La transustanziazione eucaristica come principio della comunione ecclesiale

 

 

La transustanziazione eucaristica

come principio della comunione ecclesiale

 

L’espressione appropriata di un mistero ineffabile di salvezza

La ricerca di parole adatte per esprimere, interpretare, spiegare e chiarire quanto Gesù disse e fece nell’Ultima Cena relativamente al pane e al vino, che collegò al suo corpo e al suo sangue, parlando di «Alleanza», ha avuto una storia di secoli. Essa è narrata in forma riassuntiva da Mons. Antonio Piolanti alla voce corrispondente nell’Enciclopedia Cattolica. Qui basterà ricordare alcuni punti principali che riguardano i pronunciamenti della Chiesa.

Il Concilio di Trento dice che la conversione del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore nel sacrificio della Messa è espressa in modo adattissimo (aptissime) col termine «transustanziazione» (transubstantiatio) (Denz. 1659).  Il termine è ufficializzato per la prima volta nel Magistero della Chiesa dal Concilio Lateranense IV del 1215, che si esprime così:


«Una sola è la Chiesa universale dei fedeli, al di fuori della quale nessuno assolutamente si salva, nella quale lo stesso e medesimo è sacerdote e sacrificio, Gesù Cristo, il cui corpo e sangue nel sacramento dell’altare è veramente contenuto sotto le specie del pane e del vino, transustanziati per potere divino, il pane nel corpo e il vino nel sangue, affinchè noi riceviamo da Lui ciò che Egli riceve da noi, perché si compia il mistero dell’unità» (Denz.802).

 

Nel 1965 San Paolo VI nell’enciclica Mysterium fidei ricordò il dogma della transustanziazione correggendo alcune vedute distorte:

 

«Non è lecito insistere sulla ragione di segno sacramentale come se il simbolismo, che tutti certamente ammettono nella Santissima Eucaristia, esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo Sacramento; o anche discutere del mistero della transustanziazione senza far cenno della mirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue di Cristo, conversione di cui parla il Concilio di Trento, in modo che essi si limitino soltanto alla “tran significazione” e “trans finalizzazione” come dicono; o finalmente proporre e mettere in uso l'opinione secondo la quale nelle Ostie consacrate e rimaste dopo la celebrazione del sacrificio della Messa Nostro Signore Gesù Cristo non sarebbe più presente».

Ricordiamo allora che affinchè il sacerdote possa celebrare validamente la Messa, ossia celebrare una vera Messa, occorre che creda nel suo potere sacerdotale, che comporta due cose: il potere di operare la transustanziazione eucaristica e il potere di offrire al Padre nello Spirito Santo in Persona di Cristo il santo Sacrificio, ossia il sacrificio espiatorio e soddisfattorio di Cristo, Vittima divina realmente presente nell’Eucaristia sotto le specie del pane e del vino.

Il sacerdote, compiuto l’atto di offerta al Padre del pane e del vino transustanziati, imbandisce poi la mensa eucaristica e distribuisce a coloro che ne sono degni e sono preparati il cibo e la bevanda di vita eterna, che nutre e santifica la Chiesa col corpo e il sangue del Signore.

Occorre ricordare anche che Cristo ha voluto che la Messa fosse celebrata in comunione con Pietro suo vicario in terra, perché la Messa edifica ed esprime l’unità della Chiesa non solo come puro e semplice insieme di persone, ma come fratelli che si amano e che sono in comunione fra di loro e con Pietro, Successore di Cristo. Per questo la Messa degli scismatici è valida, ma manca della essenziale funzione di esprimere ed incrementare la concordia, la comunione e la carità ecclesiale nella comunione col Successore di Cristo.

Non parliamo poi di quella concezione della memoria dell’Ultima Cena o dell’assemblea eucaristica propria dei luterani e dei modernisti, per la quale Cristo sarebbe presente non sotto le specie del pane e del vino, ma nello stesso pane e vino, restando pane il pane e vino e il vino.

