolo sono un avvertimento sempre utile per coloro stanno conducendo una normale vita cristiana o credono di farlo.
E’ un utile richiamo alla vigilanza, all’umiltà, alla cautela e allo spirito di conversione, perché anche coloro che tra noi sono le nostre guide restano sempre fragili peccatori e bisognosi di conversione.