La giustizia del Padre
Seconda Parte (2/3)
Che
cosa vuol dire soddisfare a Dio?
La parola «soddisfazione» è d’uso molto comune, per esempio: «Ho avuto molte soddisfazioni dalla vita», «sono soddisfatto di ciò», per dire: sono contento. Il termine soddisfare viene dal latino satis-facere, che vuol dire «fare abbastanza», ma fare abbastanza in che senso? A quale scopo? Per render contento, e quindi soddisfatto qualcuno.
Per questo il verbo soddisfare lo si usa con l’accusativo: soddisfare qualcuno. Lo si può usare anche col dativo, per esempio: soddisfare alle richieste, andare incontro a certe esigenze. Il verbo è meno usato nel senso giudiziario o giuridico: pagare il fio o scontare la pena per onorare la legge e riparare al danno fatto, oppure «dare soddisfazione a qualcuno per un’offesa subita», così da offrirgli un compenso o un risarcimento o una riparazione. In questo caso non si dice soddisfare qualcuno, ma soddisfare a qualcuno o per qualcuno o per qualcosa.
Allora qui il soddisfare è, come dice San Tommaso, «offrire all’offeso ciò che egli ama ugualmente o di più di quanto non odii l’offesa»[1]. Se io offendo qualcuno, sento spontaneo il desiderio di riparare o rimediare a quanto ho fatto, così da procacciarmi di nuovo la benevolenza di colui che ho offeso. Se contraggo un debito con qualcuno, e se sono onesto, sento il bisogno di sdebitarmi e pagare il dovuto. Se voglio acquistare una merce, chiedo al venditore quanto costa. Se voglio compiere una nobile impresa, mi chiedo quanta fatica ci devo mettere. Se voglio vedere uno spettacolo, sono pronto a pagare il biglietto.
Se io offendo Dio, perché non dovrei sentire il bisogno di riparare o darGli soddisfazione per il male che ho fatto? Da questo sentimento nascono i sacrifici cultuali in tutte le religioni: offrire a Dio qualcosa per quietarlo nei miei confronti e riottenere i suoi favori, perchè mi tolga il castigo e mi ridoni la sua grazia. Il sacrificio della Messa nel cattolicesimo non è altro che il sacrificio a Dio, che Dio stesso in Cristo ci propone come sacrificio gradito al Padre per averLo a noi propizio e disposto al perdono e alla misericordia.
Prendere dal prossimo, in nome della sua bontà, senza restituire o evitare di dargli il dovuto o pretendere dal prossimo che abbiamo offeso che egli sopporti e ci perdoni senz’altro come se nulla fosse successo, pretendere che ci accetti allegramente e supinamente come siamo nella nostra cattiveria senza batter ciglio, far finta di niente, pretendere che l’offeso resti con noi comunque contento, dolce e benevolo come prima, non è forse ipocrisia e sfacciataggine, non è forse un prenderci gioco di lui, non è forse un segno spregevole di sfrontatezza, non è forse prepotenza e fargli violenza? E allora, come e con quale faccia potremmo agire con Dio in questo modo col pretesto che è buono e misericordioso? Che guadagno ne avremmo?
È il nostro un discorso serio e onesto o è solo un meschino espediente per continuare a peccare nella speranza di non essere puniti? Vogliamo provocare Dio e pretendere che Egli non si adiri? Purtroppo è a ciò che conducono l’etica luterana e quella di Rahner al suo seguito, convinti di sapere meglio di Cristo e della Chiesa quanto sono grandi la bontà e la misericordia di Dio.
Ora, Cristo, che cosa invece ha fatto per rimediare ai nostri peccati? «Egli, patendo per amore e per obbedienza ha offerto a Dio qualcosa di più di quanto avrebbe richiesto il compenso di tutta l’offesa infertagli dal genere umano. Cristo infatti offrì come soddisfazione la dignità stessa della sua vita»[2], la quale, essendo una vita divina, aveva evidentemente il potere di cancellare il peccato e la morte e restituire all’uomo la grazia del Padre pronto per misericordia e per giustizia a perdonare l’offesa.