Ma allora a questo punto ci domandiamo che bisogno c’è di utilizzare un altare , un tempio, oggetti sacri, inginocchiatoi, vesti liturgiche, riti speciali, se tutto si risolve in un allegro banchetto? Tanto vale trovarsi in un’osteria in una bella tavolata, fra amici, con pollo arrosto e con buon vino, inneggiando a Cristo e alla fraternità: Cristo non è presente anche lì?

La Chiesa nasce dall’eucaristia e l’eucaristia nasce dalla Chiesa

Una cosa molto importante da comprendere è il nesso che esiste fra sacerdote, Messa, eucaristia e Chiesa. Cristo ha reso gli uomini partecipi del suo sacerdozio in due modi: all’ultima Cena ha istituito il potere sacerdotale di confezionare e amministrare l’eucaristia e quindi di dir Messa; a Pietro e agli apostoli ha dato e dà il potere sacerdotale di edificare e governare la Chiesa.

La Chiesa dunque è nata dal sacerdozio; ma una volta costituita, essa a sua volta è la comunità che genera e forma i sacerdoti che a loro volta col loro ministero fondano e governano nuove comunità, alimentano, diffondono ed accrescono la Chiesa.

L’eucaristia, per opera del sacerdote che in persona di Cristo a gloria del Padre celebra la Messa nella potenza dello Spirito Santo, come presidente dell’assemblea eucaristica, profezia e prefigurazione del banchetto messianico, in comunione col popolo santo di Dio e col suo pastore il Romano Pontefice, Vicario di Cristo Re, Sacerdote e Profeta, a nome del popolo santo di Dio e per il popolo santo di Dio, che è la Chiesa, è ad un tempo effetto, garanzia, segno e principio della comunione ecclesiale e dell’unità, cattolicità, apostolicità e santità della Chiesa, dell’unione dei fedeli nella carità, in un solo spirito e in un solo corpo, che è il corpo mistico di Cristo, la Chiesa sposa di Cristo, madre dei redenti e dei santi e immagine della Gerusalemme futura.

La questione della sostanza

La parola transustanziazione mette in gioco evidentemente la nozione di sostanza. Si tratta di una nozione primitiva spontaneamente nota, comune e intuitiva: la sostanza è un singolo ente, un qualcosa di sussistente, completo e consistente, soggetto di proprietà, qualità o accidenti particolari, normalmente oggetto dei sensi, mentre la sostanza come tale sfugge al senso e si presenta come un qualcosa di puramente intellegibile. L’animale coglie la sostanza materiale, per esempio il cibo, ma l’afferra solo in quanto si cela sotto le qualità sensibili.

Tuttavia la sostanza, ad un più attento esame e sottoposta ad un’indagine conoscitiva o ad un approfondimento, appare un tema molto difficile, inesauribile e misterioso. Essa si rivela come l’essenza (usìa) della cosa, quella che Aristotele chiamava sostanza seconda, mentre la sostanza prima è il singolo ente.  Questa nozione oltrepassa la ragione e appare oggetto di divina rivelazione, come dimostra la dogmatica cristiana, che usa appunto la categoria della sostanza e dell’accidente, per illuminare i misteri della fede.

Resta comunque effettivamente la difficoltà di concepirla per chi trova ardua l’indagine intellettuale della realtà. Infatti nessun problema offre la comprensione della sostanza materiale, come per esempio la sostanza chimica o la sostanza economica, mentre di difficile comprensione appare la sostanza spirituale o quella in senso logico, come per esempio la sostanza di un discorso o di un ragionamento.

La considerazione della sostanza tocca il suo massimo fastigio, quando la ragione, passando dalla sostanza finita e causata si eleva all’affermazione della sostanza divina, infinita ed assoluta. Ed è così che il Concilio Vaticano I definisce l’essenza divina come «una, singularis, simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis» (Denz. 3001).

