Lo sguardo nel buio - Il concetto rahneriano del «Mistero assoluto» - Seconda Parte (2/2)

 

Lo sguardo nel buio

Il concetto rahneriano del «Mistero assoluto»

 Seconda Parte (2/2)

 La vera nozione del mistero divino

 Egli sa quello che è celato nelle tenebre

Dn 2,22

Tutte le tenebre sono riservate all’empio

Gb 20,26

Il mistero divino è una realtà immensa, smisurata, sconfinata, infinita. Essa sta davanti al nostro intelletto come una luce vivissima, un cibo appetitosissimo, un bene immenso e incomparabile. Esiste un’analogia tra il piacere fisico e quello spirituale.

L’opposizione paolina fra carne e spirito non si riferisce a questa somiglianza naturale, che Dio stesso ha voluto, come creatore dello spirito e del corpo, ma si riferisce alla situazione attuale della nostra natura decaduta dopo il peccato originale, per la quale quei due piani del piacere non si accordano più ma sono in conflitto tra di loro, per cui per godere di uno occorre in qualche modo rifiutare l’altro. Tuttavia la prospettiva cristiana della salvezza è la loro riconciliazione. Non è quella platonica della scomparsa del piacere fisico e della sola permanenza di quello spirituale, perché, come è noto, la prospettiva cristiana prevede la risurrezione del corpo.

Potremmo dire quindi che mettersi alla presenza del mistero divino si potrebbe paragonare a quello che proviamo entrando in uno dei moderni empori alimentari, dove, come si suol dire, c’è ogni ben di Dio. Quello che vediamo supera la nostra comprensione e ci accorgiamo subito di questo fatto. Alcuni cibi cadono sotto la nostra vista, ma sappiamo che di moltissimi altri non potremo sapere nulla. Non importa, ci basta acquistare quelli che sono di nostro gusto e saziano la nostra fame. La differenza tra la fame fisica e la fame del sapere è che mentre il nostro stomaco, quando è pieno, è sazio e non desidera altro, il nostro spirito progredisce sempre nella conoscenza senza saziarsi mai.

Il mistero divino, dunque, è un qualcosa che ci supera e non sappiamo comprendere nella sua interezza; ma proprio per questo nel nostro indagarlo «con zelo, pietà e sobrietà», come insegna il Concilio Vaticano I (Denz.3016), è sorgente perenne ed inesauribile di luce di conoscenza per il nostro intelletto.

Bisogna allora dire che quanto più guardiamo nel mistero con occhio umile, limpido e fiducioso, tanto più impariamo e progrediamo nel sapere teologico. Viceversa, l’enfasi esagerata posta da Rahner nell’oscurità e nell’impenetrabilità del mistero divino finisce per scoraggiare la ricerca e il progresso teologici e generano semmai un fideismo irrazionale o un progressismo modernista.

Non è infatti lecito, come crede Rahner al seguito di Hegel, concepire tale progresso come se i concetti dogmatici non fossero fissi e mutassero di significato nel corso del progresso e a causa del progresso. Sarebbe, questo, un falso progresso e in realtà si tratterebbe di un tradimento e di una falsificazione.

Lo sbaglio di Rahner sta nel vedere i concetti nuovi non in continuità con i precedenti, non come conferma e sviluppo lineare dei precedenti, ma come rottura, contrasto, negazione o smentita, perchè per Rahner, per sua espressa dichiarazione, come per Hegel, i concetti dogmatici non sono fissi ma fluidi e mutevoli; il loro significato nel progresso teologico e nelle nuove dottrine teologiche ed ecclesiastiche cambia e significa una cosa diversa da quella che in precedenza veniva significata, una cosa gradita al proprio tempo, benchè l’esperienza trascendentale resti la stessa.

In fondo è la tesi che fu già propria del modernismo, il quale, se non parlava di esperienza trascendentale, atematica e originaria, però parlava di sentimento o bisogno religioso dell’inconoscibile emergente dall’inconscio, che con altre parole è la stessa cosa che intende Rahner, cioè la convinzione che l’esistenza di Dio non è qualcosa di esterno a me, che io scopro partendo dall’esperienza delle cose, ma è, sulla scorta del cogito cartesiano, l’espansione infinita e l’orizzonte ultimo del mio io trascendentale autocosciente, l’orizzonte ontologico-logico ultimo circoscrivente dell’essere, all’interno del quale opero  la categorizzazione del mondo empirico e del mio stesso io empirico.