In questo senso il dogma tridentino parla della soddisfazione operata da Cristo al nostro posto, data al Padre per la nostra salvezza: «satisfecit pro nobis», ove quel pro non vuol dire solo al nostro posto, ma anche a nostro vantaggio. Come infatti insegna il Concilio di Trento, l’uomo, «peccando, incorse a causa dell’offesa della prevaricazione, nell’ira e nell’indignazione di Dio e quindi nella morte» (Denz. 1511).
Naturalmente l’ira divina qui non è una passione, ma è una metafora che rappresenta l’odio della volontà divina per il peccato commesso dall’uomo. Non odia invece certamente l’uomo, perché Egli è amore e bontà infiniti. Tuttavia, col linguaggio biblico, possiamo dire che Dio è adirato nei confronti dell’uomo che pecca contro di lui.
Quanto al satisfecit pro nobis, Rahner non accetta l’interpretazione secondo la quale Cristo ha soddisfatto al nostro posto, perché imposta male la questione. Egli immagina che il dogma tridentino supponga che Cristo liberi o esima l’uomo dal compito che gli viene richiesto davanti a Dio e che «egli tuttavia non è in grado di realizzare»[3].
Ebbene, nulla di tutto questo. Il pro nobis tridentino è una verità di fede che entra nel dogma della Redenzione e suppone la consapevolezza che l’uomo dopo il peccato si è procurato un danno che con le sue sole forze non è in grado di riparare. Data questa incapacità, Cristo sopperisce con la sua potenza sanatrice divina dando al posto dell’uomo al Padre quella soddisfazione che l’uomo da sé non riesce ad operare. Dunque Cristo non fa quello che l’uomo dovrebbe fare e non fa, come crede Rahner, ma semplicemente fa per l’uomo e al suo posto, ciò che l’uomo non è capace di fare, il che evidentemente è un atto di amore e di misericordia e non un’umiliante sostituzione, deresponsabilizzazione o prevaricazione, come crede Rahner.
Era necessario dare soddisfazione al Padre?
L’interpretazione del motivo, del perchè e dello scopo della passione e morte di Cristo come atto soddisfattorio della giustizia del Padre l’aveva già data Sant’Anselmo nel suo famoso trattato Cur Deus homo. Solo che Anselmo ne parla come se il Padre e per conseguenza Cristo Dio non avessero potuto agire diversamente.
Anselmo cerca quindi di fornire ragioni necessarie dell’opera della redenzione. Ora è vero che Gesù, parlando del suo futuro sacrificio, parla di necessità che così avvengano le cose e che si compiano le Scritture, non però nel senso che il Padre non poteva agire altrimenti, perché il Padre, se avesse voluto, avrebbe potuto salvare l’umanità anche in un altro modo.
Il Padre, per Anselmo, per difendere il suo onore, fu obbligato a volere che il Figlio soddisfacesse con la passione e la morte per i peccati degli uomini. San Tommaso, dal canto suo, trova convenientissimo che noi siamo stati liberati dal peccato con un piano divino che comportasse un atto di soddisfazione al Padre[4]; ma il Padre, se avesse voluto, avrebbe potuto perdonarci anche senza esigere soddisfazione[5].
Ora il Concilio di Trento riprende certamente da Sant’Anselmo la dottrina del valore soddisfattorio della morte di Cristo, ma presenta tale soddisfazione come un semplice dato di fatto, senza affatto dire, come aveva preteso Sant’Anselmo, che Dio non poteva agire diversamente, in ciò accogliendo evidentemente il possibilismo di Tommaso.
Il Concilio comunque riconosce che Dio ha voluto che l’uomo tornasse ad essergli amico ed ecco che attua quel piano di riconciliazione dell’uomo con Lui, che è il piano della redenzione operata dal Figlio. Restando nella metafora dell’ira, diciamo che il sacrificio soddisfattorio del Figlio placa l’ira divina, si rende propizio il Padre e Gli dà adeguata soddisfazione, come dice il Concilio di Trento:
«Il dilettissimo suo Unigenito, Nostro Signore Gesù Cristo, mentre eravamo nemici (Rm 5,10), per la troppa carità con la quale ci ha amati (Ef 2,4), con la sua santissima passione ci ha meritato la giustificazione e soddisfece al Padre per noi» (Denz.1529).