La questione della sostanza ha a che fare con l’essenza della realtà, con quella che è l’essenza o natura di una cosa, con ciò che in essa vi è di necessario e di contingente, con ciò che in essa vi è di essenziale ed accidentale.

Essa mette in gioco la questione del rapporto fra il singolare e l’universale, fra l’astratto e il concreto, fra l’attuale e il possibile, fra l’esistente e il non-esistente, tutti temi, problemi ed interessi che toccano il campo della metafisica e della logica.

La questione della sostanza è legata alla questione del rapporto dell’essere col divenire, fra il sussistere e l’inerire, fra ciò che muta e ciò che non muta, fra ciò che appare e ciò che è nascosto, fra il sensibile e l’intellegibile, del rapporto dell’essenza con la sua esistenza, del semplice col composto, fra l’uno e i molti, fra la parte e il tutto, l’essere e l’agire, del relativo con l’assoluto, il rapporto del fondamento col fondato, fra il supporto e il supportato. Mette in gioco la distinzione fra la potenza e l’atto, fra l’essenza e l’essere, fra la materia e la forma, fra il vivente e il non-vivente, fra il naturale e l’artificiato, fra l’anima e il corpo, fra il corpo e lo spirito, fra Dio e il mondo: tutti problemi che toccano la metafisica.

La questione della sostanza, dunque, è di una complessità sconfinata e,  per quanto tocchi tutte le discipline filosofiche dalla logica all’antropologia alla morale alla cosmologia, viene adeguatamente illustrata e focalizzata soltanto dall’analisi metafisica, in quanto la sostanza è l’ente che è atto ad esistere o a sussistere in sé e non in altro, è il soggetto primo degli accidenti e delle sue proprietà, ed è il soggetto primo logico del quale si parla. Alla sostanza e all’accidente nella realtà corrisponde nel linguaggio il sostantivo e l’aggettivo.

La transustanziazione entra nella categoria del mutamento

Il sacerdote che transustanzia il pane e il vino nel corpo e nel sangue del Signore opera un mutamento nella realtà che va oltre le forze della natura ed è solo effetto dell’onnipotenza divina. Infatti il potere causativo o produttivo o mutatore della creatura può arrivare fino a dar forma sostanziale alla materia prima, ossia alla materia informe, come avviene nella generazione del vivente, composto di anima e corpo, un atto per il quale il genitore, utilizzando il principio di vita che risiede nell’organo genitale, fa sì che l’anima del generato, cioè del figlio, dia vita al suo corpo. Da precisare che nella generazione umana il genitore fornisce solo il corpo, mentre l’anima è creata immediatamente da Dio.

Più limitato è il potere mutatore dell’artista o dell’artefice, il quale dà una forma accidentale o un certo ordine accidentale ad una presupposta sostanza materiale con la sua forma sostanziale. Ancora più limitata è l’azione fisica e chimica delle sostanze o energie naturali inanimate, che è quella di comporre o separare particelle elementari attivando le loro energie.

Indubbiamente esiste anche l’attività mutatrice dello spirito, dell’anima umana e dell’angelo. Ma anche qui si dà sempre o una materia o una persona presupposte, le quali vengono mutate per l’azione dello spirito, ma senza che lo spirito possa spingere il suo influsso al di là di un mutamento dell’azione del soggetto sul quale lo spirito opera.

La transustanziazione viceversa assomiglia all’attività divina creatrice, la quale non opera su di un soggetto preesistente, ma opera senza presupporre niente, perché crea dal nulla ciò su cui opera. Non è infatti solo la forma che sostituisce la forma precedente nella medesima materia o nel medesimo soggetto, ma quando il sacerdote nella Messa opera la transustanziazione, converte un’intera sostanza, materia e forma in un’‘altra sostanza, facendo sì che una sostanza diventi un’altra sostanza, un potere divino che evidentemente il sacerdote possiede solo in forza della sua ordinazione.

