La virtù della divina misericordia a confronto con la giustizia - Prima Parte (1/3)

 

La virtù della divina misericordia

  a confronto con la giustizia

Prima Parte (1/3)

 La persona umana è simile alla persona divina

Immaginare Dio come un sovrano buono, giusto, santo, benigno, onnipotente. provvidente e misericordioso, promotore della vita e della virtù, legislatore e giudice della condotta umana, architetto e organizzatore della natura, è cosa naturale in tutte le religioni.

Su questa linea della religione naturale, il Concilio Vaticano I insegna che Dio è una sostanza spirituale, come a dire che è una persona, un soggetto intelligente e libero. Questa proprietà della natura divina la deduciamo dal fatto che constatiamo di essere noi stessi persone. Ma siccome il nostro essere non spiega sufficientemente se stesso, dobbiamo porre l’esistenza di una sola persona assoluta, infinita, incausata, il cui essere sia sufficiente a se stessa e sia ragione a se stessa, fondata su se stessa, creatrice della persona umana. E questa persona è Dio.

La ragione ci fa capire che la persona divina a differenza delle persone umane che sono molte, non può che essere una sola. Infatti perché poniamo l’esistenza della persona divina? Per spiegare l’esistenza delle persone umane e l’ordine dell’universo.

Ora la spiegazione sufficiente di queste cose è una persona perfettissima che racchiuda in sé tutte le perfezioni, come causa universale di tutte le cose. Ora questa persona non può che essere una sola, perché se fossero diverse, una non avrebbe ciò che ha l’altra e quindi nessuna sarebbe sufficiente a spiegare la totalità della realtà nella sua unità e nelle sue differenze.

D’altra parte la causa prima delle cose non può che essere spirituale, quindi una persona. Per quanto il mondo materiale susciti la nostra ammirazione, sia prezioso per la nostra vita, ci appaia nella sua incontestabile consistenza, esso è pur sempre segnato dalla contingenza, dalla particolarità, dalla mutevolezza, dalla corruzione, dalla limitatezza, da infinite carenze, per cui non può competere con la potenza e la perfezione ontologica dello spirito e quindi della persona nel darci la giustificazione dell’esistenza di noi stessi e del mondo.

Prive di senso sono pertanto quelle cosmogenesi che vorrebbero porre la materia all’origine dello spirito anziché lo spirito e quindi la persona all’origine della materia, come se il meno potesse causare il più: questo vuol dire non capire che cosa è lo spirito e idolatrare la materia, per quanto anch’essa abbia una sua bontà e dignità ontologica e sostanziale.

Del tutto fallaci sono anche quelle visioni del mondo, le quali, col pretesto del bisogno di assoluto, di infinito e di eterno, della dignità del pensiero e della coscienza, della potenza della volontà, della dignità dell’io, del valore dell’essere, dell’unità e totalità della realtà, esagerano la trascendenza finendo in un misticismo agnostico ed apofatico che è l’altra faccia dell’immanentismo gnostico, dove il panteismo si confonde con l’ateismo, la materia che si dissolve nello spirito e il rapporto si rovescia nella materializzazione dello spirito, l’enfasi esagerata sulla  persona porta allo svuotamento della persona e l’univocità parmenidea dell’essere ha come contrappeso il nichilismo.

La persona umana è l’individuo di una specie: la specie umana, che ha sotto di sé molti individui. La persona divina è la stessa natura divina, che non è un universale che contenga una molteplicità di individui come avviene in noi, che distinguiamo una natura umana individuale dalla natura umana specifica.  Dio non è un universale che abbia sotto di Sé degli individui, sennò saremmo nel politeismo.

L’uomo, quando genera, trasmette certo la natura umana al figlio, ma individualizzata, in modo che la natura individuale del figlio è diversa da quella del padre.  Il Padre celeste, invece genera il Figlio della stessa natura singola del Padre, una di numero, dove non c’è distinzione fra individuo e specie, ma la specie stessa è individuo, cosa, questa, che avviene già negli angeli, con la differenza che nell’angelo l’esistenza è distinta dall’essenza, per cui gli angeli sono molti con diverse essenze specifiche, e quindi diverse esistenze, mentre in Dio esistenza ed essenza coincidono, per cui in Lui individuo, specie ed essere sono una stessa cosa.

