Chiunque è dalla verità ascolta la mia parola (Gv 18,37) - Terza Parte (3/3)

 

Chiunque è dalla verità ascolta la mia parola (Gv 18,37)

Terza Parte (3/3)

 La gnoseologia biblica è realista, non idealista

La concezione biblica della conoscenza è schiettamente realistica. Oggetto del sapere è la realtà, non la propria idea. Essa non nega un ideale di perfezione, ma solo perchè qui l’ideale è somma realtà. L’idea è solo un mezzo del sapere, anche se è utile conoscerla per se stessa per verificare lo stato del proprio rapporto interiore con Dio e con il prossimo.

La concezione biblica della verità non è soggettivista, riferita all’io, ma è oggettivista, guarda all’oggetto, a ciò che ci sta davanti (ob-jectum), al tu. Prima di guardar dentro di me, devo guardar fuori. Infatti non trovo niente nella mia coscienza che non abbia ricevuto dalla realtà esterna materiale e spirituale, fino a Dio stesso, il cui concetto lo ricavo «per ea quae facta sunt» (Rm 1,20).

La verità nella Scrittura comporta una distinzione fra pensiero ed essere, che troviamo nella creazione dell’uomo, la cui mente è creata a immagine e somiglianza di Dio, sommo ente. La verità dell’uomo è data dal suo conformarsi a Dio. Questa dualità armoniosa tra pensiero ed essere non è affatto dualismo, non è contrapposizione inconciliabile di pensiero ed essere, non è estraneità dell’essere come farneticano gli idealisti, ma è trascendenza dell’essere sul pensiero e pensiero ordinato all’essere, che impedisce quel panteismo o quel monismo nel quale casca invece l’idealismo, perché il pensare è riconducibile alla creatura, mentre l’essere a Dio creatore, nel quale solo pensare ed essere coincidono, perchè Egli è lo stesso Essere sussistente.

Secondo la Bibbia la verità del sapere per noi creature è fondata sulla verità dell’essere, ossia sulla verità della realtà o delle cose, che non sta a me stabilire, ma a Dio che le ha create. Io la trovo già fatta. Non ho che da conoscerla così com’è, interrogarmi su chi l’ha fatta o creata, scoprire la realtà di Dio e adorarlo nel culto divino obbedendo ai suoi comandanti, perchè scopro anche che io non mi sono fatto da me, non sono causa o creatore di me stesso, ma mi trovo preesistente al sapere che ho di me stesso. Se è vero che pensando mi accorgo di esistere, per cui deduco il mio esistere dalla mia coscienza di pensare, tuttavia il mio esistere precede il mio pensare e io potrei anche esistere senza pensare.

La verità del mio io mi è data dal fatto che scopro di esistere e rifletto su ciò che sono. Anche qui io trovo una realtà – il mio io – che non è il prodotto dcl mio pensiero, ma che è creata da Dio. Da qui il mio dovere di conoscere e attuare la volontà di Dio su di me.

La Bibbia distingue il pensiero umano da quello divino, la verità umana da quella divina, la verità naturale da quella soprannaturale, la verità di ragione da quella rivelata o di fede. Il pensiero divino pone con la sua volontà l’essere della cosa nella sua totalità creandolo dal nulla. Il pensiero umano può porre l’essere attuando intenzioni e progetti solo in un campo limitato della realtà, soggetto al suo potere, ossia nell’operare artistico e nell’agire morale, ma sempre presupponendo la materia sulla quale opera e che la volontà dirige.

Certamente esiste tutto un campo di realtà che posso informare, ordinare, strutturare, organizzare e finalizzare col mio pensiero e la mia volontà, con le mie idee, con i miei progetti, con la mia inventiva. Ma il suo essere è sempre presupposto al mio pensarla e trasformarla. Quello che posso fare è mutare la forma o disposizione accidentale o contingente, nell’operare morale ed artistico, di una realtà sostanziale che trovo già fatta davanti a me ed esistente prima di me e indipendentemente da me.

Per la Bibbia il chiudersi nelle proprie idee di comodo come fanno i farisei vuol dire rifiutarsi di imparare e di ascoltare e quindi di obbedire e di convertirsi; è segno di superbia e vuol dire chiudersi alla salvezza.

Diversamente dagli idealisti, alla Bibbia non viene assolutamente in mente di pensare o far credere che oggetto del pensiero sia lo stesso pensiero e non la realtà delle cose esterne, fino a Dio stesso o che il pensiero sia intrascendibile o che non ci sia nulla al di là del pensiero o di non pensato o che il pensiero non dipenda dall’essere o non presupponga l’essere o di identificare l’essere col pensare o con l’essere pensato. Solo il pensiero divino sa tutto, comprende tutto, conosce tutto perchè è il creatore di tutto.