Occorre invece dire che nel lavoro teologico quanto più con procedimento esplicativo, induttivo e deduttivo  affiniamo i concetti, aumentano le distinzioni, si operano le sintesi, appaiono nel mistero divino  nessi e rapporti prima sconosciuti, apprendiamo nuovi elementi e fattori, vediamo meglio i princìpi, le cause e i fini, il perché delle conseguenze, scopriamo l’infinta grandezza, profondità ed imperscrutabilità meravigliose di questo infinito mistero e ci sentiamo pieni di gratitudine per il suo mostrarsi e rivelarsi a noi, piccole creature, eppure da Lui create e salvate per poterlo conoscere, approfondire, illustrare, amare e comunicare con la parola e l’esempio di vita al prossimo e farne l’oggetto della nostra beatitudine.

Un mistero totalmente oscuro ripugna alla nostra intelligenza. Ci ripugna una legge che viene da una volontà che non ci dà alcuna ragione o garanzia della rettitudine del suo volere se non quella di imporsi su di noi. Il mistero che attrae la nostra intelligenza e il nostro amore è quello che lascia trapelare o tralucere o trasparire almeno qualcosa di intellegibile e ragionevole attraverso il velo o l’allusione o l’analogia o l’allegoria o il simbolo o la metafora o l’immagine. Nasce allora giustificato il desiderio di vedere al di là di ciò che appare immediatamente e fa da velo o da specchio a ciò che è velato o rispecchiato, ciò che lascia trasparire o intravedere senza mostrarlo chiaramente.

Il vero mistero divino non può essere un comando privo di qualunque nesso con la nostra ragione, un precetto puramente arbitrario volontaristico e contradditorio o in contraddizione con la ragione, per esempio contrario al principio di non contraddizione. Infatti l’oggetto della ragione non è necessariamente solo il chiaro e distinto, come credeva Cartesio: può essere anche misterioso ed oscuro, ma è intollerabile che sia contradditorio.

Ma se il supposto mistero di fede o di scienza non offende il principio di identità e si pone sul piano della possibilità, ci incuriosisce ancora di più ed appare ancor più interessante, benchè ci resti oscuro, indimostrabile e indeterminato. Ecco allora stimolato il lavoro della teologia, anche se alla fine concludiamo col silenzio e con la mistica, come fece San Tommaso quando cessò di scrivere la Somma Teologica.

Inoltre, se è vero che Dio è sommo Mistero, non è proibito, come pensa Rahner, ammettere una pluralità di misteri, che poi non sono altro che i dogmi o gli articoli di fede. Si tratta di un modo di espressione tradizionale, che ha radici bibliche, appartiene al linguaggio della Chiesa, è sorto sin dai tempi apostolici e dei Padri della Chiesa.

I sacramenti, per esempio, sommi tra i quali troviamo il Battesimo e dell’Eucaristia, e le verità di fede sono misteri distinti tra di loro, anche se è vero che convergono tutti verso il mistero di Cristo e il mistero trinitario. Così Scheeben nell’’800 potè scrivere il suo famoso I misteri del cristianesimo[1].

Rahner parla di un’«esperienza originaria di Dio»[2], di un nostro orientamento originario al mistero assoluto, di un’esperienza preconcettuale ed atematica trascendentale di Dio. Ma così mostra di ignorare una di quelle che in noi sono le conseguenze del peccato originale, ossia l’ignoranza totale di tutte le cose, quindi Dio compreso. Aveva ragione Aristotele quando con vero realismo, onestà ed umiltà, ci faceva notare che la nostra anima all’inizio, è come «tavoletta nella quale non c’è scritto nulla».

