Perché i nazisti hanno ucciso Edith Stein?
La differenza fra l’ente e l’essere
Terza Parte (3/3)
Husserl agli inizi sembrava voler respingere l’idealismo per riproporre il realismo, e in parte lo fece col recupero dell’intenzionalità e della distinzione fra soggetto e oggetto. Egli riabilitò contro l’idealismo il constatare, l’intuire e il vedere. Così egli lanciò il suo appello con le famose parole: «torniamo alle cose stesse!».
Tuttavia non usò il termine Ding, che vuol dire res, la cosa in sé, l’ente extramentale, già respinto dagli idealisti ed accolto dai realisti, ma usò il termine Sache, che ha un’inferiore portata ontologica e riguarda piuttosto il pensiero perché propriamente significa «fatto», «affare», «causa giuridica».
Inoltre non gl’interessava l’esistere, ma l’essenza, cosa che lo avvicinava all’idealismo. Quanto alla questione del reale, egli non si preoccupava di affermare tranquillamente che l’essere fenomenologico non è reale. Ma teneva anche ad affermare che l’essere fenomenologico non è ideale, come l’essere degli idealisti.
Husserl chiamò «fenomenologia» la sua filosofia desumendo il termine da Kant, ossia fenomeno come manifestazione a me nell’esperienza sensibile della cosa in sé la cui essenza mi resta ignota in sé, ma fenomeno nel senso di essere che mi appare e mi si rivela, essere o essenza (Wesen) che io intuisco nella mia coscienza, come correlato della mia coscienza.
Comunque Husserl, nonostante questo segno di realismo per il quale ammetteva l’intuizione dell’essere (Wesenschau), restava idealista, perché nonostante la sua insistente affermazione dell’oggettività e della visione delle essenze, l’essere intuìto o visto era pur sempre un essere intramentale e non extramentale, come quello del vero realismo.
In favore del realismo Husserl diceva che l’oggetto non è posto dal soggetto, come sostenevano gli idealisti, ma è «dato» al soggetto. Ma siccome questo dato non è esterno ma interno al soggetto, ecco che egli restava sempre nell’orizzonte dell’idealismo.
Edith non s’accorse in un primo tempo del tranello che si nascondeva nel falso realismo di Husserl, anche perché questi agli inizi sembrava respingere l’idealismo. Per questo sostituiva la tesi idealista della coscienza che «pone» (setzen) l’oggetto con la teoria della coscienza che «dà senso» o «costituisce» l’oggetto.
Ma con questi vocaboli differenti Husserl non evitava comunque l’idealismo per il quale l’oggetto non ha un senso o una costituzione per conto proprio prima e indipendentemente dall’atto conoscitivo, ma sono posti e decisi dal soggetto. L’oggetto di per sè è una pura forma vuota apriori, come in Kant, forma che viene riempita di senso e significato dal soggetto. La tesi della realtà esterna non è negata, ma messa tra parentesi, in quanto interessa solo l’atteggiamento naturale, ma non la filosofia.
La proposta di Husserl di sospendere o accantonare l’atteggiamento naturale per assumere quello fenomenologico ci lascia quanto meno perplessi e ci spinge a chiederci: ma allora il metodo fenomenologico non è naturale? E se non è quello naturale, che cos’è? Innaturale? Contro natura? Non si può sfuggire a questa domanda ed Husserl imbarazzato non vi risponde e non chiarisce. Sembra assumere un certo atteggiamento di doppiezza. Non si azzarda a dire che il metodo realista è falso e il solo vero è quello fenomenologico. Ma se il metodo naturale vale, allora perché lo sospende? Solo perché è «ingenuo» o perché ammette un reale esterno?
Il metodo fenomenologico è semplicemente più prudente e avveduto o è quello vero perché nega il reale esterno, in quanto il reale esterno, affermato dall’atteggiamento naturale, non esiste? Qui Husserl si mostra ambiguo. Di fatto egli nega esplicitamente al seguito degli idealisti, un reale esterno alla coscienza.
Allora che cosa non dedurre che per lui il realismo non è solo ingenuo, ma piuttosto falso, perché ammette una realtà extramentale? Ma siccome non se la sente di dirlo apertamente, allora parla di «ingenuità» e di «sospensione del giudizio» (epochè).
Questa situazione ambigua non poteva protrarsi all’infinito. A un certo punto Husserl scoprì le carte arrivando a fare apertamente le lodi di Cartesio e di Kant, senza arrivare ad accettare Hegel. A questo punto diversi discepoli, soprattutto i cattolici, scandalizzati lo lasciarono, ed Edith aprì gli occhi, benchè nella sua grande carità ed ampiezza di vedute abbia saputo e voluto conservare l’aspetto valido della fenomenologia, che si può considerare come un’introduzione alla metafisica in quanto passaggio dall’essere che appare all’essere realmente esistente fuori del pensiero e regola del pensiero.