Il pensiero umano, per la Bibbia, non pone l’essere delle cose, ma trova il reale già esistente e costituito come presupposto al suo pensarlo, che pertanto ha il compito di riconoscerlo, di interrogarsi sul suo fondamento, la sua ragion d’essere, il suo perchè ultimo, fino a scoprire l’esistenza di Dio.

Solo per il pensiero divino il pensiero è presupposto all’essere, primeggia sull’essere, è norma e regola dell’essere, perché Dio è il creatore dell’essere. Per il pensiero umano è l’inverso: è l’essere che è presupposto al pensiero, è dato al pensiero, trascende il pensiero, è regola e norma del pensiero, fa da criterio di giudizio per il pensiero. Il pensiero umano pone il suo pensiero, ma non pone l’essere, come quello divino. Lo trova già esistente; deve solo riconoscerlo e se si tratta di un precetto morale, deve attuarlo. Se si tratta di un fine, deve raggiungerlo.

È estranea alla Bibbia la concezione della conoscenza per la quale noi non possiamo superare i fenomeni, non possiamo conoscere le cose così come sono, ma solo come appaiono o per la quale ciascuno vede le cose non come sono ma come appaiono a lui.

La Bibbia non ignora certo l’esistenza dell’apparenza, ma afferma risolutamente la possibilità di superala per sapere come le cose realmente stanno. La Bibbia non ha nulla a che fare col soggettivismo e sostiene decisamente l’oggettività ossia la verità della conoscenza.

Se per concezione greca della conoscenza intendiamo lo scetticismo o la sofistica greca, allora possiamo dire certamente che la Bibbia non ha nulla a che vedere con questa concezione greca. Ma fare un fascio di tutte le concezioni greche della verità senza alcuna distinzione per poi affermare che la concezione biblica si oppone a quella greca è un’enorme falsità oltre che esser segno di una grossolana ignoranza della filosofia greca.

Il Gesù giovanneo

Giovanni, tra tutti gli Evangelisti, è quello che ha maggiormente notato l’insistenza e l’importanza data da Gesù al tema della verità e della conoscenza, senza per questo affatto ignorare l’importanza dell’amore, che pur balza in primo piano nel Vangelo e nelle Lettere. Il fondamento unitario di questa tematica si trova nella stessa definizione che Giovanni dà della natura divina: Dio è luce ed amore.

Per questo, Dio stesso per San Giovanni è la verità sussistente. Gesù promette la conoscenza della verità che rende liberi. La conoscenza produce l’amore, ma l’amore a sua volta è finalizzato alla conoscenza. Questo secondo fatto è tipico del Gesù giovanneo. È ciò che fa dire a San Gregorio Magno: ipse amor notitia est, senza per questo affatto confondere intelletto e volontà, essere e agire, vero e buono.

Per questo, quando Cristo dice «Io sono la verità», è come se dicesse Io sono Dio. A ciò accenna, ma in modo sbagliato l’Enciclopedia: «Frequentemente nella teologia di San Giovanni si dà all’aletheia un’interpretazione sbagliata, in senso greco o gnostico, come se essa significasse la realtà divina che si manifesta e si comunica all’uomo». Non è così. Per Giovanni Cristo è la verità sussistente, è Dio inteso come verità sussistente. Il senso greco e lo gnosticismo non c’entrano niente. Si vede che questi esegeti non sanno cosa è lo gnosticismo[1].

È meglio il vedere o è meglio l’amare? San Tommaso nota che quaggiù è meglio l’amare, mentre lassù è meglio il vedere: «Lo vedremo – dice Giovanni (I Gv 3,2) – così come Egli È». Abbiamo qui una chiara smentita della gnoseologia kantiana: se fosse vero che noi non possiamo conoscere l’essenza della cosa così come è in se stessa, Giovanni avrebbe torto, sarebbe un povero illuso.

L’essenza della beatitudine, nota Tommaso al seguito di Giovanni, sta nel vedere, in un atto dell’intelletto. San Bonaventura, sempre basandosi sulla dottrina giovannea dell’amore, dice che la pienezza della beatitudine riguarda il bene più che il vero e quindi dipende dalla volontà, da un atto di amore. Non si tratta solo di vedere, ma di possedere. Non si tratta solo di un’unione con Dio intenzionale, ma reale, intelletto e volontà. Tommaso non nega questo, ma insiste nel dare il primato all’intelletto, perché è questo e non la volontà che rende beato; l’amore e l’unione sono conseguenza e non essenza della beatitudine.

