Guido Mattiussi e Joseph Maréchal - Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant alle origini del modernismo - Prima Parte (1/3)

 

Guido Mattiussi e Joseph Maréchal

Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant

alle origini del modernismo

 

Prima Parte (1/3)

 

Un’istanza giusta realizzata in modo sbagliato

Il modernismo nacque da un’istanza in sé stessa giusta, un’istanza di ammodernamento della teologia cattolica, che tenesse conto dei valori del pensiero moderno, ma fu soddisfatta in una maniera sbagliata. Ciò fu causato da un equivoco su cosa si deve intendere per filosofia moderna e dalla conseguente assunzione di un criterio errato di valutazione e discernimento, i cui risultati non potevano che essere disastrosi.

Infatti l’espressione «filosofia moderna» può avere due significati: o semplicemente la filosofia che esiste oggi, in tutti i suoi aspetti positivi e negativi, che è il significato più ovvio, ossia un semplice dato di fatto storico, supponendo che il moderno sia migliore dell’antico; oppure l’espressione può significare la filosofia che oggi deriva da quella cartesiana, che i suoi seguaci comprensibilmente considerano la migliore e la più avanzata.

Questa identificazione semantica del cartesianismo e del conseguente idealismo tedesco col moderno, è stata il frutto di un’abile operazione propagandistica degli stessi cartesiani, operazione che ha avuto tanto successo, che essa ai tempi di San Pio X era stata fatta propria addirittura dai tomisti, i quali pertanto parlavano dei «moderni» in tono spregiativo, mentre trovavano la verità negli «antichi», cioè in San Tommaso e in Aristotele.

I modernisti, dal canto loro, avvertivano la necessità che la Chiesa favorisse e promovesse un progresso sia nella pastorale con l’assumere nei confronti della modernità uno stile più aperto e meno duro, sia nella teologia stimolandola ad assumere quanto di meglio aveva prodotto il pensiero moderno. Tutto ciò era giusto. Ma che cosa fu ciò che attirò su di loro la famosa condanna di San Pio X?

Fu il fatto che usarono come criterio di vaglio e discernimento non San Tommaso, come raccomandava la Chiesa, ma gli stessi errori della filosofia moderna. Se l’intento era buono, la riuscita fu disastrosa. Il nodo fondamentale della questione era sostanzialmente come affrontare il filosofo che allora maggiormente tra gli eredi di Cartesio, suscitava l’attenzione dei teologi cattolici, Emanuele Kant. Tutto il dibattuto ruotava attorno a Kant. L’enciclica Pascendi chiaramente era un rifiuto radicale del kantismo, anche se tuttavia era chiaro l’aggancio col susseguente idealismo tedesco.

L’intervento di San Pio X

L’accusa fondamentale fatta da San Pio X ai modernisti era quella di falsificare la filosofia cattolica con quella kantiana. Infatti, il Santo Pontefice esordisce nella Pascendi delineando in pochi poderosi tratti un ritratto del pensiero kantiano senza nominare l’autore.

Ma per chiunque conosce Kant appare subito evidente qual è il filosofo al quale Pio si riferisce. E difatti troviamo nell’enciclica i tre caratteri della filosofia kantiana: il fenomenismo, l’agnosticismo e l’immanentismo.

Il fenomenismo è la teoria secondo la quale «la ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, cioè di quel che apparisce e nel modo in che apparisce, senza diritto e facoltà naturale di passare oltre i fenomeni. Per questo, essa non può innalzarsi a Dio, né conoscerne l’esistenza. sia pure per mezzo delle cose visibili».

Dal fenomenismo deriva l’agnosticismo: stando a quanto i fenomeni ci dicono, di Dio non sappiamo nulla, perché da essi non possiamo elevarci a Lui. Ma ecco che arriva l’immanentismo: questo non vuol dire che Kant non ammetta a suo modo l’esistenza di Dio, Dio come immanente alla ragione, suprema idea della ragione, sviluppo dell’autocoscienza cartesiana («io penso»).

Quale Dio, dunque? Non un Dio trascendente al di là della nostra ragione o coscienza, ma un Dio in essa immanente, tuttavia non concettualmente conoscibile, ma «inconoscibile», nascosto nella «subcoscienza», oggetto del «sentimento o interna esperienza che nasce dal bisogno della divinità».

Io affermo che Dio esiste, secondo Kant, non perché, partendo dai fenomeni, dalla realtà esterna o dalle cose in sé, lo scopro come causa prima e creatrice delle cose delle quali ho esperienza, ma perché ne ho bisogno per far funzionare la mia ragione. Io non dimostro, ma postulo l’esistenza di Dio, esistenza pertanto che non è una realtà fuori e al di sopra della mia ragione, ma è un’idea immanente alla mia ragione e posta dalla mia ragione per fondare sé stessa o dar ragione di sé stessa.