La dignità della persona

La persona è un ente sussistente dotato di volontà in quanto ente spirituale. Dal punto di vita filosofico noi concepiamo la persona come sostanza: rationalis – si potrebbe dire spiritualis - naturae individua substantia – si potrebbe dire subsistentia -, secondo la famosa definizione di Boezio. La sussistenza è l’esistere in sé proprio della sostanza, mentre l’esistere dell’accidente è l’inerire.

La filosofia vede dunque la persona come sostanza dotata di accidenti. Tra questi c’è l’azione e la relazione. L’azione riguarda la volontà, che quindi è una proprietà essenziale della persona, ma non è lo stesso essere della persona, che è solo il soggetto della volontà e questa è solo una potenza o facoltà della persona.

Una persona può non esercitare la volontà e non per questo non resta persona. La dignità della persona sta quindi nel suo semplice essere persona, anche se non esercita la volontà. Con l’esercizio della volontà la persona entra in relazione con Dio e col prossimo. Benchè essa trovi la sua perfezione morale in una relazione onesta con Dio e col prossimo, la persona umana può rifiutare la relazione, può isolarsi, rifiutare il rapporto sociale e la vita comunitaria e assumere un atteggiamento di ostilità. Dotata di libero arbitrio, la persona umana ha la facoltà di relazionarsi o non relazionarsi con Dio e col prossimo.

Se invece per relazione intendiamo il fatto che l’individuo, qualunque cosa faccia, è sempre in relazione con l’ambiente in cui vive, allora bisogna dire che la persona ha sempre una relazione con l’esterno, benchè occorra sempre distinguere la persona dalla sua relazione.  Invece, come vedremo, la persona divina trinitaria va concepita come relazione sussistente: l’esser Padre in Dio non è un accidente che si è aggiunto in passato al suo esser Dio, come credevano gli ariani, e come avviene fra noi, come il tale che si sposa e diventa padre, mentre prima non lo era. Dio invece è Padre per essenza, genera il Figlio per essenza, ab aeterno, sicchè la paternità non è in Dio un attributo o un accidente che si aggiunge alla sostanza o alla persona, ma è la stessa essenza del Padre.

Occorre pertanto, come vedremo, distinguere in Dio la persona in senso ontologico, che è il Dio uno, dalla persona in senso trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Dio come natura divina, ossia Dio come sostanza, è pura sostanza e quindi senza relazioni. Infatti per l’ente, il possedere degli accidenti è un’imperfezione, perché l’accidente perfeziona l’ente. Ora Dio è ente perfettissimo, per cui non è ammissibile che possa avere accidenti. Se quindi concepiamo la persona trinitaria come relazione, è chiaro che qui non intendiamo la relazione come accidente, ossia come un essere in qualcosa, ma come semplice esser-verso-qualcosa. Dunque Dio come persona trinitaria è relazione sussistente, per cui qui la relazione non è più accudente, ma sussiste come se fosse sostanza.

Relazione, dunque, nella persona trinitaria non significa essere relativo a qualcosa in quanto ciò vuol dire dipendere da quel qualcosa, ma semplicemente essere rivolto od orientato a qualcosa, il che può avere un altissimo significato, addirittura divino, così come per esempio il Figlio è per essenza rivolto verso il Padre e Questi è per essenza rivolto verso il Figlio e quindi in Dio la relazione coincide con Dio stesso. Dio non è relativo, ed anzi è l’Assoluto.

 

E tuttavia in Lui la relazione non è un accidente, non appartiene alla categoria dell’avere, ma dell’essere. Dio non ha una relazione con altro da sè. Se lo diciamo di Dio creatore, ci riferiamo solo ad una relazione di ragione, perché semmai è il creato che ha una relazione reale con Dio in quanto ne dipende come l’effetto dipende dalla causa.   

Le virtù sociali esigono che la persona avvii, intrattenga e sviluppi, secondo le sue attitudini e preferenze, relazioni sociali con gli altri, nel che essa non attua la sua natura, la quale preesiste già alla relazione e da essa emana, ma si perfeziona nell’agire e dal punto di vista morale. Dipende dal libero arbitrio della persona avere o non avere date relazioni sociali.