La Stein
continuò a praticare la fenomenologia come presa di coscienza, analisi e
descrizione sistematica dei dati immediati e mediati di coscienza, nonchè dei costrutti e ordinamenti sistematici, sintattici,
logici, immaginari, intenzionali, progettuali, mnemonici, esperienziali dello
spirito, i cosiddetti «vissuti» (Erlebnisse),
ossia il vasto e diversificato mondo delle attività dell’io, proprie dell’intelletto
e della volontà, le scienze e le virtù, la sensibilità e le emozioni, il mondo interiore,
che però resta pur sempre mondo dell’io umano, che per nessun motivo – osservo
io - può diventare quell’«io puro» che sognava Husserl, l’io con la pretesa di sostituirsi all’Io divino.
Perché Edith Stein ha lasciato Husserl per San Tommaso
Insegnando presso le Suore Domenicane di Spira, esse le presentarono la dottrina di San Tommaso ed essa si accorse che quell’atteggiamento naturale che Husserl considerava ingenuo era in realtà quello giusto e saggio per la possibilità che dava di scoprire Dio creatore del mondo, mentre il suo concetto husserliano della coscienza divinizzava l’io sostituendolo a Dio. Tommaso fece comprendere ad Edith che la vera «riduzione fenomenologica» non è lasciare tutto per il proprio io, ma lasciare tutto per Cristo.
Così infatti Edith sintetizza lo sbocco felice e liberante del travagliato cammino, che l’aveva condotta ad accorgersi dell’inganno della fenomenologia, i cui lati positivi d’altra parte essa conservò sempre con gratitudine al maestro:
«La questione che la riflessione trascendentale si propone è la seguente: per una coscienza che non posso scrutare che dall’interno, come si costruisce il mondo: mondo interiore e mondo esterno, mondo della natura e mondo della mente, mondo dei beni materiali e anche il mondo ordinato dal senso religioso, il mondo di Dio?». «La via della fenomenologia trascendentale è giunta a porre come punto di partenza e centro della ricerca filosofica il soggetto umano.
Tutte le cose sono riferite al soggetto. Il mondo, che si costruisce negli atti del soggetto, resta sempre un mondo per il soggetto. Impossibile per questa via (ed era l’obiezione che costantemente la cerchia degli allievi faceva al fondatore della fenomenologia) riuscire a lasciare la sfera dell’immanenza per ritrovare quella oggettività, dalla quale era tuttavia partito e che premeva garantire: impossibile ritrovare una verità esente da qualsiasi relatività soggettiva.
Mai l’intelletto che cerca la verità sarà soddisfatto della trasposizione che risulta dalla ricerca trascendentale e che consiste nell’identificare l’esistenza con un processo di automanifestazione della coscienza. E tale trasposizione, in primo luogo, poiché relativizza Dio stesso, è in contraddizione con la fede. Veniamo qui a toccare l’opposizione più netta che separa la fenomenologia dalla filosofia cattolica: da un lato, l’orientamento è teocentrico, dall’altro, egocentrico»[1].
Da Husserl ad Heidegger
Riporre, come fa San Tommaso, la verità nell’atto del giudizio, Heidegger lo considera soggettivismo e preferisce definire la verità come rivelazione dell’essere. Heidegger ha ragione a fondare la verità sull’essere, ma un conto è il fondamento ontologico della verità e un conto è l’essenza della verità.
Heidegger non si accorge che con la sua teoria il vero soggettivista è lui. Infatti San Tommaso fa notare come mentre l’ente come vero (quindi la verità) suppone la relazione dell’intelletto con l’ente, l’ente come ente non suppone affatto l’uomo che pensa l’ente. L’essere potrebbe benissimo esistere anche se non esistesse l’uomo.
L’uomo stesso in Heidegger diventa l’Esser-lì (Dasein) dell’essere. L’essere è l’essere umano e l’essere umano è l’essere. L’antropologia coincide con la metafisica. Ma, come già in Hegel, l’essere è storia.
Già in Husserl l’essere sono io, ma in Heidegger, questo io si allarga, si socializza, diventa la comunità, diventa popolo, e spunta addirittura, dietro la suggestione di Hölderlin, di Fichte e di Nietzsche, e forse di Lutero, l’uomo per eccellenza è il Tedesco. «Chi fa filosofia – ha sentenziato Heidegger – parla tedesco».
