Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Quarta Parte (4/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Quarta Parte (4/5)

 In seguito Aristotele si accorse del medesimo inganno e ci avverte:

 

«Non perché ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero»[1].

L’essere dipende dal pensiero divino, non da quello umano. Pretendere che la verità delle cose debba regolarsi sulle nostre idee è come volerci sostituire a Dio. È solo Dio che ha il potere di far dipendere l’essere delle cose dal suo pensarle o idearle, ma questo solo perché ne è il creatore. Non siamo noi i creatori delle cose, ma le troviamo già esistenti prima e indipendentemente da noi! Altrimenti basterebbe che noi pensassimo di essere Napoleone per essere Napoleone.

Purtroppo il progetto kantiano, riprendendo il cogito cartesiano, va in questo senso. Come Cartesio, Kant propone un «cambiamento di metodo»[2]:

 

«Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori per mezzo di concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tale presupposto, non riuscirono a nulla.  Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza, ciò che si accorda meglio con la desiderata possibilità di una conoscenza a priori che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti prima che essi ci siano dati»[3] .

Kant non si domanda: da chi gli oggetti, ossia le cose, la realtà che ci circonda, ci sono dati? Come è possibile che noi abbiamo di essi una conoscenza vera e certa prima che ci siano dati? Come si può desiderare una conoscenza del genere? Se gli oggetti li avessimo fatti noi, è logico che di essi dobbiamo avere una conoscenza pratica prima che essi esistano. Ma se ce li troviamo davanti e attorno senza che li abbiamo fatti noi, come possiamo averne una conoscenza prima di averli contattati e visti?

Ma Kant insiste:

 

«Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori[4]; se l’oggetto, invece, in quanto oggetto del senso, si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità»[5].

Kant qui sbaglia: il sapere a priori, in quanto certo e scientifico, dipende proprio dal regolare il nostro pensiero e il nostro giudizio sull’oggetto ovvero sulla cosa. Ora ciò è possibile in quanto abbiamo avuto esperienza della cosa. Non posso conoscere la cosa sensibile se prima non ne ho avuto esperienza.

Il sapere, pertanto, in quanto suppone l’esperienza della cosa, è nel contempo a posteriori, nel senso che l’esperienza, benchè venga dopo o sia un conoscere inferiore a quello intellettuale (a posteriori), tuttavia entra nel tempo in funzione prima dell’intervento dell’intelletto, e questo intervento avviene dopo, a posteriori nel tempo.

Kant ribadisce poi la sua «ipotesi», ossia che «gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l’esperienza, si regolano sui concetti a priori» e quindi insiste nell’affermare che devo presupporre in me stesso la regola dell’intelletto «prima che gli oggetti mi siano dati e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi e coi quali devono accordarsi». Da qui la conclusione: «noi delle cose non conosciamo a priori se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo» [6].

Da notare che qui Kant non parla delle cose in generale o della realtà in generale, ma delle cose dell’esperienza, ossia delle cose materiali. Il mondo dello spirito, dell’intelletto, della coscienza, delle idee, dei concetti, dei giudizi, della ragione, della volontà, del dovere, della legge morale e dello stesso sapere, pensare e conoscere esiste senz’alcun dubbio ed è per lui l’oggetto dell’«io penso», del cogito cartesiano.

Kant ammette l’esistenza dello spirito

Per Kant non ha senso voler dimostrare l’esistenza dello spirito o dell’anima umana o di Dio partendo dall’esperienza delle cose o dei fenomeni, perché il principio di causalità secondo lui vale solo per spiegare i fenomeni e la stessa nozione di sostanza o di cosa o realtà riguarda solo i fenomeni e non lo spirito.

D’altra parte che lo spirito esista per Kant è un’evidenza data dal cogito cartesiano. Essa non ha bisogno di essere dimostrata, ma se ne ha consapevolezza a priori. Nel contempo Kant non ha una nozione dell’ente tale per cui astraendo dalla sensibilità, dal divenire e dalla quantità si possa concepire l’ente senza questi attributi, così da chiedersi quale ne è la causa. Per questo egli non arriva a concepire Dio come primo Ente in senso personale, come Signore, causa prima e provvidente creatore del mondo, ma solo come suprema Idea della ragione.