L’enciclica mostra poi come Kant ammette bensì la religione; tuttavia non la intende come culto di un Dio personale, la cui esistenza è dimostrata a posteriori, partendo dalle cose ed interrogandosi quale ne è la causa prima, ma come idea apriori entro i limiti della ragione, ossia secondo lui la spiegazione dell’esistenza della religione «indarno si cerca fuori dell’uomo. Resta dunque che si cerchi nell’uomo stesso», ossia nella autocoscienza dell’uomo secondo il principio cartesiano del cogito, che Kant esprime nella formula «io penso».

L’enciclica mostra in base a quanto detto come Kant, parlando di intelletto, di giudizio, di ragione, di coscienza, di legge morale e di libertà, ammette l’esistenza dello spirito.

L’enciclica si ferma ad analizzare nei suoi vari aspetti la gnoseologia modernista in campo filosofico e teologico e non descrive l’etica che ne consegue. Ci dice come i modernisti vedono la funzione dell’intelletto, ma non ci dice esplicitamente qual è la parte della volontà e dell’azione nel suo sistema. Tuttavia la si può facilmente dedurre dalle qualifiche infamanti con le quali il Papa apostrofa i modernisti accusandoli di superbia, di ribellione, di falsità, di arroganza, di astuzia, di smania di novità, di falsi mistici.

Ai tempi di Pio X i modernisti limitavano la loro audacia ad assumere il kantismo, ma non osavano andare oltre procedendo all’assunzione dell’idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel. Per questo l’enciclica non parla di idealismo, che sarebbe invece stato condannato da Pio XII nell’Humani generis, giacchè allora i teologi, come per esempio Rahner, cominciarono ad essere influenzati anche da Hegel.

L’enciclica si limita a parlare di immanentismo, che non è ancora il compiuto idealismo di Hegel. Infatti Kant distingue ancora la natura umana da quella divina, sa benissimo che il pensiero umano è trasceso da quello divino, anche se lo ammette solo sul piano concettuale e non su quello reale, perché continua ad ammettere la realtà esterna al pensiero umano, ma non trae da ciò le conseguenze, perché negando ls conoscibilità delle cose come sono in se stesse, gli manca la possibilità di risalire dalle cose a Dio.

L’immanentismo è il difetto della teologia kantiana, per la quale Dio non è una persona trascendente la ragione umana, ma è l’idea suprema della ragione; quindi si tratta di un Dio che è nell’uomo e non può fare a meno dell’uomo. Per questo, la professione di idealismo si trova già in Kant[1]. Egli infatti respinge l’idealismo di Berkeley che nega l’esistenza delle cose materiali esterne, ma inaugura l’idealismo trascendentale, per il quale il conoscere coincide con l’essere. Ciò sarà portato in piena luce da Schelling, dopo le esplicitazioni di Fichte.

Sarà Schelling, infatti, col suo trattato Sistema dell’idealismo trascendentale[2], ad esporre sistematicamente la dottrina della piena coincidenza del pensare con l’essere, che egli esprime nella formula dell’«identità del soggetto con l’oggetto», mentre Hegel parlerà di «identità della cosa col concetto della cosa». Ora Kant assegna al soggetto, ossia al pensiero, la determinazione della forma della realtà o della cosa, ma lascia la materia all’esterno del pensiero, ammettendo che la cosa in sé è esterna all’io.

E tuttavia in Kant il mondo dello spirito, Dio compreso, non appare più alla ragione una realtà esterna, ma come il mondo della coscienza, come è già suggerito da Cartesio e dallo stesso Lutero. In ciò Kant precorre già l’idealismo successivo.

Ma la cosa interessante della Pascendi è che essa vede già nel modernismo la presenza del panteismo (al n.80), segno che Pio X si era accorto che i modernisti già allora tendevano ad oltrepassare Kant e cominciavano ad assumere l’idealismo assoluto e trascendentale. Anzi, dirò di più: la Pascendi assume il tono della vera e propria profezia, quando essa mette in guardia da quello che solo con Husserl ed Heidegger, entro pochi decenni, ai tempi del Concilio Vaticano II, sarebbe stato l’influsso dello sviluppo ulteriore dell’idealismo: la fenomenologia.