Il fatto di averle è un fine al quale essa tende naturalmente o un’esigenza che sente, ma essa per motivi egoistici o per tendenze autistiche o individualiste o asociali o per carenze affettive, può volontariamente o involontariamente evitare di attuarle o perseguirle o può praticarle male, benché in ogni caso per vivere essa non possa fare a meno di qualche relazione sociale.

La volontà come facoltà della persona

In Dio come in ogni entità personale bisogna distinguere l’essere dall’agire, benché tale distinzione in Dio non sia reale come in noi ma solo nozionale o secondo il nostro modo di pensare e di esprimerci. Infatti in Dio essere e agire, essere e volere, necessità e libertà, necessario e contingente, possibile ed attuale coincidono in forza dell’unità semplicissima della sua natura.

Ma ciò non toglie affatto che, benché l’atto del volere in Dio sia unico, atemporale ed eterno, gli effetti di questo atto che sono i moti di tutte le creature nello spazio e nel tempo, nonché gli eventi e i voleri di tutte le persone create con i loro relativi effetti non siano infinitamente molteplici e distinti in successione e simultaneità.

Solo del male morale, il peccato, Dio non è la causa, essendone responsabile solo il peccatore; ma lo stesso atto del peccato nel suo aspetto ontologico è causato e voluto da Dio, che però resta innocente, non avendo voluto il peccato come tale.

Pertanto gli attributi divini ontologici sono distinti da quelli operativi. I primi riguardano l’essenza stessa o natura divina e quindi non possono assolutamente essere assenti, come l’essere sussistente, l’infinità, l’immutabilità, l’eternità, onnipotenza, l’intelletto e la volontà, tanto che essi s’identificano tutti tra di loro nell’unico essere divino e si distinguono solo concettualmente.

Invece gli attributi operativi, che riguardano l’esterno di Dio, quindi non riguardano la sua essenza, ma il creato, si pongono sul piano della contingenza, e potrebbero anche non esistere. Tra questi, la giustizia e la misericordia, virtù che avendo rapporto col mondo, se Dio non avesse creato il mondo, evidentemente non esisterebbero e non per questo verrebbe tolto qualcosa alla natura divina.

La Bibbia presenta l’agire divino nei riguardi dell’uomo in modo antropomorfico, come quello di un sovrano che compie nel tempo e nello spazio una molteplicità di atti a quel tale di giustizia, a quel tal altro di misericordia. Oppure nella stessa persona o nello stesso popolo fa succedere una serie di atti ora di giustizia, ora di misericordia.

Ora dobbiamo tener presente che in Dio l’essere coincide col volere e con gli atti della stesso volere. Siccome però Dio è assolutamente uno, gli atti divini sono presentati dalla Scrittura come molteplici non in relazione a Dio, dove tutto è uno, ma in relazione alle creature, alle quali gli atti sono riferiti dalla Scrittura. Se per esempio la Scrittura narra che Dio affondò nel mare l’esercito egiziano e consentì ad Israele di attraversare il mare all’asciutto, questo non vuol dire che Dio abbia compiuto un atto per gli Egiziani e un altro atto per Israele, come faremmo noi, ma Dio nell’atto puro del suo essere sussistente contiene già dall’eternità virtualmente, identici alla sua divinità, tutti gli effetti della sua causalità efficiente creatrice di tutti i fatti, gli eventi e gli atti delle creature  che crea e muove al loro fine che è Egli stesso.

La volontà divina ha tre modi o livelli di attuazione. Dobbiamo distinguere una volontà ponente, per la quale Dio vuole ciò che é bene ontologicamente e moralmente, sia il premio o bene assoluto che il castigo o male di pena; una volontà impediente, con la quale, quando vuole, impedisce o toglie il male di colpa o di pena, e la volontà non impediente, con la quale vuole non impedire il peccato.

A questo riguardo, la Scrittura sembra contenere una contraddizione. Da una parte, infatti essa dice che Dio, «quando apre, nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3,7) e che nessuno può opporsi alla sua volontà (II Cr 20,6; Ed 10,15; Sap 11,21; 12,12), ma dall’altra, ammettendo la possibilità e realtà del peccato, ammette che il peccatore impedisca al volere o comando divino di attuarsi. Il peccatore fa il male che Dio non vuole. E dunque qui il volere divino non si realizza, è frustrato.

