Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Seconda Parte (2/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Seconda Parte (2/5)

 Che cosa si deve intendere per «filosofia moderna»?

 Il significato è ovvio: la filosofia di oggi, che si suppone più avanzata di quella di ieri, così come si parla della fisica moderna, della medicina moderna, della tecnica moderna. Chi preferirebbe qui l’antico al moderno? Nessuno. A questo punto i cartesiani, con abile mossa propagandistica, fin da subito dopo la morte di Cartesio, per accreditare la fama e l’autorità dell’amato maestro, si sono dati un enorme da fare con ogni mezzo per far credere al pubblico, alla stessa famiglia dei filosofi e all’intera umanità che Cartesio era il fondatore della filosofia moderna.

I cartesiani intendono la loro filosofia come passaggio epocale, definitivo e irreversibile dell’umanità o della ragione umana dal sapere apparente a quello reale, dalla antica ed ingenua concezione della realtà alla concezione matura e critica. Secondo loro prima di Cartesio nessuno poteva affermare nulla con certezza, ma tutto era dubitabile e l’umanità era priva del criterio della verità.

Cartesio nella storia dell’umanità ha finalmente scoperto nel cogito il principio e criterio sicuro della verità e del sapere, cosicchè oggi, valendoci del cogito cartesiano, siamo usciti per sempre dall’ingenuo realismo scolastico greco-medioevale, possiamo procedere nella certezza che Dio è con noi e in noi, sicuri in un progresso continuo e infinito nel campo di tutte le scienze in vista di un’eterna felicità.

E per loro chi restasse fermo alla concezione precedente del sapere è una persona rimasta indietro, con una mente immatura, incapace di rigore critico e di comprendere il valore universale ed insostituibile della «filosofia moderna». I modernisti erano stregati da questa allucinazione e sostenevano che la Chiesa, se voleva essere all’altezza dei tempi, doveva adottare la cosiddetta filosofia moderna.

Occorre dire, per la verità, che, se da una parte la Pascendi colpiva bene gli errori dei modernisti, non riconosceva quanto di buono c’era nella loro istanza innovatrice. Per questo avvenne che la reazione cattolica verso di loro fu a volte esagerata e furono colpiti anche innocenti, come per esempio il Padre Lagrange, il Card. Ferrari e il Padre Juan Arintero.

Resta comunque il fatto che i cartesiani hanno messo un tale impegno nella opera di mistificazione del significato terminologico di filosofia moderna, che, servendosi di propagandisti efficaci, e accontentando la nostra propensione all’astuzia intellettuale, abbondantemente soddisfatta dal metodo cartesiano, sono riusciti a imporre la denominazione di «filosofia moderna» persino agli storici della filosofia, i quali, parlando di filosofia moderna, intendono la filosofia cartesiana.

Ma dirò di più: fino all’epoca del Concilio Vaticano II persino i critici tomisti di Cartesio, senza accorgersi di darsi la zappa sui piedi, dichiaravano di opporsi alla «filosofia moderna», intendendo quella cartesiana, a sostegno degli «antichi», cioè Aristotele, Tommaso e Gesù Cristo, facendo la figura di indietristi, quando invece, come notò il Maritain, San Tommaso, ben lungi dall’appartenere al passato, è il profeta del futuro della filosofia, della teologia e della Chiesa.

Infatti è solo il passato che prepara il futuro, s’intende quel passato che è perenne, non certo il passato che è passato. Questo è il regno degli indietristi. Ma se vogliamo il vero progresso e non il modernismo, occorre che noi ci mettiamo in continuità con i sapienti che ci hanno preceduto, con la dottrina di Aristotele e di Tommaso, come la Chiesa ci esorta a fare da otto secoli. Dobbiamo assumere il patrimonio di verità sacre ed immutabili che ci viene presentato e trasmesso dai maestri della verità, quella che la Chiesa chiama sacra Tradizione apostolica.

La vera filosofia, il vero sapere è il rafforzamento e l’aumento di ciò che già sappiamo e sapeva chi ci ha preceduto. Vera filosofia, vera saggezza, vera conquista della verità è imparare da chi ne sa più di noi, credere a chi è credibile.

In filosofia può essere saggio e doveroso rifare daccapo un lavoro fatto da chi ci ha preceduto circa una questione particolare, lavoro deludente che non ha ottenuto i risultati sperati o promessi. È saggezza abbandonare una via che si mostra essere un vicolo cieco per raggiungere una data meta. Ma è stoltezza pretendere di mettere in dubbio o di rifare daccapo il criterio o principio stesso che usiamo e non possiamo non usare per giudicare dei risultati ottenuti o per valutare il risultato del lavoro fatto.