Come il Padre ha mosso la volontà umana del Figlio a compiere l’opera redentrice, così muove la volontà del cristiano ad associare le proprie sofferenze a quelle di Cristo per la remissione dei peccati, per la espiazione delle colpe, per soddisfare alla giustizia del Padre.
Per questo Dio non ha voluto lasciare impunita la colpa dell’uomo e ha voluto sì perdonare, ma nello stesso tempo ha voluto che il Figlio col suo sacrificio Gli desse soddisfazione al posto dell’uomo, incapace di dare soddisfazione per la gravità della colpa commessa.
Non ha perdonato al Figlio che pure era innocente trattandolo come se fosse stato peccatore, ed ha perdonato al peccatore grazie al sacrificio del Figlio innocente. Con tutto ciò Dio, nella sua misericordia, ha voluto che l’uomo, benché debitore insolvente, potesse avere il vanto di concorrere con le opere buone, al proprio riscatto in unione di carità con Cristo.
Tuttavia, se Dio tutto possiede – ci si può chiedere – come potrà esser privato di qualcosa così da esigere la restituzione? Se Dio è puro spirito, come potrà mai adirarsi così da essere placato e propiziato dai sacrifici? Se Egli è gioia infinita, come potrà addolorarsi per delle offese subite ed esigere soddisfazione? Se Egli è impassibile, che cosa mai potrà patire dall’azione di una creatura? Se è clemente e misericordioso, perdona e fa grazia, come potrebbe nel contempo esigere che Gli si paghi il debito? Se Egli è portato al perdono, come può nel contempo castigare?
San Tommaso fa notare che Dio mostra maggior misericordia proprio dando all’uomo la possibilità di darGli soddisfazione, di espiare, di riparare, di pagare il debito del peccato, di redimersi, piuttosto che assolvendo e perdonando senza esigere compensi. Infatti è per misericordia che il Padre ci concede di rimediare ai nostri peccati e di collaborare con Cristo per la nostra salvezza.
È vero che di per sé il far grazia e l’esigere compenso si escludono a vicenda. Nessuno può acquistare una merce simultaneamente in modo gratuito e sborsando denaro, perché sono due cose che si escludono reciprocamente: se ottengo gratis, non pago; se pago, vuol dire che non ottengo gratis. Se Dio esige, allora non dona. Se dona, non esige. Sembra evidente.
E invece qui c’è un equivoco perchè molti non si accorgono, che qui il pagare e il ricevere gratuitamente non si elidono a vicenda, ma invece stanno assieme, perché si pongono sui due piani morali differenti: l’atto riparatore che io compio, per la partecipazione ad una Messa, viene al contempo da Dio e dal mio operare. È chiaro che la grazia che ricevo nel partecipare alla Messa è dono gratuito di Dio, sennò che grazia sarebbe? Ma il partecipare alla Messa è opera mia e in tal senso dò soddisfazione al Padre, ovviamente valendomi della grazia di Cristo.
È dal fatto di non esser capaci di sciogliere questa apparente contraddizione che nasce la tesi protestante della salvezza senza i meriti delle opere buone, tra le quali le opere penitenziali, soddisfattorie e i sacrifici, in special modo la Santa Messa.
La morte di Cristo secondo Rahner
Rahner giudica insufficiente la dottrina della soddisfazione vicaria perché secondo lui non spiegherebbe a sufficienza perché noi siamo salvi proprio grazie alla morte di Cristo, quando Egli, se avesse voluto, avrebbe potuto usare altri mezzi. Evidentemente gli sfugge la motivazione che Cristo stesso nel Vangelo dà del proprio sacrificio: «Non c’è amore più grande di quello di colui che dà la vita per i propri amici». È evidente perché Cristo ha voluto salvarci proprio con la morte: perché ha voluto darci una suprema testimonianza d’amore.