Dunque l’esperienza trascendentale di Rahner non esiste. Noi arriviamo a sapere che Dio esiste, arrivismo a scoprire il suo mistero solo dopo aver contattato, nella nostra infanzia, le cose, aver ragionato su di esse ed aver capito che non essendo da se stesse, devono aver avuto una causa che ha dato a loro l’essere, ossia qualcuno che esiste da se stesso e in forza di se stesso. E questo è il vero Dio.

Allora diciamo che il Dio originariamente ed atematicamente sperimentato di Rahner non esiste, è un’immaginazione causata dalla sua mentalità di idealista, che identifica l’essere con l’essere pensato. È una creazione della sua mente, che finisce col porre il proprio io al posto di Dio.

Ma come mai Rahner si rifiuta di parlare di una molteplicità di misteri? Sempre a causa del suo relativismo concettuale che lo porta al relativismo dogmatico. Quello che conta per lui è l’unica esperienza trascendentale del mistero assoluto. I concetti e i dogmi per lui sono «piccoli idoli», che noi ci costruiamo nello spazio e nel tempo come simboli e allusioni o segnali dello sconfinato mare onniavvolgente dell’essere rivelato originariamente dall’esperienza trascendentale.

Rahner dice di rifiutare «il Dio di un concetto fisso, il Dio dei preti (scusate la durezza)», perché secondo lui «è un Dio che non esiste»[3]. E invece è proprio questo il vero Dio, concepito nell’immutabilità del dogma, perchè immutabile Egli stesso. Il che non significa nessun fissismo e nessun conservatorismo teologico, ma è precisamente la base di qualunque progresso ed aumento del sapere su Dio, giacchè senza princìpi, fondamenti, basi certe e salde non si costruisce nessun sapere. Rahner si chiede se questo il Dio del dogma non sia diventato un idolo. Io gli domanderei di rincalzo se non sia piuttosto un idolo il suo Dio.

Secondo Rahner il parlare di Dio non si basa sul fatto di averlo scoperto come causa prima e creatore del mondo, partendo dall’esperienza delle cose, ma  sulla sua esperienza trascendentale, come traduzione in concetto di tale esperienza. Egli non nega la legittimità della costruzione di sistemi teologici, ma secondo lui, se vogliamo esprimere in concetti ciò che emetge dall’esperienza trascendentale, «non ci sono molte parole da dire; ciò che noi “afferriamo» di Dio in questo modo è qualcosa come il Nulla, l’Assente, il Senza Nome»[4].

Ora, per la verità, la Scrittura si premura invece di dirci qual è il Nome di Dio, ossia qual è la sua essenza e la sua natura. E proprio in ciò sta il pregio unico della Bibbia in tutta la letteratura religiosa dell’umanità. La Scrittura, come sappiamo bene dal famoso passo di Es 3,14, chiama Dio come «Colui Che È», e quindi per mezzo della categoria dell’essere.

Occorre quindi andar piano a chiamarlo «nulla». È vero che San Tommaso dice che Dio non è nulla di ciò che riusciamo a concepire con la nostra mente limitata, quando pensiamo all’essere, ma non intende assolutamente dire che Dio non sia assolutamente nulla. È l’ateo che nega a Dio la categoria dell’essere, in quanto appunto dice che non esiste. Se diciamo formalmente che Dio è nulla o è il nulla, è come dire che Dio non è niente, cioè non esiste. Ma anche qui vediamo l’importanza essenziale del concetto quando si tratta del come pensare Dio.

Rahner non sa riconoscere l’importanza del concetto nel problema della conoscenza e della verità. Per lui il problema della verità è risolto per tutti con la sua esperienza trascendentale, il cui contenuto, però, per definizione è inconcettualizzabile. Quindi nessuno di noi può sapere a che cosa pensa Rahner con la sua esperienza trascendentale. Egli ci garantisce che tutti la possediamo. Dobbiamo credere alla sua parola. Potremmo rispondergli col famoso motto scolastico: quod gratuis affirmatur, gratis negatur. Ma fosse solo questo. Il fatto è che quando Rahner cela descrive, comprendiamo subito che essendo basata sull’identità del pensiero con l’essere, non è altro che una riedizione del vecchio idealismo hegeliano aggiornato col Dasein di Heidegger.