Occorre allora distinguere un volere divino assoluto e incondizionato, che Tommaso chiama «conseguente»[1], da un volere divino condizionato e relativo, «antecendente»: nel suo piano originario Dio non ha voluto il male di pena, ma posto che la creatura ha peccato, si è visto obbligato, potremmo dire metaforicamente, «a malincuore», a punire la colpa per ragione di giustizia, in quanto il delitto merita  il castigo, che peraltro dev’essere giusto, ossia né eccessivo né  blando, ma mitigato dalla misericordia.

Tuttavia c’è da notare che nel contempo la punizione giusta, se non dà piacere al punito, dà piacere a colui che punisce e a coloro che vedono questo atto della giustizia divina. Il marito di una donna uccisa da un malvivente non può che vedere con soddisfazione che questi sia stato assicurato alla giustizia ed abbia la punizione che si merita. Così Tommaso dice che i beati del paradiso vedono con piacere il castigo dei dannati, non nel senso che godono della loro sofferenza, il che sarebbe crudeltà, ma in quanto in loro, si è attuata la giustizia divina[2].

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 aprile 2025

 

La persona umana è l’individuo di una specie: la specie umana, che ha sotto di sé molti individui. La persona divina è la stessa natura divina, che non è un universale che contenga una molteplicità di individui come avviene in noi, che distinguiamo una natura umana individuale dalla natura umana specifica.  Dio non è un universale che abbia sotto di Sé degli individui, sennò saremmo nel politeismo.

L’uomo, quando genera, trasmette certo la natura umana al figlio, ma individualizzata, in modo che la natura individuale del figlio è diversa da quella del padre.  Il Padre celeste, invece genera il Figlio della stessa natura singola del Padre, una di numero, dove non c’è distinzione fra individuo e specie, ma la specie stessa è individuo, cosa, questa, che avviene già negli angeli, con la differenza che nell’angelo l’esistenza è distinta dall’essenza, per cui gli angeli sono molti con diverse essenze specifiche, e quindi diverse esistenze, mentre in Dio esistenza ed essenza coincidono, per cui in Lui individuo, specie ed essere sono una stessa cosa.

In Dio come in ogni entità personale bisogna distinguere l’essere dall’agire, benché tale distinzione in Dio non sia reale come in noi ma solo nozionale o secondo il nostro modo di pensare e di esprimerci. Infatti in Dio essere e agire, essere e volere, necessità e libertà, necessario e contingente, possibile ed attuale coincidono in forza dell’unità semplicissima della sua natura.

Solo del male morale, il peccato, Dio non è la causa, essendone responsabile solo il peccatore; ma lo stesso atto del peccato nel suo aspetto ontologico è causato e voluto da Dio, che però resta innocente, non avendo voluto il peccato come tale.

 Immagini da Internet: Santissima Trinità, Masaccio


[1] Opuscolo De Veritate, q.23, a2.

[2] Sum.Theol., Suppl., q.94,a.3.

9 commenti:

  1. Caro Padre, volevo farle una domanda a riguardo della seguente affermazione nell'articolo: "Solo del male morale, il peccato, Dio non è la causa, essendone responsabile solo il peccatore; ma lo stesso atto del peccato nel suo aspetto ontologico è causato e voluto da Dio, che però resta innocente, non avendo voluto il peccato come tale." Vuol dire che Dio ci lascia il libero arbitrio di peccare, quindi la sua volontà non impedisce il peccato? In questo senso il peccato è voluto e causato sul piano ontologico da Dio?
    La ringrazio fin d'ora per la sua risposta e le assicuro una preghiera., Giuseppe

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    1. Caro Giuseppe, Dio causa gli atti umani nel loro aspetto ontologico e nel loro aspetto morale di bontà, mentre l'aspetto morale di malizia è causato solo dall'uomo. Quindi Dio non è assolutamente causa del peccato in quanto atto morale dell'uomo. La causa è solo l'uomo. Invece, quando l'uomo compie un atto buono, esso è causato da Dio come Causa prima, sia nella sua entità ontologico-psicologica che nella sua bontà morale. Nel contempo l'atto buono è causato, come causa seconda, dall'uomo, mosso a sua volta da Dio Causa prima.
      Se qualche termine proprio della metafisica non le è chiaro, me lo dica, che glielo spiego.