Ma Rahner sente il bisogno d’inventare un’assurda concezione della morte come fonte di vita, un’idea gnostica già presente in Hegel e nella tradizione kabalistica. Così nel trattare del significato della morte di Cristo Rahner confonde la passione con la morte e attribuisce alla morte ciò che è connesso con la passione, passione dettata dall’immenso amore di Cristo per noi. Così egli arriva a sostenere che Cristo ci ha salvati «trasformando la morte nella venuta di Dio»[6], come se la morte desse origine alla vita.
La morte per Rahner non è un fatto, ma un atto umano. Concepisce la morte come se fosse un atto volontario. Quindi egli fa coincidere il morire col voler morire. Ora il voler morire, di per sé, può essere virtù o vizio. Non è necessariamente cosa buona. Invece Rahner definisce la morte così:
«La morte è l’azione unica, dominante tutta la vita, nella quale l’uomo in quanto essere libero, dispone di sé stesso nella sua totalità e in maniera tale che questa disposizione è (ovvero deve essere) l’accettazione del fatto che in senso assoluto si dispone di lui, nell’impotenza radicale, che nella morte viene subìta»[7]. In questa «accettazione» il morente «dà l’assenso a una realtà come al fondamento della sua esistenza, l’assenso a una morte, nella quale la dialettica di azione e passione impotente nell’atto di morire è conciliata»[8]. Che cosa è questo «fondamento della sua esistenza»? Sembrerebbe essere Dio.
Ora, osservo: che in punto di morte l’uomo decida definitivamente del proprio destino eterno, è vero. Ma Rahner confonde questo estremo atto del libero arbitrio, che si apre o alla beatitudine o alla dannazione, col fatto dell’anima che lascia il corpo nel sepolcro e continua a sussistere da sola, giacchè la morte non è altro che questo fatto, che avviene comunque, sia che l’uomo lo voglia o sia che non lo voglia.
Che cosa c’entra il libero arbitrio in questo fatto fisico degenerativo inesorabile di per sé indipendente dal libero arbitrio? Questo fatto dipende dalla corruttibilità della natura umana e non è un atto o effetto del libero arbitrio. Forse che Rahner non pensi al suicidio.
La morte certo è connessa col libero arbitrio, ma non è un atto del libero arbitrio: è semplicemente un dato o fatto fisico di corruzione del soggetto umano. E poi chi dovrebbe disporre del morente «nell’impotenza radicale»? Allora è lui che decide di se stesso o qualcun altro?
Il fatto è che qui Rahner fa una gran confusione. Egli ha un concetto falso della morte, presente già in Heidegger, suo dichiarato maestro, il quale parla della morte come scopo della libertà, la
«libertà per la morte. Tutti i caratteri dell’essere-per-la-morte derivanti dal contenuto integrale della possibilità dell’Esserci più propria ed estrema, concorrono nel compito di svelare, interpretare e tener ferma l’anticipazione, in essi fondata, di questa possibilità come ciò che rende possibile questa possibilità stessa»[9]. «L’essere-per-la-morte è la possibilità dell’esistenza autentica»[10].
Similmente Rahner afferma che la morte è «compimento personale di sé»[11], come «attivo portarsi-a-compimento»[12], come «totale prendersi in-possesso della persona», come «aver-realizzato-se-stessi e pienezza della realtà personale attuata liberamente»[13], «culmine del processo in cui si riceve ed opera la salvezza, se pensiamo che la morte, in quanto atto dell’uomo, è l’avvenimento che raccoglie nell’unico compimento l’intero atto della vita e nella morte avviene pragmaticamente l’assimilazione alla morte del Signore»[14].