Di questo criterio o principio occorre semplicemente prendere atto e difenderlo con risolutezza contro chi lo nega, il quale, peraltro, così facendo, non fa altro che confutare se stesso. Pertanto esso non può essere sostituito né se ne può avere uno migliore, così come non si può avere nulla di migliore dell’ottimo, né nulla che stia prima del primo.

Sta qui la stoltezza di Cartesio: nell’aver voluto fare questo lavoro assurdo, nonostante il rimprovero della stessa ragione e della coscienza naturale, nonostante già Aristotele e Tommaso insieme con Cristo ci insegnino che non possiamo servire a due padroni e che dobbiamo distinguere il sì dal no.

Ricordiamo inoltre che cosa simile al moderno è il nuovo. Supponendo che il moderno e il nuovo costituiscano un progresso rispetto al precedente, è chiaro che occorre assumerli. Bisogna tuttavia intendersi sul concetto di «nuovo». In filosofia, come in ogni caso, bisogna distinguere il nuovo che sostituisce il vecchio e il nuovo che rinnova l’antico.

Al sentir parlare di «fondatore della filosofia moderna», come non sentirsi invogliati a conoscere questo genio incomparabile, questa luce delle nazioni? Ma poi che cosa i suoi sostenitori intendono con questo titolo? Moderna in che senso? Non nel senso che la filosofia precedente era meno avanzata, ma nel senso che prima di Cartesio la ragione umana aveva lavorato non nell’orizzonte della certezza, della scienza e della verità, ma dell’apparenza e dell’illusione.

Non dico Platone, non dico Aristotele, non dico la dottrina della Chiesa, non dico San Tommaso, i Santissimi Padri e Dottori, ma neppure i profeti e Gesù Cristo erano sicuri di conoscere con certezza la verità e di possedere la scienza, perché non erano in possesso del giusto metodo, che Cartesio ha offerto all’umanità avanzante a tentoni  col suo famoso Discorso sul metodo.

Come fu che Cartesio fondò la filosofia moderna

Il fascino di Cartesio sta nel fatto che egli sembra aver scoperto finalmente ed esaltare inconfutabilmente il potere del nostro pensiero e della nostra volontà, sembra darci la certezza della verità, il principio certo del sapere, nonchè farci conoscere la dignità della nostra coscienza e l’essenza della nostra libertà.

Da lui è nato l’idealismo tedesco del sec. XIX[1], che ancor oggi rivive nel modernismo, per cui, benché i tomisti abbiano dimostrato già nel secolo scorso la derivazione idealistica degli immensi disastri di quel tempo nel campo della società e delle persone, purtroppo l’idealismo tedesco continua ad avere successo. Da qui il pericolo che tali guai si ripetano, peggiori di quelli del passato ed irreparabili, stante l’esistenza di armamenti bellici molto più distruttivi di quelli del secolo scorso.

Correggere Cartesio non è un lavoro da indietristi, non è un tornare a una filosofia – il realismo – «precritica» rivelatasi falsa e illusoria, ma al contrario è salvare la civiltà, è dar prova di vero senso critico, è un tornare alla verità smarrita, per poter veramente progredire nella verità, altrimenti, rinnovandosi gli effetti del cartesianismo, ci troveremo ancor più nei guai.

Quello che quindi occorre ancor oggi ricordare è che Cartesio, con insana presunzione, stando alle sue stesse dichiarazioni, riteneva che tutta l’umanità che lo aveva preceduto, era priva di quel principio di certezza e di quel fondamento del sapere nonché del metodo per raggiungere la verità, che lui finalmente era venuto a stabilire col famoso cogito.

Raccontando infatti ciò che aveva constatato nei suoi studi a La Flèche prima della scoperta del cogito, Egli esordisce con questa definizione della filosofia: «la filosofia dà il mezzo di parlare con verosimiglianza di tutte le cose e di farsi ammirare dai meno dotti»[2]. Questa non è la filosofia, ma l’arte del sofista e dell’imbonitore e dell’esibizionista in cerca di successo.

Questo è semmai il ritratto che Cartesio fa del proprio filosofare, non certo del vero filosofare, che è indagine e dimostrazione razionale delle prime cause della realtà sulla base delle prime verità e i primi princìpi per sé evidenti della ragione, in vista dell’edificazione dell’opera perfetta della ragione, che è la conoscenza della causa prima, Dio. Leggiamo questa dichiarazione di Cartesio.