Abbiamo qui due diverse accentuazioni, reciprocamente complementari, dell’essenza della beatitudine, che fondano le due fondamentali correnti della spiritualità cristiana, quella intellettualista, sotto il segno del verum, che trova il paradigma nei Domenicani e quella volontarista, sotto il segno del bonum, che trova il paradigma nei Francescani o, come si esprime San Bonaventura, rispettivamente nello spirito cherubico dei Domenicani e nello spirito serafico dei Francescani[2].

D’altra parte, se noi in cielo, come credono gli ortodossi, vediamo solo le energie divine e non l’essenza divina, «faccia a faccia», come potrebbero valere le parole chiarissime Giovanni? Probabilmente gli ortodossi confondono il possesso della grazia, energia divina, con l’atto intellettuale del vedere, che ha per oggetto l’essenza della cosa vista.

Il problema è secondo loro che solo Dio può vedere Dio, per cui la dottrina della visione immediata dell’essenza divina implicherebbe panteismo. Ma dovrebbero capire che il fatto che il nostro intelletto possa vedere l’Essere infinito non suppone affatto che esso possa superare la sua finitezza, giacchè essa riguarda la natura dell’intelletto, non il suo oggetto. L’oggetto del conoscere non muta il soggetto conoscente, ma lo lascia com’è e non esige che il conoscente sia allo stesso livello del conosciuto, se no l’intelletto dovrebbe conoscere solo se stesso.

È poi evidente in Giovanni il nesso tra il Logos e la verità. Cristo, Logos del Padre, è la verità del Padre, Immagine del Padre, pensiero del Padre, così come il concetto è l’immagine della realtà. Come il pensiero procede dall’essere, così il Figlio procede dal Padre. Il Logos è il concetto del Padre. E come nel concetto abbiamo la verità dell’essere, così nel Logos abbiamo la verità del Padre.

Quando Giovanni nel Prologo (1, 3 e 10) dice che il Padre ha fatto il mondo «per mezzo del Logos», è chiaro che qui l’espressione «per mezzo» (dià) non fa riferimento ad un ente inferiore all’agente che lo usa, così come io dico di tagliare un legno per mezzo di una sega, ma il mezzo, cioè il Logos ha la stessa dignità del Padre che lo usa, così come il concetto per mezzo del quale io conosco o faccio qualcosa fruisce della stessa dignità della mia mente che lo produce e lo usa. Il Logos è la verità ideata dal Padre sul modello della quale creare il mondo, è il pensiero produttore dell’essere, che gli idealisti vorrebbero attribuire all’uomo, mentre vale solo per Dio.

Inoltre, quando Giovanni nel Prologo del suo Vangelo dice che mentre la Legge ci è stata data da Mosè, la verità è venuta da Cristo, che cosa intende dire? Che prima non si conosceva la verità? Per nulla! Qui per «Verità» chiaramente Giovanni intende la verità fatta persona, Cristo Verità, la Persona del Logos incarnato[3].

Giovanni intende dire che mentre nell’Antico Testamento abbiamo la conoscenza della volontà di Dio nei nostri confronti, nel Nuovo abbiamo la possibilità di conoscere e vedere Dio stesso, l’Autore stesso della Legge. Quindi, già con Mosè conosciamo la verità divina, ma è chiaro che la pienezza di questa conoscenza ci è data dalla possibilità, consentitaci da Cristo, di vedere e incontrare nell’amore l’Autore stesso di quella legge morale, inserita nella nostra natura e scritta nella nostra coscienza, come dice San Paolo, la cui attuazione costituisce la nostra felicità. È questa conoscenza ciò che fa cantare il Salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola» (Sal 119,105). La legge di Dio per il Salmista è luce del cammino e gioia degli occhi, dunque verità, ma solo pratica.

Già nell’Antico Testamento è espresso, come in Platone ed Aristotele e nella sapienza indiana, l’apprezzamento e il bisogno della verità speculativa, il desiderio di vedere Dio, ma solo Cristo lo accontenta.

È chiaro come Giovanni supponga una gnoseologia realistica. In ambito idealista dove tutto è pensiero, verrebbe meno la distinzione fra il Padre e il Figlio. Infatti Hegel, per distinguere il Figlio dal Padre non ha altro mezzo che concepire il Figlio come negazione del Padre, infrangendo l’identità di Dio, che diventa identità di essere e non-essere.