Del resto già Cartesio non arriva a Dio partendo dagli effetti sensibili, come insegna la Bibbia (Sap 5,13; Rm 1,20), dato il suo dubbio sulla veracità dei sensi, per cui per la soluzione di questo problema non parte da una gnoseologia realistica che ammette l’esistenza della realtà esterna. Benchè dunque egli parta dall’idea di Dio, giunge ad affermare che Dio esiste come causa dell’idea di Dio.

Kant, più coerente dello stesso Cartesio al principio del cogito, ammette come realtà esterna solo la cosa in sé che è la realtà materiale segnalata dal fenomeno. Ma Kant sa che Dio è spirito. Per questo Dio in Kant appare come contenuto del cogito interno all’io penso. Accetta con Cartesio che Dio sia un’idea a priori, ma sì ferma qui e, coerente al principio idealistico, non ammette come Cartesio un Dio personale fuori e al di sopra della ragione. Da qui il suo concetto di Dio come Idea suprema della ragione. Siamo già in quell’immanentismo che sarà denunciato dalla Pascendi di S.Pio X.

Kant inoltre equivoca sul significato del termine «oggetto». Egli confonde l’oggetto come ob-jectum, «ciò-che-mi-sta-davanti», ossia come termine di una potenza o facoltà, per esempio l’«oggetto» dei sensi o dell’intelletto, con ciò che chiamiamo «cosa». Ora l’objectum è un termine-concetto della logica, non della metafisica, come possono essere le cose o gli enti.

L’oggetto propriamente non è un ente reale, ma di ragione, un ente mentale che noi formiamo per esprimere quello che è il termine di una potenza di un’azione o di un movimento. Confondere la cosa con l’oggetto[7] vuol dire confondere il pensiero con l’essere, l’idea con la realtà, che è il tipico vizio dell’idealismo. Oggetto dell’intelletto non è l’oggetto, ma la cosa, l’ente, il reale.

Cosa molto strana per filosofi che vogliono fondare la metafisica, in Cartesio come in Kant, è il fatto che non trattano dell’oggetto proprio ed essenziale della metafisica che è l’ente in quanto ente, ma girano come Cartesio attorno alla tematica delle idee e della coscienza e Kant attorno alla tematica della ragione.

Come Kant intende la metafisica come scienza

Occorre peraltro far presente che quando Kant parla di un’impossibilità della ragione speculativa di oltrepassare il dato dell’esperienza, non intende respingere la metafisica tout court, ma la metafisica aristotelica e realista, che sostiene la possibilità e necessità dell’intelletto di elevarsi alla nozione dell’ente come tale e all’ente primo e supremo partendo dall’ente sensibile e mobile dell’esperienza fisica applicando il principio di causalità. In tal modo Kant negli ultimi anni della sua vita, dopo la tormentosa ricerca della Critica arrivò finalmente a determinare la sua visione di una metafisica idealista nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza definendola in questi termini:

 

«il nocciolo e l’essenza della metafisica, cioè l’applicazione della ragione soltanto a se stessa, meditando essa i suoi propri concetti, la conoscenza d’oggetti che presumibilmente deriva immediatamente da lei, senza aver bisogno perciò della mediazione dell’esperienza e senza che in generale ci si possa arrivare per mezzo di essa»[8].

In quest’operetta Kant indica il programma e i vantaggi della metafisica da lui stabilita mediante la critica della ragione:

 

«Perché la metafisica, come scienza, possa pretendere non di persuadere fallacemente con le parole, ma di insegnare e convincere, una critica della ragione deve presentare in un sistema completo tutta la provvista dei concetti a priori, la loro suddivisione secondo la loro diversa origine (sensibilità, intelletto, ragione), una tabella completa di essi e l’analisi loro con tutto ciò che se ne può dedurre, ma soprattutto la possibilità della conoscenza sintetica a priori per mezzo della deduzione di questi concetti,  i princìpii del loro uso e infine anche i limiti di esso. La critica, dunque, contiene in sé tutto il piano bene esaminato e vagliato – ed anche tutti i mezzi di esecuzione onde si può costituire la metafisica come scienza; per altre vie e con altri mezzi è impossibile. …

 

Questo è sicuro: chi ha assaggiato una volta la Critica prende per sempre a schifo tutte le ciance dogmatiche di cui prima s’era accontentato per necessità, perché la sua ragione aveva bisogno di qualche cosa e non trovava nulla di meglio pel suo sostentamento. La Critica sta alla solita metafisica scolastica come la chimica all’alchimia e l’astronomia sta all’astrologia»[9].