L’enciclica infatti, con estrema franchezza e chiarezza pastorale – era questa infatti la posta in gioco - va al nodo della questione da cui tutto dipende, ponendo senza mezzi termini la domanda radicale, che costituisce lo spartiacque fra realismo e idealismo:  

 

«L’immanenza divina distingue o no Dio dall’uomo? Se lo distingue, che differisce dunque tal dottrina dalla cattolica?», ossia: perché nega la trascendenza? «o perché mai rigetta quella dell’esterna Rivelazione? Se poi essa non si distingue, eccoci di bel nuovo col panteismo. Ma di fatto l’immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall’uomo in quanto uomo», ed eccoci ad Husserl e ad Heidegger. «Dunque di legittima conseguenza deduciamo che Dio e l’uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo».

L’enciclica mette dunque perentoriamente davanti ad una scelta, ad un aut-aut: o ci si apre umilmente alla verità e al realismo, seguendo San Tommaso e il Magistero della Chiesa, e allora si può giungere alla fede. O ci si chiude nell’idealismo, nella superbia e nella disobbedienza al Magistero della Chiesa, e allora si cade nell’eresia, nella falsità, nell’incredulità e nell’empietà.

Tuttavia l’enciclica non risolveva tutti i problemi. Essa condannò bensì gli errori, ma mancò di riconoscere la validità dell’istanza dei modernisti. Rimase quindi aperto il problema dell’ammodernamento della teologia: d’accordo sull’esistenza degli errori; ma che cosa assumere di positivo dalla modernità?

Fu questa la grave questione ancora aperta che si posero urgentemente dopo la Pascendi, alcuni spiriti aperti e preveggenti, quanti avvertivano l’importanza e il dovere del progresso della teologia. E fra questi vi fu appunto i Maréchal, insieme con altri, come il Sertillanges, il Maritain, il Congar, lo Chenu, il de Lubac, il Daniélou.

Essi anticiparono il Concilio Vaticano II, per il quale la Chiesa stessa fece propria questa istanza e la soddisfece appunto con i suoi insegnamenti.  Ma soprattutto a partire dal postconcilio, per una falsa interpretazione delle sue direttive, si avviò purtroppo un falso progresso, simile a quello che era stato il modernismo dei tempi di Pio X. E qui un promotore di questo neomodernismo fu appunto il Maréchal, ripreso successivamente da Rahner, il quale ha peggiorato ulteriormente l’operazione maréchaliana col creare nella sua teologia un’evidente confusione fra il pensiero di San Tommaso e quello di Hegel e di Heidegger[3].

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 26 dicembre 2024

 

Per chiunque conosce Kant appare subito evidente qual è il filosofo al quale Pio si riferisce. E difatti troviamo nell’enciclica i tre caratteri della filosofia kantiana: il fenomenismo, l’agnosticismo e l’immanentismo.

Io affermo che Dio esiste, secondo Kant, non perché, partendo dai fenomeni, dalla realtà esterna o dalle cose in sé, lo scopro come causa prima e creatrice delle cose delle quali ho esperienza, ma perché ne ho bisogno per far funzionare la mia ragione. Io non dimostro, ma postulo l’esistenza di Dio, esistenza pertanto che non è una realtà fuori e al di sopra della mia ragione, ma è un’idea immanente alla mia ragione e posta dalla mia ragione per fondare sé stessa o dar ragione di sé stessa.

A partire dal postconcilio, per una falsa interpretazione delle sue direttive, si avviò purtroppo un falso progresso, simile a quello che era stato il modernismo dei tempi di Pio X. E qui un promotore di questo neomodernismo fu appunto il Maréchal, ripreso successivamente da Rahner, il quale ha peggiorato ulteriormente l’operazione maréchaliana col creare nella sua teologia un’evidente confusione fra il pensiero di San Tommaso e quello di Hegel e di Heidegger.

Immagine da Internet: San Tommaso d'Aquino, Peroni Giuseppe, Parma
 


[1] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza,Bari 1965, p.234.

[2] Edizioni Laterza, Bari 1990.

[3] Rahner sostiene che «a partire da Tommaso il metodo trascendentale», che sarà poi quello di Kant, «è presente e operante in tutta la teologia». Da qui la conclusione che una filosofia odierna e quindi anche la teologia non può e non deve permettersi di rimanere indietro nei confronti della rivoluzione antropologico-trascendentale operata dalla filosofia moderna a partire da Cartesio, Kant, attraverso l’idealismo tedesco … sino alla fenomenologia, alla filosofia esistenzialista e alla ontologia fondamentale  d’oggi. … Questa filosofia è profondamente cristiana. Infatti, in una concezione radicalmente cristiana, l’uomo non è un momento all’interno di un mondo costituito da cose, né è sottoposto alle coordinate di concetti ontici derivate da esso. L’uomo è invece il soggetto dalla cui libertà dipende il destino di tutto il cosmo», Nuovi saggi III, Edizioni Paoline , Roma 1969, pp.61-62.

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