È chiaro, per la Scrittura, che non basta conoscere la verità se essa non viene messa in pratica. Per San Giovanni il camminare nella verità è virtù morale e santità, mentre viceversa il fare la verità conduce alla verità. Si dà dunque un gioco stupendo, un intreccio meraviglioso e una collaborazione reciproca fra intelletto e volontà, l’uno e l’altro nell’esercizio della propria funzione, senza confusioni o contrapposizioni.

In San Giovanni il vero amore è l’amore della verità e l’acquisto della verità frutto dell’amore. La pratica dell’amore fa raggiungere la verità e il vero amore è la pratica della verità: «Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perchè Dio è amore» (I Gv4, 7-8).

In Giovanni Gesù chiama lo Spirito Santo Spirito della verità, che ci conduce alla pienezza della verità e ci fa comprendere ciò che Cristo ci ha insegnato. San Paolo precisa che non è possibile sapere e dire che Gesù Cristo è il Signore, se non nello Spirito Santo.

La prospettiva finale della vita umana che Cristo nel Vangelo di Giovanni ci propone è quella della conoscenza della verità, conoscere il Padre e colui che Egli ha mandato. Chiaramente è la visione beata di Dio in cielo.

Al riguardo, alcuni hanno parlato di prospettiva gnostica. In realtà lo gnosticismo non c’entra niente, perché esso comporta il raggiungimento mediante autotrascendenza di una conoscenza suprema di Dio[4] al di sopra dei contenuti dei misteri rivelati, pari a quella stessa divina, cosa del tutto aliena dalla prospettiva del Cristo giovanneo, il quale, senza affatto confondere la finitezza del sapere umano con l’infinità del sapere divino, ci promette la piena conoscenza delle verità rivelate da lui, conosciute adesso nella fede, e viste direttamente in cielo nella visione beatifica.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 21 aprile 2025


Certamente esiste tutto un campo di realtà che posso informare, ordinare, strutturare, organizzare e finalizzare col mio pensiero e la mia volontà, con le mie idee, con i miei progetti, con la mia inventiva. Ma il suo essere è sempre presupposto al mio pensarla e trasformarla. Quello che posso fare è mutare la forma o disposizione accidentale o contingente, nell’operare morale ed artistico, di una realtà sostanziale che trovo già fatta davanti a me ed esistente prima di me e indipendentemente da me.

Solo per il pensiero divino il pensiero è presupposto all’essere, perché Dio è il creatore dell’essere. Il pensiero umano pone il suo pensiero, ma non pone l’essere, come quello divino. 

Quando Cristo dice «Io sono la verità», è come se dicesse Io sono Dio.

Quando Giovanni nel Prologo (1, 3 e 10) dice che il Padre ha fatto il mondo «per mezzo del Logos», è chiaro che qui l’espressione «per mezzo» (dià) non fa riferimento ad un ente inferiore all’agente che lo usa, così come io dico di tagliare un legno per mezzo di una sega, ma il mezzo, cioè il Logos ha la stessa dignità del Padre che lo usa, così come il concetto per mezzo del quale io conosco o faccio qualcosa fruisce della stessa dignità della mia mente che lo produce e lo usa. Il Logos è la verità ideata dal Padre sul modello della quale creare il mondo, è il pensiero produttore dell’essere, che gli idealisti vorrebbero attribuire all’uomo, mentre vale solo per Dio.

Immagine da Internet: Gesù Crist, Catacombe di Comodilla

[1] Interessante ed autorevole è la descrizione che ne fa Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate del 2018, nn.36-46

[2] Cf di Gilson, La philosophie de Saint Bonaventure, Vrin. Paris 1953, p.73. Volendo fare un paragone con la filosofia greca, potremmo dire che mentre l’intellettualismo si rifà ad Aristotele, il volontarismo si rifà a Platone. L’intellettualismo domenicano ha la sua deviazione in Eckhart; il volontarismo francescano, in Ockham.

[3] Vedi i miei articoli LA VERITA’ ETERNA IN S.AGOSTINO, I, Sacra Doctrina, 1986, 5, pp.590-611; LA VERITA’ ETERNA IN Sant’AGOSTINO, II, Sacra Doctrina, 1986, 6, pp.665-687.

 

[4] Cf Giovanni Filoramo, Il risveglio della gnosi ovvero diventare dio, Edizioni Laterza, Bari 1990.

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