Potremmo chiederci con chi Kant se la prende. Non fa nomi. In ogni caso assume il tono, come Cartesio, di chi ha finalmente ha dato alla metafisica lo statuto di scienza. Ma Kant, come Cartesio, credendo di fondare la metafisica, non solo non fonda nessuna scienza, ma fonda la metafisica su di un falso principio qual è il cogito, principio che, se esplicitato e applicato in tutta la sua virtualità, conduce al panteismo e all’ateismo.

Comunque Kant recupera parzialmente, rispetto a Cartesio, il realismo. Lo accetta solo per quanto riguarda l’ammissione della cosa in sé esterna all’intelletto, che fornisce all’intelletto la materia sensibile tratta dall’esperienza per la formazione dell’oggetto, che è il fenomeno. Ma, con Cartesio non riesce a vedere la verità così elementare che, come dice San Tommaso[10], «nos per similitudines rerum, quae in nobis sunt, agnoscimus res in seipsis existentes».

Kant non respinge l’idealismo inteso come quella concezione del conoscere che privilegia come oggetto del conoscere l’idea alla realtà sensibile, concentrando l’attenzione suIla vita interiore, e ricordandoci il primato dell’ideale di coscienza sul dato esterno fenomenico proveniente dalla cosa. Il difetto tuttavia dell’idealismo sta nel dare il primato al pensiero sull’essere, mentre San Tommaso ci avverte: «Non est verum quod intelligere sit nobilius quam esse; sed determinatur ab esse; immo sic esse eo est nobilius»[11]

Kant, comunque, sembrerebbe, come Cartesio, nella linea dell’interiorismo agostiniano del noli foras ire, in teispum redi, in interiore homine habitat veritas, riferirsi alla coppia agostiniana degli interiora spiritualia, exteriora materialia. Ma in realtà Agostino non respingerebbe la distinzione fatta da Tommaso con altro linguaggio fra res extra animam, che è la realtà materiale e spirituale esterna, e res in anima, che sono i concetti. Anche per Agostino Dio è trascendente e anche per Tommaso lo spirito vale più del corpo.

Aggiungiamo che il modo col quale Kant affronta la questione della verità e della metafisica è simile a quello di Cartesio. Anche Kant ritiene che fino ai suoi tempi la metafisica non era riuscita a costituirsi come scienza. Egli fa un quadro sconfortante e in realtà falso dei filosofi che lo avevano preceduto.

 

 «La ragione – afferma Kant[12] - si trova in essa in grande imbarazzo … In essa si deve innumerevoli volte rifar la via, poiché si trova che quella già seguìta non conduce alla meta … Essa è così lontana dall’aver raggiunto l’accordo fra i suoi cultori, che è piuttosto un campo di lotta, il quale par proprio destinato ad esercitare le forze antagonistiche in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondare sulla sua vittoria un durevole possesso. Non c’è dunque alcun dubbio che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti»[13].

Sono qui chiare due cose: la prima, che Kant non sa nulla della secolare scuola tomistica; seconda, che la riforma cartesiana non gli va bene, altrimenti avrebbe celebrato Cartesio come il faro della filosofia moderna, cosa che non fa, perché anzi Kant è critico nei confronti di Cartesio su due punti: primo, considera evidente l’esistenza delle cose esterne[14].