La transustanziazione è dunque un mutamento ontologico di una tale radicalità che non si trova in natura. Qui possono cambiare gli accidenti e la sostanza restare la stessa. Può mutare la sostanza nel senso che cambia la forma, ma la materia resta. Se per esempio il legno bruciando diventa cenere, certo cambia la sostanza, ma entrambe le forme hanno la medesima materia, perchè quella materia che prima aveva la forma del legno, poi assume la forma della cenere. Ma la proprietà della transustanziazione è che ciò che muta non è la sola forma, ma l’intera sostanza composta di materia e forma. Ma la cosa stupefacente e miracolosa è che in questa mutazione, una sostanza si muta in un’altra senza che tra le due vi sia alcuna materia comune.

Diciamo allora che ai fini di un chiarimento della questione che c’interessa, bisogna che puntiamo l’attenzione sulla distinzione fra sostanza e accidenti. Dobbiamo capire le ragioni e la portata ontologica di questa distinzione. Essa riguarda solo la sostanza creata, perchè Dio, come abbiamo visto dal Concilio Vaticano I, è purissima e sola sostanza senza accidenti.

Sostanza e accidenti

La sostanza è l’ente reale nel senso principale, forte e consistente. L’accidente è un’aggiunta perfettiva alla sostanza, la quale pertanto suppone l’imperfezione della stessa sostanza, perché esso la perfeziona, la quantifica, la qualifica, la temporalizza e spazializza, ne consente e causa il divenire, la determina nella sua singolarità, identità, concretezza o individualità, la distingue dalle altre e la mette in relazione con le altre. Invece Dio, nella semplicità del suo essere identico alla sua essenza ed alla sua sostanza, possiede in atto infinitamente tutte le perfezioni e s’identifica con esse nell’unità del suo essere.

È impossibile secondo l’andamento od ordinamento ordinario della natura, l’esistenza di una sostanza creata senza i suoi accidenti, benchè essi siano da lei realmente distinti. E così pure è impossibile un insieme di accidenti o qualità che sussista da solo senza il supporto della sostanza della quale sono accidenti.

I due rischi nel concepire la sostanza sono o quello di non ammettere che possa esistere una sostanza senza i suoi accidenti e che quindi non possano esistere accidenti senza la sostanza.  Oppure l’altro rischio è quello di risolvere la sostanza negli accidenti, come fanno gli empiristi, per esempio Berkeley, Locke ed Hume, sicchè la sostanza intesa come un nucleo ontologico che farebbe da supporto agli accidenti da esso distinti, non esiste, ma essa non sarebbe altro che la collezione degli accidenti.

Altro errore circa la sostanza è l’identificazione della sostanza con lo spirito, come fanno Leibniz e Berkeley, Hegel e gli idealisti tedeschi fino a Gentile, Husserl, Heidegger, Severino e Bontadini, oppure con la materia come fanno Hobbes, Gassendi, Lamettrie, D’Holbac,  Spencer, Comte, Darwin, Moleschott, Büchner, fino a Marx e in generale i materialisti di tutti i tempi da Democrito ai sadducei dei tempi di Cristo a Teilhard de Chardin, a Freud, a  Margherita Hack e a Piergiorgio Odifreddi.

Oppure è quello di concepire una visione della realtà o una metafisica che non tiene conto della distinzione reale fra sostanza e accidente, come le metafisiche idealiste sorte dopo Hegel, il quale sentenziò che «la filosofia moderna ha sostituito la sostanza col soggetto», cioè l’ente col cogito cartesiano.

L’accidente è ciò che di qualcosa appare immediatamente ai sensi, ma può essere anche una qualità o un abito o una potenza intellegibile che si aggiunge alla sostanza o all’essenza di un ente. Per esempio l’atto d’essere non è essenziale all’essenza dell’ente creato, ma Dio, nell’atto del crearlo, lo aggiunge come perfezione contingente.