Resta il fatto che ognuno di noi possiede il concetto dell’essere e del nulla. Per cui tutti comprendiamo che vuol dire «Dio esiste» e «Dio non esiste». Ora per Hegel queste due proposizioni non dicono ancora se chi le pronuncia crede o non crede in Dio, perchè il concetto non esprime adeguatamente il contenuto dell’esperienza trascendentale.

Rahner ci garantisce che tutti abbiamo questa esperienza che consiste nell’esperienza del mistero assoluto. E questo, secondo lui, ci deve bastare per renderci consapevoli che tutti siamo essenzialmente orientati a Dio, anche gli atei.  Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere perché mai la Chiesa si premura di dire in campo teologico chi ha torto e chi ha ragione basandosi sui concetti.

Dovrebbe starsene tranquilla accontentandosi del fatto che tutti possediamo l’esperienza trascendentale qualunque cosa diciamo su Dio a favore o contro.  Bisogna inoltre fare attenzione al fatto che il mistero non è un attributo di Dio in sé stesso.

Per essere precisi non dovremmo dire che Dio è il mistero ma esprimerci come Isaia, che dice che Dio è misterioso. Un Dio «nascosto» (45,15), che rivela i suoi segreti solo agli amici. Dio quindi, propriamente parlando, non è misterioso in se stesso, ma in rapporto a noi. Egli conosce benissimo se stesso fino in fondo. Siamo noi che nella nostra limitatezza, benchè fatti per Lui, non possiamo pretendere di conoscerLo esaustivamente, per cui anche in cielo Egli conserverà la sua misteriosità ossia trascenderà le capacità limitate della nostra intelligenza. È per gli antichi gnostici che Dio è l’ignoto, l’inconoscibile, l’inintellegibile, àghnoston. Mentre è simultaneamente ghnostòn, conosciuto, pensato. E questo perché gli gnostici risolvevano l’essere nel pensato, come faranno poi gli hegeliani, per cui l’essere come tale, in quanto non pensato, diventa inintellegibile. In sostanza confondevano l’intellegibile con l’inteso.

Così per conseguenza la predicazione cristiana del mistero divino avviene certamente per mezzo di un’iniziazione, ma è una predicazione pubblica. Cristo ordina agli apostoli di gridare sui tetti ciò che hanno udito in segreto. Tuttavia raccomanda anche di non dare le loro perle ai porci, ma di tacere se si prevede che l’altro non capisca o fraintenda.

Per questo si può parlare di esoterismo cristiano, non però nel senso dei culti misterici pagani, che venivano tenuti nascosti non perché contenessero delle verità sublimi incomprensibili al volgo, ma perché contenevano delle oscenità vergognose, che venivano comunicate solo ai corrotti ai quali esse piacevano. Così similmente non bisogna confondere il misticismo cristiano con l’occultismo, E la Chiesa non è una società segreta ma una società pubblica, anche se ha tutto il diritto e il dovere di conservare e proteggere quei valori supremi che solo i saggi possono comprendere e apprezzare.

La concezione rahneriana Del mistero assoluto

Possiamo certamente definire Dio come mistero assoluto, ma intendendo questa espressione nel senso giusto. Il mistero assoluto non è qualcosa dove non capiamo nulla, non possiamo concepire nulla e del quale non possiamo dire nulla, non è la tenebra totale con l’assenza di qualunque luce, primo, perché se noi nel conoscere Dio pretendiamo di fare a meno del concetto, non ci eleviamo all’esperienza mistica, ma ci degradiamo e ci abbassiamo alla sensualità dell’animale confondendo le gioie dello spirito con i piaceri della carne, la carità con la concupiscenza e l’umiltà con la superbia.

Ciò che allora crediamo essere l’oggetto della nostra esperienza non è più Dio che dev’essere concepito come ente, facendo uso della nozione analogica dell’essere, ma un idolo della nostra immaginazione gradito alla nostra affettività sensitiva o al nostro gusto estetico o alla nostra creatività poetica.