E qui Kant salta Cartesio all’indietro per riprendere il realismo aristotelico; per questo Kant non ha nessun problema a riconoscere con Aristotele che la conoscenza dei fenomeni è ricavata dall’esperienza delle cose esterne. E, secondo, Kant non disapprova la gnoseologia idealista, in quanto incentrata sull’idea più che sull’essere; rimprovera però Cartesio di aver fondato un idealismo problematico e non trascendentale come il suo: finissimo intùito di Kant, che si accorge che il cogito non è un io sono certo di sapere ma io sono certo di dubitare, il che non serve affatto a superare lo scetticismo, con l’aggravante di elevare il dubbio a principio di certezza.

Kant non è contrario alla metafisica, come molti realisti credono, come è ancora più evidente che non lo è Cartesio; al contrario, l’uno e l’altro crede di darle, ricorrendo all’idealismo, quel vero e solido fondamento che a loro giudizio il realismo non è riuscito a darle.

Così la famosa rivoluzione copernicana di Kant è sostanzialmente una ripetizione del metodo cartesiano di regolare il conoscere non sul dato sensibile esterno, che per Cartesio non è affidabile, ma sull’autocoscienza dell’io pensante. Similmente Kant, benché non soffra dello scetticismo cartesiano riguardo ai sensi, tuttavia sposta l’intenzione dell’intelletto dall’attenzione all’oggetto, alla cosa o all’ente, per rivolgerla al soggetto, all’«io penso», che Kant, come del resto Cartesio, fa coincidere con la ragione.

Così pure intento di entrambi è vincere lo scetticismo per dare al sapere un fondamento irrefragabile di certezza, opporsi al sensismo e all’ateismo, per affermare l’esistenza di Dio. Cartesio tenta di darne le prove sulla base del cogito. Kant propone la famosa prova morale tratta dalla coscienza del dovere.

Ma resta in entrambi una concezione idealistica di Dio, che si presterà alla critica feuerbachiana di Dio come creazione consolatoria ed alienante dell’immaginazione dell’uomo infelice ed oppresso, che preparerà l’ateismo di Marx. Tuttavia, accusare di ateismo Cartesio, come fece il dotto Gesuita Jean Hardouin, è troppo, tanto che egli fu redarguito dal Sant’Ufficio nel 1739[15].

Cartesio infatti faceva professione aperta di fede cattolica. Tuttavia resta vero, come ha dimostrato Padre Fabro, che il sum cartesiano, se esplicitato nel suo pieno significato, conduce ad una divinizzazione dell’autocoscienza umana e quindi all’ateismo.

Il conoscere nel realismo e in Kant

Il conoscere comporta quattro elementi: l’atto del conoscere, che è l’intendere intellettuale, l’oggetto del conoscere, che è la cosa, il modo del conoscere, che è l’immaterialità dell’oggetto conosciuto a seguito del processo astrattivo, e il mezzo del conoscere, che è il concetto. Conoscere non è un fare, come crede Kant, ma un divenire intenzionale l’altro un quanto altro (fieri intentionaliter aliud in quantum aliud). Nell’atto del conoscere intellectus in actu est intellectum in actu: questo è il punto di convergenza fra realismo e idealismo. Ma per l’idealista sono identici anche ontologicamente, perché confonde il pensare con l’essere.

Osserviamo che l’atto del conoscere, l’io, il modo del conoscere, il concetto, l’idea e il mezzo del conoscere stanno dalla parte del soggetto; l’altro, il fenomeno, il qualcosa, la cosa, l’ente e il reale stanno dalla parte dell’oggetto. La verità riguarda tanto il soggetto (adaequatio intellectus et rei) che l’oggetto: la verità ontologica, l’essere in quanto vero.

Kant scambia il modo e il mezzo del conoscere con l’oggetto o contenuto del conoscere; confonde la forma o essenza del conoscere con la materia del conoscere, che è la cosa o l’ente, che può essere o pura forma, la sostanza spirituale o composto di materia e forma, la sostanza materiale. Scambia la forma o essenza della cosa con la forma del fenomeno, che è l’apparire sensibile della cosa all’intelletto.