 

«Non dirò nulla della filosofia, Senonchè, vedendo che essa è stata coltivata dalle più elette menti che siano vissute da molti secoli in qua e che, nondimeno non vi si trovi ancora cosa alcuna sulla quale non si disputi e per conseguenza che non sia dubbia, ritenevo pressoché falso tutto ciò che era soltanto verosimile»[3] .

 Sono, queste, parole di un uomo di buon senso? Altra considerazione insensata:

 

«spesso non c’è tanta perfezione nelle opere composte di molti pezzi e fatte dalle mani di diversi maestri, quanta in quelle in cui vi ha lavorato uno solo»[4] .

Che sarebbe della filosofia se ci fermassimo al solo Aristotele e, per generazioni di pensatori non arrivassimo fino a San Tommaso? Che sarebbe della medicina se essa si fosse fermata a Ippocrate o della cosmologia se si fosse fermata a Tolomeo? Come sarebbe stata possibile l’Enciclopedia Treccani se non fosse stata prodotta da una poderosa schiera di collaboratori?

A seguito di questo arbitrario dubbio universale, Cartesio decide di disfarsi di tutte le sue convinzioni ed opinioni:

 

«non potevo far di meglio, una buona volta, di toglierle via per rimettervene in seguito delle altre migliori o anche le medesime, quando le avessi aggiustate a livello della ragione. E credetti fermamente che, con questo mezzo, sarei riuscito a regolare la mia vita assai meglio che se non avessi costruito che su vecchie fondamenta e non mi fossi appoggiato che sui princìpi dei quali mi ero lasciato persuadere nella mia giovinezza se mai avere esaminato se fossero veri»[5] (p.28).

Che proposito è mai questo? Mettere in dubbio tutti i princìpi della ragione e della fede e della morale? Per quale motivo? E come risolvere il dubbio? Su quali princìpi? Distruggere la ragione per rifarla daccapo? Che senso ha? Se dubiti della ragione, come fai a risolvere il dubbio se non adoperando la ragione? La stoltezza di simile idea è evidente.

Vediamo adesso un’altra perla:

 

«il mio disegno non si è mai esteso al di là di cercare di riformare i miei propri pensieri e di costruire su un fondamento tutto mio. Che, se essendomi molto piaciuta la mia opera, io ve ne mostro qui il modello, non è con questo che io voglia consigliare a nessuno di imitarla» (p.29).

È bello qui il tono di modestia, come se Cartesio volesse presentarci il modello di un suo cammino personale facoltativo verso il sapere, ma è solo falsa modestia, perché in realtà, da quello che dice nel contesto si vede benissimo che egli vuol mostrarci quello che egli ritiene essere il vero e certo metodo del sapere per la ragione umana come tale e non solo per la sua singola ragione, la via della verità per l’intera umanità, nel superamento dell’incertezza e dell’illusione invalsa ab immemorabili fino alla sua venuta nel mondo. E così giustamente lo hanno interpretato i suoi seguaci, i quali nella proposta cartesiana non hanno visto affatto il ritratto di una discutibile scelta personale, ma il cammino obbligatorio della ragione umana verso il vero, appunto la fondazione della «filosofia moderna».

Molto interessante anche questa dichiarazione. All’età di 41 anni, Cartesio, ritiene di essere ormai al corrente dei pareri in fatto di saggezza dei più grandi saggi dell’umanità. Ma nessuno lo soddisfa.  Dunque afferma:

 

«io non potevo scegliere nessuno le cui opinioni mi sembrassero dovere essere preferibili a quelle degli altri, e mi trovavo come costretto a cercare di guidarmi da me stesso»[6] .

Visto che nessuno prima di lui era riuscito a trovare la verità, si sente investito dell’immane compito di provvedere egli stesso a dare finalmente una base sicura alla filosofia.

Anche le asserzioni che nelle Meditazioni metafisiche preparano l’esposizione del cogito non sono meno infondate:

 

«possiamo dubitare generalmente di tutte le cose e particolarmente delle cose materiali, almeno fino a che non avremo altri fondamenti nelle scienze, che quelli che abbiamo avuto fin qui»[7].

Questa è un’asserzione falsa. Possiamo provare a farlo, ma per accorgerci immediatamente che è un’assurdità, giacchè questo dubbio suppone che abbiamo nella mente le cose, sappiamo che cosa sono le cose e che quindi esistono le cose fuori di no, attorno a noi e davanti a noi e indipendenti da noi. Quindi che senso ha dubitare di ciò che è evidente?