Osservo che non è la morte come tale che assimila a Cristo. Se Cristo ha voluto morire, questo non vuol dire che la morte sia amabile e costruttiva o redentiva come tale. È il demonio, non Cristo che ama la morte. Di per sé la morte è castigo del peccato e non è altro che disfacimento e dissoluzione e di fatto è castigo del peccato, ma ciò che dà valore alla morte è il voler morire con Cristo, in Cristo e per Cristo, che è atto di giustizia e carità, la quale sola dalla morte ricava la vita. Ora Rahner applica a Cristo questa sua concezione della morte di marca heideggeriano-hegeliana. Dice infatti che
«la volontà salvifica di Dio pone la vita di Gesù che trova il suo compimento nella morte e così si attua e si manifesta come irrevocabile. Così la morte di Gesù è “causa” della volontà salvifica di Dio, in quanto la volontà salvifica di Dio si traduce in essa in maniera reale e irreversibile. In altri termini, la morte di Gesù, che compendia e porta a compimento la vita possiede una causalità di natura quasi-sacramentale, simbolico-reale, nella quale la realtà designata, qui la volontà salvifica di Dio pone il segno e attraverso di esso attua sé stessa»[15].
In poche parole Rahner sostiene che la volontà salvifica di Dio fa scaturire in Cristo la vita dalla morte, come se la morte avesse il potere di causare la vita. Ma questa è un’assurdità. Cristo ci salva con l’amore, non con la morte. Se ha voluto morire, lo ha voluto perché ci ama, non per il gusto di morire, come se basti morire per produrre vita e salvezza.
In realtà la morte come tale non produce niente; neppure Dio la può rendere produttiva della vita. Le cose nell’opera salvifica di Cristo vanno ben diversamente: non è la morte come tale che produce vita e salvezza. Queste sono prodotte da Dio, sia pur per mezzo della morte. La salvezza invece è venuta dal libero e generoso darsi totale di Gesù alla morte in oblazione di soave odore e come soddisfazione al Padre per la remissione dei peccati.
L’atto col quale conseguiamo la salvezza non è il semplice fatto materiale del morire, sia pure la morte di Cristo, dell’anima che si separa dal corpo, ma è l’atto d’amore e di soddisfazione al Padre col quale Cristo si unisce a noi e noi ci uniamo alla sua passione redentrice.
II fatto del morire è comune a tutti gli uomini giusti e reprobi e persino l’abbiamo in comune con gli animali. Non basta il semplice morire per morire con Cristo e andare in paradiso. L’atto del nostro redimerci e conseguire la salvezza è un atto della volontà, un atto di giustizia verso il Padre, un atto d’amore per lui e per il prossimo, non è il semplice fatto bruto del morire, che capita anche agli animali.
In realtà Cristo non trasforma affatto la morte – cosa che non ha senso – perchè l’essenza della morte è quella che è, è immutabile e la morte non produce la vita, ma ne è esattamente la negazione o la soppressione, ma semmai è la vita che produce la vita. Non è la morte di Cristo come tale che produce la vita, ma è la volontà di Cristo che per amor nostro morendo come uomo, come Dio ci dà la vita. Cristo trasforma il significato morale della morte da castigo a mezzo di soddisfazione, espiazione, riparazione, redenzione, liberazione, salvezza.
Ma la morte in sé stessa è quella che è. È la semplice separazione dell’anima dal corpo. Erano i nazisti che avevano la mistica della morte. La morte non è un qualcosa che possa essere «trasformato», perché non è un composto di materia e forma. Può invece essere utilizzata e finalizzata. Ma allora è necessario che sia Dio stesso a dare uno scopo alla morte, così come solo Dio può ricavare l’essere dal non-essere.
Ma dalla morte come tale e di per sé non esce altro che la morte. La morte da sé non produce un bel nulla. Se una morte dà la vita non è perché è la morte, ma perché è la morte di Cristo Signore della vita, che come vita annulla la morte. È solo Lui, in quanto Dio, che può far scaturire la vita dalla morte, semplicemente perché sostituisce la morte con la vita.
Prendendo occasione dalla morte, la morte in Cristo è strumento della vita, non è attrice della vita. Semmai è il demonio che ci promette la vita sopprimendo la vita. Cristo invece non ci chiede la morte, ma una vita fedele fino alla morte, per poterci dare la vita.