Per Kant non la cosa esterna, ma il fenomeno, oggetto della conoscenza, è composto di materia e forma, riceve forma dalla forma a priori «giacente già pronta» nell’intelletto, mentre l’intelletto non riceve la forma del fenomeno, ma gliela dà, perché già la possiede a priori, prima dell’esperienza. L’intelletto invece riceve la materia del fenomeno, mediante l’esperienza sensibile, dalla cosa. La cosa esterna è pensata (noùmeno), ma non conoscibile. Non è oggetto categoriale, ma «trascendentale».

Kant sbaglia quando crede che la conoscenza sia un composto di materia e forma[16]. L’intelletto certo produce il concetto, ma non dà forma all’oggetto: questi ce l’ha già per conto suo. L’intelletto non possiede da sé le categorie o forme delle cose a priori, ma a posteriori, ossia ricavate dall’esperienza delle cose.

La conoscenza, per usare una formula scolastica, è un habere ex parte intellectus formam rei extra animam intentionaliter in statu immaterialitatis. Il conoscente non dà forma, ma riceve la forma dell’oggetto. Non si tratta di riempire una forma di contenuto, ma di recepire un contenuto sotto una data forma.

La conoscenza è un’in-formazione dell’intelletto da parte della forma dell’oggetto, che lo forma (species impressa). Stimolato da questa forma, l’intelletto forma a sua volta una riproduzione o rappresentazione interiore di questa forma (species expressa), il concetto, nel quale vede la forma della cosa esterna. Non è il conoscere, ma è l’oggetto conosciuto ad essere composto di materia e forma, non lo stesso conoscere. Kant confonde il modo del conoscere con l’oggetto del conoscere.

Il problema della cosa in sé in Kant

Nella Critica della ragion pura c’è un fatto molto strano e cioè che vi sono molti passi di Kant dove egli parla tranquillamente della «conoscenza delle cose» e ce ne sono altrettanti dove dichiara che la «cosa in sé è inconoscibile» senza spiegare per quale motivo. Ma Kant non ci spiega neanche che cosa intende per «cosa». Inoltre l’espressione «cosa in sè» dovrebbe corrispondere a «cosa per me». Ma Kant non ci parla mai della cosa per me.

Sembrerebbe, questa, essere il fenomeno; Senonchè il fenomeno Kant lo intende come modificazione del nostro io e come semplice rappresentazione. Ma allora che ne è dell’oggettività e verità della conoscenza? Come fa a parlare di conoscenza delle cose? Ammette l’esistenza del noùmeno, il pensato, l’intellectum, benissimo; ma poi qual è l’oggetto di questo pensato? La cosa? Ma allora come mai la cosa è inconoscibile? È pensata senza essere conosciuta? Ma, se, come dice Kant, la cosa esiste, è reale ed è fuori di noi, come fa a saperlo, se la cosa è inconoscibile? Come formare un concetto della cosa, se la cosa è inconoscibile? Sappiamo che esiste e non sappiamo che cosa è? Ma allora come facciamo a formarci i concetti delle cose?

Come facciamo a parlarne? Come potremmo intenderci tra noi se non sappiamo di che cosa parliamo? Se non conosciamo le cose, che cosa conosciamo? I fantasmi? I sogni? Le fantasie? Le nostre idee? Le idee non servono a conoscere le cose? Si possono conoscere le idee senza conoscere le cose? Ma allora le idee di che cosa sono idee? Come Kant si è fatto l’idea della cosa, se non sa dirci che cosa è la cosa, se non possiamo conoscere qual è la sua essenza?

Il concetto kantiano di fenomeno non è male: sarebbe la cosa così come appare ai nostri sensi. E Kant tiene a precisare che il fenomeno non è un’apparenza (Schein), che può essere illusoria, ma un vero apparire, un mostrarsi della cosa ossia della verità (Erscheinung). E ciò va molto bene. Di fatto il concetto di fenomeno è ormai di uso comune nelle scienze sperimentali. Sorge però un problema: quando Kant parla di «cose», intende solo quelle materiali? Infatti non dice mai che lo spirito o la ragione o l’intelletto o la coscienza o Dio sono «cose».