La cosiddetta «differenza ontologica» tra ente ed essere, sulla quale Heidegger tanto insistette, cosa che poteva a tutta prima apparire come un’intuizione dell’ipsum esse divino che trascende e crea l’ente, fu spiegata da Heidegger in termini del tutto deludenti, quando chiarì che egli per «essere» intendeva il finito confinante col nulla e disse che l’essere non può starsene da solo, ma non può fare a meno dell’ente. Dunque Dio non c’entrava per nulla.
E anche quando Heidegger parla del «Dio divino» o del «sacro come orizzonte del divino» o afferma che «solo un Dio ci può salvare», mentre esclude da Dio l’essere, la personalità e la causalità, ci domandiamo di quale Dio parli. Giacchè non basta usare la parola «Dio» per significare correttamente il vero Dio. Anche i nazisti avevano il motto «Dio con noi», ma c’è da dubitare sulla correttezza del loro concetto di Dio.
C’è da aggiungere, per capire la critica della Stein ad Heidegger, che Nell’ontologia heideggeriana l’umanesimo husserliano, ancora espressione empirica dell’io puro e della coscienza assoluta, che sono i sublimi esiti della riduzione fenomenologica, assume carne e sangue, potere e regno, efficacia e storicità come «ci» del’Esserci, e diventa precomprensione, stato emotivo, concretezza, esistenza, rivelazione, autenticità, apertura, decisione, progetto, angoscia, gettatezza, destino, cura, colpa, essere-per-la-morte, storicità, libertà, gioia. Dice Heidegger:
«L’autoprogettazione anticipatrice nella possibilità insuperabile dell’esistenza (la morte), garantisce solo la totalità e l’autenticità della decisione»[2]. «L’Esserci gettato è certamente abbandonato a sé stesso e al suo poter-essere; tuttavia, come essere-nel-mondo, l’Esserci gettato è assegnato a un “mondo” ed esiste effettivamente con gli altri»[3]. «La decisione in cui l’Esserci ritorna su se stesso apre le singole possibilità effettive di un esistere autentico a partire dall’eredità che essa, in quanto gettata, assume. Il ritorno deciso all’essere gettato porta con sé una trasmissione di eredità»[4]. «Solo l’essere libero per la morte offre recisamente all’Esserci il proprio fine e installa l’esistenza nella sua finitudine»[5].
«Se L’Esserci, anticipando la morte, la erige a padrona di sé, allora, libero per essa, si comprende nell’ultrapotenza della sua libertà finita»[6]. «Ma poiché l’Esserci, carico di destino per il fatto di essere-nel-mondo, esiste sempre e per essenza come con-essere con gli altri, il suo storicizzarsi è un con-storicizzarsi che si costituisce come destino–comune. Con questo termine intendiamo lo storicizzarsi della comunità del popolo»[7].
«Solo nella comunicazione e nella lotta la forza del destino comune si rende libera. Il destino che l’Esserci ha in comune con la sua “generazione” e nella sua “generazione” esprime lo storicizzarci pieno e autentico dell’Esserci. Il destino come impotente e coraggiosa ultrapotenza del tacito e angoscioso autoprogettarsi del proprio essere-in-colpa richiede quale condizione ontologica la temporalità»[8].
Vediamo qui come l’Esserci di Heidegger, che per lui è l’uomo, è l’eterno temporalizzato, l’essere nullificato, lo spirituale materializzato, l’infinito finitizzato, la schiavitù e la guerra generatrici di libertà, la vita nella morte, l’impotenza onnipotente, la colpa principio d’innocenza, l’essere deietto come principio di comunità, la confusione del relativo con l’assoluto, dell’uomo con Dio.
Per questo Edith negli anni ’30, già monaca carmelitana, Suor Teresa Benedetta della Croce, ben consapevole del gravissimo pericolo che minacciava l’Europa, la Chiesa e il mondo, presaga dell’esito del nazismo, pronta ad offrire la propria vita per il suo popolo, che di lì a pochi anni sarebbe stato vittima delle conseguenze pratiche dell’ontologia di Heidegger, scrisse due pregevoli opere assai impegnative di metafisica, dedicandosi a sottili è importantissime distinzioni, laddove Heidegger confondeva, Atto e potenza. Studi per una filosofia dell’essere[9] e Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere[10].
Edith Stein con le sue opere Atto e Potenza, Essere finito ed essere eterno ci dona preziose distinzioni metafisiche nell’orizzonte dell’analogia dell’essere, dissipando la nefasta confusione che conduce all’egocentrismo, all’ateismo, al panteismo, al materialismo, al nichilismo, all’idolatria e all’empietà.