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  2. Caro padre, la ringrazio molto per la risposta. Che la responsabilità morale di atti peccaninosi sia solo dell'uomo mi era chiaro. Non avevo capito, per mancanza mia s'intende, cosa volesse dire che lo stesso atto del peccatore è causato e voluto da Dio sotto l'aspetto ontologico. A questo punto posso dire che avevo capito male la frase, inquanto lei si riferiva agli atti non peccaminosi del peccatore, mentre per quelli peccaminosi la responsabilità è solo personale. È corretto? Mi perdoni, ma ho una formazione molto sbilanciata sulla parte scientifica e, con fatica, sto cercando di addentrarmi nella metafisica per approfondire la mia fede.
    Le auguro un buona Pasqua, Giuseppe

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    1. Caro Giuseppe,
      bisogna innanzitutto distinguere nella attività causale e motrice di Dio la causazione degli atti deterministici propri degli enti inferiori all’uomo, dalla causazione degli atti della volontà o atti liberi propri degli angeli e degli uomini.
      La questione degli atti morali buoni o cattivi riguarda solo gli atti del libero arbitrio dell’uomo e degli angeli.
      In questo campo come funziona la mozione o causalità divina? In altre parole, che cosa fa Dio? Bisogna distinguere gli atti moralmente buoni da quelli moralmente cattivi, cioè i peccati.
      A questo punto bisogna fare una distinzione importantissima: Dio, bontà infinita, vuole soltanto gli atti moralmente buoni e non vuole assolutamente gli atti peccaminosi. Per questo, se io compio un atto meritorio del paradiso, questo atto è mio, l’ho voluto io, ne sono responsabile. Tuttavia questo atto, siccome è mio di me creatura, è causato da Dio, causa prima di tutte le cose in quanto creatore.
      In che senso Dio causa un atto libero dell’uomo? Nel senso che Dio creando fa in modo che ogni cosa creata agisca secondo il suo modo d’essere e queste sono le cause seconde. Per esempio, muove il gatto ad agire come gatto, cioè in modo deterministico, cioè secondo il suo istinto di gatto. Invece Dio muove l’agire umano secondo il suo modo d’essere, che è l’agire libero, avendo dotato l’uomo delle facoltà spirituali della intelligenza e della volontà, per mezzo delle quali può scegliere tra un bene e un altro bene oppure tra un bene e un male oppure scegliere o non scegliere.
      In altre parole, Dio è il creatore di ogni ente che esiste. Egli lo conserva e lo governa rispettando e promovendo il suo modo di agire, proprio di ogni ente. Cioè fa agire l’atomo come atomo, la pianta come pianta, l’animale come animale, l’uomo come uomo e l’angelo come angelo.

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  3. Grazie infinite, ora mi è chiaro. Giuseppe

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  4. Dio è bontà infinita. Considerando che Dio se avesse voluto avrebbe potuto creare gli uomini tutti perfetti e anziché creandoci perfettibili e quindi dotati della libertà di scegliere il male, che poi tra l’altro viene scelto. Non potrebbe essere questa effettiva modalità di creazione attuata da Dio una limitazione all’infinità della sua bontà? E quindi solo creando tutti perfetti sarebbe stato effettivamente bontà infinita? Grazie Padre, come sempre. Francesco Orsi

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    1. Caro Francesco,
      la nostra fiducia nell’infinità della bontà divina deve farci pensare che Dio, volendo il male di pena e non volendo eliminarlo, come credeva Origene, deve avere avuto un motivo molto ottimo, che però a noi sfugge e che conosce solo lui. Certo noi ci domandiamo: Ma non sarebbe stato più buono se avesse tolto il male del tutto, perché lascia sussistere l’inferno? La Chiesa ha condannato Origine, perché credeva che Dio un giorno avrebbe eliminato tutto il male. Ripeto: poteva farlo. Ma perché non l’ha fatto? Non lo sappiamo.
      Ci verrebbe spontaneo di dire: Io al suo posto avrei tolto tutto il male. Però a questo punto chiediamoci: Vogliamo essere più buoni di Dio? Allora vediamo che ci dobbiamo fermare davanti a un mistero che Dio solo conosce e che non è necessario per noi svelare ai fini della nostra salvezza.
      Se la cosa fosse stata utile alla nostra salvezza, Cristo ce l’avrebbe rivelata, perché prima di tornare al Padre disse agli Apostoli che aveva rivelato tutto quello che il Padre lo aveva incaricato di dire.
      Secondo la Kabbala Dio è all’origine anche del male, ma questa è una bestemmia, perché Dio è Sommo Bene. Altri, soprattutto oggi, credono che Dio non sia onnipotente, per cui certe forme gravissime di male non riesce ad impedirle. Ma anche questo è una bestemmia.
      Dio vuole assolutamente l’esercizio del libero arbitrio dell’angelo e dell’uomo, e pertanto è pronto anche a rispettare la scelta del peccatore, mantenendolo in essere. Quindi qui noi vediamo come Dio risponda con la bontà e l’onnipotenza alla malvagità nei suoi confronti.