La concezione rahneriana di Dio come mistero assoluto si basa su di una concezione sbagliata, di tipo idealista, della conoscenza. Rahner crede infatti che la nostra conoscenza non cominci con l’esperienza delle cose esterne sensibili, prosegua con l’azione astrattiva dell’intelletto che coglie l’essenza dell’ente sensibile,  ne scopre la contingenza, si domanda quale ne è la causa e conclude col concepire, per analogia con gli enti sensibili,  un ente supremo, causa prima e fine ultimo, che chiama «Dio», il quale è ragione a Se stesso, fondato su se stesso, esistente necessariamente e per essenza, quindi assolutamente.

Rahner ammette sì i concetti, ma per lui il loro oggetto sono solo i fenomeni e le realtà terrene e storiche. Egli parla bensì diffusamente delle cose spirituali, tratta moltissimo di materie filosofiche, morali, religiose, dogmatiche e teologiche, anzi sono queste l’interesse e l’oggetto della sua immensa produzione letteraria. Ma egli non ammette le nozioni trascendentali, ossia le nozioni analogiche che trascendono l’esperienza, con le quali soltanto si può trattare convenientemente e scientificamente delle realtà dello spirito, siano quelle create, siano quelle che riguardano gli attributi divini o gli orizzonti della divinità.

Non che egli non ne faccia uso, altrimenti nulla avrebbe potuto dire in quelle materie. Solo che egli le usa suo malgrado, nella convinzione che trattando di teologia, occorre basarsi su quella che egli chiama «esperienza trascendentale», concepita come autocoscienza originaria apriorica atematica e preconcettuale avente per oggetto il sé, l’essere e Dio.

I concetti, per Rahner, per sua espressa dichiarazione, sono dunque solo peraltro categoriali, connessi con l’esperienza sensibile, perché, come ho detto, egli rifiuta teoricamente, anche se non nei fatti, quelli veramente trascendentali. Per questo, per lui esiste un unico trascendentale, che è la suddetta esperienza originaria atematica della totalità e di Dio, esperienza di per sé ineffabile e non concettualizzabile, successivamente traducibile in concetti, comprendenti anche i dogmi, ma privi di universalità ed immutabilità, il cui significato è relativo ai tempi e luoghi, perché sono puramente categoriali ed immersi nel concreto e nel divenire della storia.

Quindi per Rahner non è la conoscenza delle cose la condizione di possibilità di arrivare alla conoscenza concettuale di Dio, ma è l’esperienza atematica originaria trascendentale di Dio la condizione di possibilità della conoscenza delle cose. Dice Rahner:

 

«Mentre discorriamo di Dio, noi possiamo farlo soltanto formulando parole, disegnando concetti, traducendo la realtà di Dio in un oggetto della nostra coscienza. Ma suppongo sia chiaro che questa è soltanto la forma seconda (non nel senso di irrilevante!) del rapporto originario a Dio e che questa relazione tematica, di seconda istanza, è portata e sostenuta da un modo di relazione anteriore, atematico, trascendentale, della nostra spiritualità integrale verso l’inafferrabile infinito»[5].

Nel momento in cui noi conosciamo un singolo ente, noi siamo già da sempre al di sopra del nostro io, abbiamo già trasceso noi stessi nell’esperienza di Dio, senza la quale nulla potremmo conoscere. Il mistero assoluto, quindi, per lui, non è affatto concepito; in esso il concetto, che è adatto solo alle cose terrene, non vede niente, ma ciò che è visto, è visto soltanto dall’esperienza atematica.

 

«Ogni conoscenza espressa di Dio – egli dice[6] - nella religione e nella metafisica è comprensibile e genuinamente attuabile in quel che essa dice solo e sempre quando tutte le parole, che ivi usiamo, richiamano l’esperienza atematica del nostro orientamento al mistero ineffabile».