Simile ai profeti biblici, Edith, per un momento attirata dall’astuzie dell’antico Serpente, accortasi dell’inganno, e illuminata da Cristo, abbatte gli idoli pagani e ci illumina con la luce di Cristo. Confutata la sapienza del mondo, Edith ci dice con San Paolo, con la vita e gli scritti, di non sapere altro che Gesù Cristo, e Questi crocifisso (cf I Cor 2,2).
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 13 marzo 2025
Il bisogno d’interiorità, di verità, di certezza e di assoluto e di veder chiaro nel proprio io, che la Stein sentiva, la condusse a seguire le lezioni di Husserl a Gottinga fino a laurearsi in filosofia con lui nella speranza di avere da Husserl una risposta.
L’essere certo appare come vero all’intelletto, ma l’essenza della verità sta nell’adeguarsi dell’intelletto all’ente. Il soggettivismo è dato dal piegare l’oggetto al soggetto; l’oggettività si dà quando è il soggetto che è relativo all’oggetto. Ora è appunto nella adaequatio tomista intellectus et rei che si verifica la prima cosa, mentre è nella concezione heideggeriana della verità come apparire dell’essere al soggetto che si verifica la seconda cosa.
San Tommaso fa notare come mentre l’ente come vero (quindi la verità) suppone la relazione dell’intelletto con l’ente, l’ente come ente non suppone affatto l’uomo che pensa l’ente. L’essere potrebbe benissimo esistere anche se non esistesse l’uomo.
Edith negli anni ’30, già monaca carmelitana, Suor Teresa Benedetta della Croce, ben consapevole del gravissimo pericolo che minacciava l’Europa, la Chiesa e il mondo, presaga dell’esito del nazismo, pronta ad offrire la propria vita per il suo popolo, che di lì a pochi anni sarebbe stato vittima delle conseguenze pratiche dell’ontologia di Heidegger, scrisse due pregevoli opere assai impegnative di metafisica, dedicandosi a sottili è importantissime distinzioni, laddove Heidegger confondeva, Atto e potenza. Studi per una filosofia dell’essere e Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere.
Edith Stein con le sue opere Atto e Potenza, Essere finito ed essere eterno ci dona preziose distinzioni metafisiche nell’orizzonte dell’analogia dell’essere, dissipando la nefasta confusione che conduce all’egocentrismo, all’ateismo, al panteismo, al materialismo, al nichilismo, all’idolatria e all’empietà.
Immagini da Internet
[1] Cit. da Elizabeth de Miribel, Edith Stein. Dall’Università al lager di Auschwitz, Edizioni Paoline, Milano 1987.
[2]Heidegger, Essere e tempo, Edizioni Longanesi &C., 1976, p. 459.
[3] Ibid.
[4]Op.Cit., p. 460.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Op.Cit., p.461.
[8] Ibid.
[9] Città Nuova Editrice, Roma 2003.
[10] Città Nuova Editrice, Roma 1999.
Caro Bruno,
RispondiEliminaio mi ero fermato al significato di Dasein che avevo proposto, ma non conoscevo quello che propone lei, che mi sembra piuttosto interessante e viene ad integrare l’interpretazione che davo io.
Infatti questo ad-essere mi dà l’impressione di poterlo rapportare con la categoria della relazione e in particolare col concetto di Husserl per il quale l’essere è l’essere-per-la-coscienza, che sarebbe l’essere fenomenico, del quale parla Husserl.
Allora vuol dire che restiamo nell’ambito dell’idealismo, che tende a confondere l’essere con l’apparire.
Non si capisce a quale problema risponde questo commento del padre Cavalcoli.
EliminaCaro Anonimo,
Eliminaavevo risposto al seguente commento:
“Caro Padre Giovanni, come anche risulta da questo suo articolo, il termine tedesco “Dasein”, generalmente tradotto con “esserci”, ma secondo alcuni sarebbe più corretto, nell’ottica heideggeriana, tradurlo "ad-essere", sul modello del verbo latino adesse, è stato importante per la filosofia esistenzialista.
Se per Karl Jaspers indica non solo l’uomo, nella sua condizione esistenziale, ma tutte le cose in quanto semplicemente presenti nel mondo, con Heidegger il “Dasein” è il modo di essere proprio dell’uomo e, rispetto agli altri enti, presenta la caratteristica di non essere qualcosa di dato in modo stabile, ma di essere sempre in tensione, in divenire... nel rapportarsi al proprio essere, ovvero, per usare le parole del filosofo tedesco: “nel suo essere, ne va di questo essere stesso”.
Come traduzione letterale del termine, ho sempre trovato “essere qui”, o anche “essere qui ed ora”. Ho notato invece che lei, Padre Giovanni, lo traduce come “esser lì”; c’è un motivo particolare?”.