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  5. Con l’attuale conformazione dell’uomo, per cui Dio ha deciso liberamente di destinarlo al bene (felicità) alla condizione di impegnarsi per compiere opere a ciò finalizzate, e riservare il male (infelicità) ai disobbedienti, noi definiamo Dio Bontà Infinita;
    anche nell’ipotetica (non attuata da Dio) conformazione umana dove tutti gli uomini incondizionatamente sarebbero stati ammessi al bene (felicità) direttamente senza sottostare all’impegno di cui sopra, e quindi dove non ci sarebbe stata nessuna condizione di infelicità, Dio sarebbe stato ugualmente definito Bontà Infinita.
    Se questo che ho scritto o forse non è che una ripetizione della domanda precedente è vero (e le chiedo se è vero), in tutti e due casi Dio viene definito Bontà Infinita. Ma nel primo caso la realtà dello stato di infelicità dei disobbedienti mi sembrerebbe una limitazione rispetto allo stato in cui tutti sarebbero direttamente felici. O sbaglio?
    Potrei forse io stesso tentare una soluzione: l’effettiva scelta di una condizione di infelicità è realizzata dall’uomo che appunto la effettua e non da Dio. Per cui l’impegno richiesto all’uomo per essere felice è da ritenersi come un ostacolo superabile. Diventa limite e quindi limitazione alla Bontà Infinita di Dio ma la limitazione è realizzata dall’uomo e non da Dio. Funziona come soluzione? Grazie Padre! Francesco Orsi

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    1. Caro Francesco,
      teniamo presente che l’ostacolo per arrivare in paradiso propriamente non ce lo pone Dio, ma è un dato oggettivo, ossia una conseguenza del peccato originale.
      Per quanto riguarda quello che può fare l’uomo, non si può dire che egli possa porre un limite all’infinita bontà di Dio, perché tale bontà è espressione della sua onnipotenza e se noi potessimo limitare questa onnipotenza, vorrebbe dire che noi abbiamo potere su Dio, cosa assolutamente inammissibile.
      Il fatto dunque che qualcuno si danni non dipende dal fatto che costoro pongano un limite alla bontà divina, ma dipende semplicemente dal fatto che essi volontariamente e colpevolmente disobbediscono a Dio.
      Per quanto riguarda il fatto che non tutti si salvano, mi sembra che tu interpreti questo fatto come se i malvagi potessero limitare la bontà divina. Ti ho già spiegato che questo non può accadere.
      A questo punto, ragionando come tu ragioni, potresti cadere nella tentazione che se Dio avesse salvato tutti, poteva mettere in atto tutta la sua onnipotenza e quindi avrebbe realizzato maggiormente la sua bontà.
      Fai molta attenzione, perché questa è una brutta tentazione, perché tu corri il pericolo di ritenere che Dio sarebbe stato più buono se avesse salvato tutti. Ora invece la fede ci dice che Dio ha voluto non impedire il peccato, pur avendolo potuto fare. Questo vuol dire che così facendo sia stato meno buono? No, se Dio, che è bontà infinita e si è comportato così, vuol dire che è meglio così, anche se non sappiamo il perché.
      Dio manifesta pienamente la sua bontà infinita con la Redenzione, realizzata da Nostro Signore Gesù Cristo per tutti gli uomini, Redenzione che ci fa figli di Dio e destinati al paradiso. Solamente coloro che rifiutano la salvezza della Redenzione non possono entrare in paradiso.

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