Nel Corso fondamentale sulla fede[16] Rahner mette in luce giustamente che l’iniziativa dell’opera di riconciliazione dell’uomo con Dio spetta a Dio, anche se può sembrare dal linguaggio biblico che il sacrificio religioso plachi l’ira divina ed ottenga un Dio propizio all’uomo, per cui dà l’impressione che l’uomo possa indurre Dio a mutare volontà, mentre in realtà è stato il Padre a prendere l’iniziativa mandando il Figlio nel mondo, il quale Figlio col suo sacrificio ha soddisfatto per noi al Padre liberandoci dalle nostre colpe e ottenendoci la remissione dei peccati.
Qui Rahner non parla del valore trasformante della morte, ma fa un discorso contradditorio, in quanto da una parte – egli dice - «Dio dà al mondo la possibilità di soddisfare», ma dall’altra respinge «l’idea della vittima espiatrice»[17]. Ora che cosa fa l’offerta sacrificale della vittima espiatrice, che, nella Messa, è Cristo stesso, se non dare soddisfazione al Padre?
Fine Seconda Parte
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 7 gennaio 2025
Il dogma tridentino parla della soddisfazione operata da Cristo al nostro posto, data al Padre per la nostra salvezza: «satisfecit pro nobis», ove quel pro non vuol dire solo al nostro posto, ma anche a nostro vantaggio. Come infatti insegna il Concilio di Trento, l’uomo, «peccando, incorse a causa dell’offesa della prevaricazione, nell’ira e nell’indignazione di Dio e quindi nella morte» (Denz. 1511).
Naturalmente l’ira divina qui non è una passione, ma è una metafora che rappresenta l’odio della volontà divina per il peccato commesso dall’uomo. Non odia invece certamente l’uomo, perché Egli è amore e bontà infiniti. Tuttavia, col linguaggio biblico, possiamo dire che Dio è adirato nei confronti dell’uomo che pecca contro di lui.
Quanto al satisfecit pro nobis, Rahner non accetta l’interpretazione secondo la quale Cristo ha soddisfatto al nostro posto, perché imposta male la questione. Egli immagina che il dogma tridentino supponga che Cristo liberi o esima l’uomo dal compito che gli viene richiesto davanti a Dio e che «egli tuttavia non è in grado di realizzare».
Ebbene, nulla di tutto questo. Il pro nobis tridentino è una verità di fede che entra nel dogma della Redenzione e suppone la consapevolezza che l’uomo dopo il peccato si è procurato un danno che con le sue sole forze non è in grado di riparare. Data questa incapacità, Cristo sopperisce con la sua potenza sanatrice divina dando al posto dell’uomo al Padre quella soddisfazione che l’uomo da sé non riesce ad operare. Dunque Cristo non fa quello che l’uomo dovrebbe fare e non fa, come crede Rahner, ma semplicemente fa per l’uomo e al suo posto, ciò che l’uomo non è capace di fare, il che evidentemente è un atto di amore e di misericordia e non un’umiliante sostituzione, deresponsabilizzazione o prevaricazione, come crede Rahner.
[1] Sum. Theol., III, q.48, a.2.
[2] Ibid.
[3] Scienza e fede cristiana, op.cit., p.366.
[4] Sum.Theol.,III,q.46,a.1
[5] Ibid., a.2.
[6] Sulla teologia della morte, Morcelliana, Brescia 1972, p.65.
[7] Cristologia. Prospettiva sistematica ed esegetica, Morcelliana, Brescia 1974, pp.71-72.
[8] Ibid., p.72.
[9] Essere e tempo, Edizioni Longanesi&C., Milano 1986, p.323.
[10] Ibid., p.319..
[11] P.31.
[12] P.30.
[13] Ibid.
[14] Pp.64-65.
[15] Corso fondamentale sulla fede, op.cit. p.,366-367.
[16] Edizioni Paoline, Roma 1978, p.365.
[17] Ibid.
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