L’accidente è ciò che in una sostanza, ci sia o non ci sia, la sostanza resta la stessa, a meno che non sia un accidente essenziale e necessario all’essenza, nel qual caso abbiamo una proprietà essenziale. Per esempio, il vivere o non vivere non è essenziale alla natura umana, che è concepibile quand’anche nessun uomo esistesse, altrimenti ogni uomo sarebbe immortale: il che non è. Invece il possesso della ragione si aggiunge come potenza alla natura umana; ma essa non sarebbe umana senza la ragione.

Certamente il fatto che un certo soggetto ragioni mostra che è una persona umana. Eppure anche un demente è una persona umana. L’atto del ragionare dunque si aggiunge accidentalmente, pur essendo il poter ragionare una proprietà essenziale della persona. Ma se dovessimo risolvere l’identità della persona nel fenomeno del ragionare, è chiaro che verremmo a misconoscere la dignità umana del demente.

Ora, San Pio X nell’enciclica Pascendi condanna sotto il nome di «fenomenismo» precisamente questo modo errato di concepire gli accidenti della persona umana, che fa coincidere ciò che appare di essa con l’essenza stessa della persona che appare, negando che essa possa preesistere al suo manifestarsi ed essere oltre il suo apparire, ossia nella realtà esterna alla coscienza che la percepisce.

Per questo nella Pascendi troviamo anche implicitamente la condanna anticipata di questo aspetto idealistico della fenomenologia di Husserl, che egli stava elaborando proprio in quegli anni nei quali Pio X pubblicava la Pascendi.

L’opposizione di Lutero al dogma della transustanziazione dipese dal fatto che egli aveva preso da Ockham il suo concetto di sostanza. Infatti per Ockham la sostanza non è un’essenza universalizzabile distinta dall’essenza universalizzabile dell’accidente, così che siano concepibili accidenti senza la sostanza o sostanza senza accidenti, ma essa è per Ockham ente singolo inseparabilmente composto di sostanza e accidenti. Per questo per Lutero dopo la consacrazione, il pane resta pane con la sola precisazione che in esso sarebbe realmente presente Cristo.

Lutero ammetteva la presenza reale di Cristo sulla mensa eucaristica, e la difese aspramente contro Calvino, che invece ammetteva una presenza semplicemente simbolica o di segno. Ma Lutero non seppe rinunciare a vedere ancora il pane., Perciò i protestanti parlano o di «impanazione» o di «consustanziazione», senza rendersi conto dell’assurdità di ammettere che il pane possa essere Cristo, e confondendo il pane con Cristo o ammettendo che Cristo sia nel pane come fosse un accidente della sostanza del pane. Per questo, per Lutero l’adorazione eucaristica è idolatria del pane, perché secondo lui, finito il rito della Cena, Cristo toglie la sua presenza e il pane resta semplice pane.

D’altra parte, se il dogma parla della sostanza del pane, è chiaro che questo termine non va preso nel senso filosofico che ho esposto sopra, ma nel senso popolare, giacchè propriamente parlando il pane è un aggregato di sostanze artificialmente composto. Ed è chiaro che quando la Chiesa parla della sostanza del pane intende semplicemente il pane.

Nel contempo non c’è bisogno di essere dei filosofi per accorgersi che il sapore, il colore o il peso e le dimensioni del pane appartengono al pane, ma non sono il pane. Per comprendere il significato del dogma la Chiesa non ci chiede altro che ciò che un semplice fanciullo può notare con la sua intelligenza. E per questo fatto è noto che San Pio X si fece promotore della Prima Comunione data ai fanciulli. Anche loro possono capire che cosa è la transustanziazione: la loro fede dice loro che dopo le parole del sacerdote ciò che c’è sull’altare sembra pane, ma non è più pane: è il corpo del Signore.