 

«Il concetto “Dio” non è un afferrare Dio con cui l’uomo si impossessa del mistero, bensì è un lasciarsi afferrare da un mistero presente e sempre sottraentesi. … Qualsiasi ontologia di Dio, per rimanere vera, deve continuamente ritornare là donde deriva: deve ritornare all’esperienza trascendentale dell’orientamento al mistero assoluto, nell’esercizio esistentivo della libera accettazione di tale orientamento»[7]

Rahner definisce l’uomo come soggetto spirituale dotato di un «esistenziale permanente» per il quale egli possiede un «orientamento originario al mistero assoluto, che costituisce l’esperienza fondamentale di Dio»[8]. Per questo, per Rahner l’orientamento verso Dio non è la conseguenza libera e volontaria, dell’aver scoperto l’esistenza di Dio come causa prima ed ente supremo partendo dall’esperienza delle cose, ma è un orientamento insito nella stessa natura umana e costituivo della natura umana, con la conseguenza che chi facesse una scelta contro Dio, chi non si orientasse a Dio non sarebbe più uomo.

Ma Rahner comprensibilmente non può ammettere che alcuni uomini perdano la loro umanità. Ma d’altra parte, non volendo rinunciare alla sua concezione sbagliata dell’uomo, è obbligato a sostenere che tutti si salvano per poter sostenere l’universalità dell’esser uomo in ogni individuo umano.

Per questo, per Rahner il discorso su Dio non è un processo razionale, non è un ragionamento, per il quale la ragione, constatata l’esistenza delle cose, si interroga sulle loro cause e, retrocedendo in esse, scopre la loro causa prima, ossia l’esistenza di Dio – chiamiamolo pire «mistero assoluto» - interrogandosi successivamente sulla natura e gli attributi di questa causa prima, no: per Rahner le cose non vanno così.

Secondo lui noi partiamo da un’esperienza di noi stessi come identità di pensiero ed essere, per cui in questa esperienza riflessa originaria, dove è  chiaro l’influsso del cogito cartesiano mediato da Hegel, noi abbiamo già l’esperienza di Dio prima ancora di sperimentare le cose, per cui è nell’orizzonte di questa esperienza che noi possiamo concepire le cose, fermo restando per lui che i concetti si riferiscono solo alle cose e non a Dio, che, essendo mistero assoluto, non è concettualizzabile ma solo sperimentabile.

Come posso volgere lo sguardo a Dio?

Quando voglio parlare con Dio o di Dio che cosa metto davanti alla mia mente? A che cosa guardo? A chi guardo? Chi ho davanti alla mia mente? Dove volgo lo sguardo? Nel buio? Nella tenebra? Non devo fare uso di concetti?

La Bibbia ci proibisce di farci immagini di Dio in quanto vuol distoglierci dall’idolatria e dal politeismo, come se Dio fosse un artefatto costruito dalle nostre mani o un concetto prodotto dalla nostra mente. Ma non ci proibisce affatto di usare prudentemente l’immaginazione per concepire Dio sotto il velo dell’immagine, soprattutto della figura umana. Dio può e deve essere da noi concepito facendo uso della nozione analogica dell’ente e delle nozioni trascendentali.

Il trascendentale non è, come crede Rahner, la proprietà di un’esperienza che avrebbe la pretesa di sperimentare Dio come io sperimento il tepore del sole o il piacere dell’acqua fresca o il sapore di un gelato. Gli antichi Greci e Romani non avevano torto nel rappresentare la divinità sotto forma umana.  Lo sbaglio stava nel politeismo e quindi nel credere che gli attributi divini non siano una sola cosa in Dio, ma ognuno costituisca una divinità.

Non avevano capito che Dio è spirito, oggetto del semplice intelletto e quindi non può esser visto con i sensi o con l’immaginazione. Da qui lo stupore di Tacito per il fatto che gli Ebrei concepivano «un solo Dio e soltanto con la mente («sola mente»).

Anche la Bibbia fa uso d’immagini, quando parla di Dio che passeggiava nel giardino dell’Eden o del Vegliardo del c.7,9 di Daniele, «dalla veste candida come la neve e i capelli candidi come la lana». A questa immagine sembra essersi ispirato Michelangelo nel dipingere Dio Padre nella Cappella Sistina.  E del resto lo Spirito Santo non appare forse sotto la forma di una colomba? Il fuoco e il vento non rappresentano forse lo Spirito Santo? E l’acqua non rappresenta la divina Sapienza? La luce non rappresenta la Verità divina? La roccia non rappresenta la saldezza dell’essere divino? Il sole non è simbolo della divinità?