Troviamo poi in questo discorso un patente sofisma:

 

«Ho qualche volta provato che i sensi erano ingannatori; ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati» [8].

Ma come faccio ad accorgermi che in un dato caso i sensi si sbagliano, se non perché posseggo nel senso stesso il criterio per valutare che non sbaglia, ma mi dice quando sbaglio e  quanto ci prendo? Come faccio a sapere che mi sbaglio quando vedo il bastone nell’acqua spezzato? Semplicemente tirandolo fuori dall’acqua. È lo stesso senso che si accorge quando sbaglia. Se voglio sapere se una sensazione è giusta o sbagliata, devo far uso più attento del senso.

La famosa ipotesi del «genio maligno» è assurda. Pensiamo pure all’ipotesi peggiore, questa senz’altro possibile, che può avvicinarsi a quella cartesiana, ed è quella dell’inganno del diavolo. Tale inganno può effettivamente capitare. Esso però non riguarda il sapere speculativo, ma le decisioni e la certezza morali. Il diavolo può farci apparire come buona una decisione in realtà imprudente o peccaminosa. Ma adesso il nostro problema non è quello della bontà del giudizio morale, ma della verità dei sensi e dell’intelletto, dove non c’è nessun diavolo, nessun «genio maligno» che tenga.

Ma si potrebbe aggiungere a questo punto, ammessa e non concessa l’eventualità del genio maligno, perché non potrebbe ingannarci anche quando crediamo di pensare? Se vogliamo prendere sul serio questo dubbio universale, perchè lasciar fuori il pensiero? Dovremmo allora chiederci: sono sicuro di pensare? So che cosa vuol dire pensare? Pensare che cosa?

Altra assurdità è la convinzione che Cartesio manifesta di ingannarsi nel fatto di credere che alle idee di cose fuori di lui corrispondessero effettivamente cose fuori di lui:

 

«avevo l’abitudine di credere che, pensando di percepire assai chiaramente, sebbene, veramente, non la percepissi affatto, che vi fossero delle cose fuori di me, donde procedevano quelle idee, ed alle quali esse erano del tutto simili» [9].

Cartesio non capisce il valore intenzionale o rappresentativo dell’idea o concetto. Non capisce in che senso essi sono una similitudine o immagine della cosa. Egli crede che l’idea sia una cosa essa stessa, come ad esempio un  ritratto ad olio di Napoleone.

Ora io, che non ho mai visto Napoleone dal vivo, come posso sapere se questo ritratto assomiglia o non assomiglia a Napoleone? Per poter giudicare, dovrei fare un confronto. Ma purtroppo io Napoleone non ho potuto vederlo, essendo nato due secoli dopo. Ma poi, anche davanti ad un ritratto ad olio di un tizio, come posso sapere se ritrae una persona veramente esistita o esistente o se si tratta di un’invenzione del pittore?

Da qui nasce il problema cartesiano di chiarire se quelle cose che le idee mi presentano come esistenti al di fuori di me, esistono veramente oppure io sono l’unico ente esistente. Infatti per lui il punto di partenza del mio sapere è che io esisto. Ma come sapere che c’è un mondo attorno a me? Da dove ricavarlo? Cartesio invocherà la veracità di Dio presente in me grazie alla mia idea innata di Dio. Ma Fichte, traendo dall’io sono cartesiano presente in Kant le sue estreme conseguenze logiche, si accorgerà che non occorre ricorrere a questo inutile deus ex machina. È sufficiente esplicitare il contenuto intellegibile dell’io sono.

Così Fichte si accorse che il significato ultimo del cartesiano io sono, del mio essere non è limitato da un predicato. Il che vuol dire che io sono vuol dire io sono in senso assoluto[10]. Ma allora, se io sono l’Essere sussistente, se io sono Tutto, non c’è problema ad ammettere che esisto solo io e che non esiste nulla al di fuori di me, anzi è necessario dirlo. E se esiste qualcosa che non sono io, se esiste un non-io, dovrà essere posto da me in me. Ed è esattamente quello che dice Fichte, quando dice che l’io pone il non-io nell’io.

Ma dobbiamo dire che non è questo il modo giusto di impostare il problema della veracità della conoscenza. Il problema si pone così: io ho in mente eventualmente nella memoria delle cose che ho visto attorno a me. Come è possibile che esse siano in me e nello stesso tempo fuori di me? Che cos’è che causa questo prodigio?