Fine Quarta Parte (4/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 aprile 2024


Kant non sa nulla della secolare scuola tomistica; seconda, che la riforma cartesiana non gli va bene. Kant non ha nessun problema a riconoscere con Aristotele che la conoscenza dei fenomeni è ricavata dall’esperienza delle cose esterne.

Kant non disapprova la gnoseologia idealista, in quanto incentrata sull’idea più che sull’essere; rimprovera però Cartesio di aver fondato un idealismo problematico e non trascendentale come il suo: finissimo intùito di Kant, che si accorge che il cogito non è un io sono certo di sapere ma io sono certo di dubitare, il che non serve affatto a superare lo scetticismo, con l’aggravante di elevare il dubbio a principio di certezza.

Kant non è contrario alla metafisica, come molti realisti credono, come è ancora più evidente che non lo è Cartesio; al contrario, l’uno e l’altro crede di darle, ricorrendo all’idealismo, quel vero e solido fondamento che a loro giudizio il realismo non è riuscito a darle.



 

Così pure intento di entrambi è vincere lo scetticismo per dare al sapere un fondamento irrefragabile di certezza, opporsi al sensismo e all’ateismo, per affermare l’esistenza di Dio. Cartesio tenta di darne le prove sulla base del cogito. Kant propone la famosa prova morale tratta dalla coscienza del dovere.

Ma resta in entrambi una concezione idealistica di Dio, che si presterà alla critica feuerbachiana di Dio come creazione consolatoria ed alienante dell’immaginazione dell’uomo infelice ed oppresso, che preparerà l’ateismo di Marx.

Cartesio faceva professione aperta di fede cattolica. Tuttavia resta vero, come ha dimostrato Padre Fabro, che il sum cartesiano, se esplicitato nel suo pieno significato, conduce ad una divinizzazione dell’autocoscienza umana e quindi all’ateismo.

Immagini da Internet: Ludwig Feuerbach e Padre Cornelio Fabro

[1] Metafisica, libro IX (theta), cap.10, Luigi Loffredo Editore, Napoli, 1968, vol.II, p.59.

[2] 20

[3] Critica, op.cit., pp.20-21.

[4] Kant usa queste due espressioni latine a priori (=da ciò che è prima) e a posteriori (=da ciò che è dopo) in modo equivoco, confondendo il loro significato ontologico-assiologico con quello gnoseologico. Infatti dal primo punto di vista non c’è dubbio che l’intellegibile viene prima, cioè è più importante, oggetto di certezza scientifica, che non il sensibile, oggetto dei sensi. Ma dal punto di vista gnoseologico-temporale occorre dire che il sapere metafisico non è a priori, ma a posteriori, cioè l’intelletto non parte dalla conoscenza del sé spirituale (l’autocoscienza), ma dall’esperienza di ciò che assiologicamente vale di meno, ossia le cose materiali. Così Kant finisce col credere che si possa costruire una metafisica a priori, ossia scientifica e certa, basata su concetti a priori, non ricavati dall’esperienza. In tal modo non si accorge di ricadere nell’apriorismo del quale aveva accusato la metafisica aristotelica e che invece si poteva riferire alla metafisica essenzialista e cartesiana di Wolff.

[5] Critica, op.cit., p.21.

[6] Critica della ragion pura, Laterza, Bari, 1963, p.22.

[7] Vedi su ciò il paragrafo Chose et objet in Les degreés du sasvoir del Maritain, Desclée de Brouwer, Bruges 1959, pp.176-195.

[8] Editore Carabba, Lanciano 1924.

[9] Ibid., p.137.

[10] Sum.Theol.,I, q.20, a.2, 2m.

[11] Quaestio disputata de veritate, q.22, a.8, ad 1m, Edizioni Marietti, Roma-Torino 1964.

[12] Critica, op.cit., 19-20.

[13]. Ibid., p..20.

[14] Ibid., p.35.

[15] Notizia presa dalla voce HARDOUIN, Jean nel Dictionnaire de théologie catholique.

[16] Maritain mostra bene come Kant nonostante il suo idealismo, materializza l’opera della conoscenza. Vedi Riflessioni sull’intelligenza, Editrice Massimo, Milano. 1987,c.ii.

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