Come infatti noi, abituati a concepire persone fatte di anima e corpo, possiamo concepire e vedere una persona o sostanza puramente spirituale quale è Dio? Come possiamo entrare in dialogo con lei? Con una persona senza volto? Senza nome?  Che cosa ci mettiamo davanti quando parliamo a lei o pensiamo a lei? Il vuoto? Il nulla? Il buio? La tenebra? L’innominabile? Il non concettualizzabile? L’inconoscibile? Che senso ha tutto questo?

Il mistero assoluto di Rahner assomiglia all’Assoluto di Schelling, che Hegel definì «la notte dove tutte le vacche sono nere». Infatti nella mancanza della concettualizzazione mancano le distinzioni e tutto si confonde con tutto. I contradditori stanno assieme. Tuttavia concepire Dio non vuol dire svelare o togliere il mistero, come credeva Hegel.

Un conto infatti è il contenuto del concetto: la natura divina e un conto è il nostro modo finito di concepire. Solo il Logos divino concepisce l’essenza divina esaustivamente e quindi toglie il mistero: per Lui non ci sono misteri, perché il Logos divino infinito comprende esaustivamente l’essenza divina.

E un conto è il nostro modo finito di concepire, per il quale non possiamo comprendere esaustivamente l’essenza, la quale pertanto ci resta incomprensibile e misteriosa. Hegel sbagliò nel credere che noi possiamo concettualizzare Dio esaustivamente così da togliere il mistero. Ma perchè ci sia il mistero non è affatto necessario rinunciare al concetto. Esso al contrario serve per conoscere ovvero per attingere al divino Oggetto, anche se non può includerlo nella sua comprensione.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 30 gennaio 2025

Il mistero divino è un qualcosa che ci supera e non sappiamo comprendere nella sua interezza; ma proprio per questo nel nostro indagarlo «con zelo, pietà e sobrietà», come insegna il Concilio Vaticano I (Denz.3016), è sorgente perenne ed inesauribile di luce di conoscenza per il nostro intelletto.

Lo sbaglio di Rahner sta nel vedere i concetti nuovi non in continuità con i precedenti, non come conferma e sviluppo lineare dei precedenti, ma come rottura, contrasto, negazione o smentita, perchè per Rahner, per sua espressa dichiarazione, come per Hegel, i concetti dogmatici non sono fissi ma fluidi e mutevoli. … Ciò che allora crediamo essere l’oggetto della nostra esperienza non è più Dio che dev’essere concepito come ente, facendo uso della nozione analogica dell’essere, ma un idolo della nostra immaginazione gradito alla nostra affettività sensitiva o al nostro gusto estetico o alla nostra creatività poetica.

La Bibbia ci proibisce di farci immagini di Dio in quanto vuol distoglierci dall’idolatria e dal politeismo, come se Dio fosse un artefatto costruito dalle nostre mani o un concetto prodotto dalla nostra mente. Ma non ci proibisce affatto di usare prudentemente l’immaginazione per concepire Dio sotto il velo dell’immagine, soprattutto della figura umana. Dio può e deve essere da noi concepito facendo uso della nozione analogica dell’ente e delle nozioni trascendentali.

Il trascendentale non è, come crede Rahner, la proprietà di un’esperienza che avrebbe la pretesa di sperimentare Dio come io sperimento il tepore del sole o il piacere dell’acqua fresca o il sapore di un gelato. Gli antichi Greci e Romani non avevano torto nel rappresentare la divinità sotto forma umana.  Lo sbaglio stava nel politeismo e quindi nel credere che gli attributi divini non siano una sola cosa in Dio, ma ognuno costituisca una divinità.

Immagine da Internet:
- Trinità del Salterio, miniatura dalla Bibbia di Heisterbach, 1240 circa.

[1] Edizioni Morcelliana, Brescia 1960.

[2] Esercizi spirituali per il sacerdote, p.12,

[3] Ibid.

[4] Ibid., p.10.

[5] Esercizi spirituali per il sacerdote, Queriniana, Brescia 1974, p.9.

[6] Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline 1978, p.83.

[7] Ibid.,pp.84.59.

[8],Ibid., p.81.

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