Il colore, il sapore dell’ostia consacrata sono il sapore e il colore del pane. Se non avessimo la fede e stessimo solo a quello che ci dice il senso, diremmo con sicurezza che vediamo del pane. Non è che il senso s’inganni. Il senso coglie il suo oggetto, non mente, non si sbaglia. È l’intelligenza che, se non ha fede, s’inganna.  La fede fa vedere ciò che l’intelligenza naturale non vede.  La fede ci dice che sotto queste apparenze, dette specie eucaristiche, il fanciullo sa per fede che c’è il corpo del Signore, accompagnato dal suo sangue, dalla sua anima e dalla sua divinità.

Il mistero della transustanziazione ci dice che quando facciamo la Comunione noi mangiamo certo fisicamente le specie del pane, ma non mangiamo del pane: mangiamo la carne di Cristo; non beviamo del vino, ma il sangue di Cristo. C’è dunque un mangiare e un bere spirituali che vanno al di là del mangiare e bere fisico, e che rappresentano, producono e accrescono, se siamo ben disposti, la nostra incorporazione a Cristo, il nostro essere Chiesa e appartenere alla Chiesa, il nostro essere in Cristo e con Cristo, partecipi della sua stessa vita divina, così che possiamo dire con San Paolo: «non son più io che vivo, ma Cristo vive in me».

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 24 giugno 2025


Il mistero della transustanziazione ci dice che quando facciamo la Comunione noi mangiamo certo fisicamente le specie del pane, ma non mangiamo del pane: mangiamo la carne di Cristo; non beviamo del vino, ma il sangue di Cristo. C’è dunque un mangiare e un bere spirituali che vanno al di là del mangiare e bere fisico, e che rappresentano, producono e accrescono, se siamo ben disposti, la nostra incorporazione a Cristo, il nostro essere Chiesa e appartenere alla Chiesa, il nostro essere in Cristo e con Cristo, partecipi della sua stessa vita divina, così che possiamo dire con San Paolo: «non son più io che vivo, ma Cristo vive in me».

Immagine da Internet 

2 commenti:

  1. Caro padre, mi permetto di farle una domanda e di sottoporla alla sua benevolenza.
    Lei dice che: "Tuttavia la sostanza, ad un più attento esame e sottoposta ad un’indagine conoscitiva o ad un approfondimento, appare un tema molto difficile, inesauribile e misterioso. Essa si rivela come l’essenza (usìa) della cosa, quella che Aristotele chiamava sostanza seconda, mentre la sostanza prima è il singolo ente. Questa nozione oltrepassa la ragione e appare oggetto di divina rivelazione, come dimostra la dogmatica cristiana, che usa appunto la categoria della sostanza e dell’accidente, per illuminare i misteri della fede."

    Non mi spiego come può essere che se la nozione di sostanza è stata spiegata da Aristotele, lei dica che è oggetto di rivelazione.
    Qualsiasi aiuto per capirlo sarà gradito.

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  2. "Il mistero della transustanziazione ci dice che quando facciamo la Comunione noi mangiamo certo fisicamente le specie del pane, ma non mangiamo del pane: mangiamo la carne di Cristo; non beviamo del vino, ma il sangue di Cristo. C’è dunque un mangiare e un bere spirituali che vanno al di là del mangiare e bere fisico, e che rappresentano, producono e accrescono, se siamo ben disposti, la nostra incorporazione a Cristo, il nostro essere Chiesa e appartenere alla Chiesa, il nostro essere in Cristo e con Cristo, partecipi della sua stessa vita divina, così che possiamo dire con San Paolo: «non son più io che vivo, ma Cristo vive in me»."

    Per questo, caro padre Giovanni, come dice padre Andereggen nella conferenza di cui gli ho parlato in questi giorni, dice che la comunione eucaristica sacramentale è sacramento della comunione spirituale, che è il fine della comunione sacramentale. E anche, di conseguenza, è un errore suggerire la comunione spirituale a chi non può comunicarla sacramentalmente.

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