È Il fatto che io mi sono formato un’idea di quelle cose: è per mezzo di questa idea che io colgo la verità di quelle cose. Quindi la dottrina delle idee e le stesse idee non sono un dato primario della conoscenza, ma un contenuto di coscienza del quale mi accorgo e che mi serve a spiegare come faccio a conoscere le cose. Il primo atto, il punto di partenza del conoscere è il conoscere le cose fuori di me.

Solo successivamente, riflettendo, mi accorgo di questa presenza immateriale delle cose in me e solo a questo punto, per spiegare questo fatto misterioso e meraviglioso, formo la dottrina delle idee come mezzi per conoscere o immagini della realtà. Se la coscienza è piena di contenuti, ciò è dovuto all’ingresso immateriale o spirituale in essa delle forme intenzionali e intenzionate delle cose esterne rappresentate nei concetti. Ma se io non partissi dal contatto con esse, la mia coscienza sarebbe vuota, come è quella del neonato appena venuto al mondo.

Prendiamo l’esempio del sole e della luna. In base a quanto detto, dobbiamo ricordare col comune buon senso a Cartesio che se io se nella mente ho l’immagine della luna o del sole, ciò dipende dal fatto che ho visto la luna o il sole. Secondo lui invece  io sono certo di avere l’immagine della luna e del sole, ma non sono certo che la luna e il sole esistano fuori di me. Devo dimostrarlo.

Egli ragiona o meglio sragiona in questo modo: finora si è dato per scontato che la luna e il sole si trovino realmente lassù nel cielo, per cui si è sempre ritenuto che non occorra dimostrarlo. Si è sempre pensato che sia evidente che essi sono lassù nel cielo. Ma - ecco un’altra scoperta di Cartesio -, dato che i sensi ingannano,  bisogna che io, per sapere se il sole e la luna ci sono o non ci sono, ricorra a una via diversa e sicura, a un principio superiore e più certo.

E quale potrà essere? Ecco la formidabile scoperta epocale di Cartesio:  questo principio è la mia coscienza di esistere, è che  io so di esistere.  Altro passo decisivo: ma io nella mia coscienza trovo l’idea di Dio, che mi garantisce che alla mia idea del sole della luna corrisponde effettivamente fuori di me il sole e la luna. Ecco la fondazione della filosofia moderna.

Cartesio dunque non si rendeva conto che la domanda: «come posso sapere se c’è una luna o un sole fuori di me?» è semplicemente assurda. Eppure Cartesio pretende di partire da questa falsa constatazione per giustificare la posizione del cogito e per dimostrare che la luna e il sole esistono.

Fichte comprenderà che cosa c’è dietro questa folle idea di stabilire l’essere delle cose in base alla decisione del proprio io: c’è quella di volersi sostituire a Dio nella creazione e direzione del mondo. Probabilmente Cartesio, cattolico com’era, non si rese conto di che cosa implicava il suo concetto dell’io sono. Con tutto ciò Fichte non farà, come ho detto, che trarre le estreme conseguenze logiche e offrire la piena esplicitazione dell’io cartesiano. Non senza ragione dunque Fichte fu accusato di ateismo. E per questo Fabro dice giustamente che il cogito cartesiano porta all’ateismo[11].

Cartesio ritiene che questo dubbio universale sia giustificato dal fatto che l’umanità fino al suo tempo  non fosse ancora in possesso di un fondamento delle scienze, ossia di un criterio e metodo sicuro per accedere alla verità e alla certezza. Essendosi accorto, a suo dire, del fatto che l’umanità si trovava in questo stato penoso, è convinto di aver provveduto lui a sostituire i princìpi del sapere, fino ad allora invalsi,  mostratisi insufficienti ad assicurare la verità e il sapere, con un nuovo principio risolutivo e più sicuro di qualunque altro, scoperto da lui, che è il famoso cogito.

Bisogna dire invece che in realtà i princìpi del sapere sono noti alla ragione umana come tale, da poi che mondo è mondo, noti quindi ad ogni individuo della specie umana per il semplice fatto di appartenere a questa specie. Compito del filosofo è semplicemente quello di intenderli bene, prenderne atto, di chiarirli ed esporli e di difenderli contro coloro che li negano.

Questo lavoro era già stato fatto da Aristotele e dalla filosofia scolastica promossa dalla Chiesa, il cui maggiore esponente è San Tommaso d’Aquino. Per risolvere il suo dubbio, a Cartesio avrebbe dovuto bastare la formazione scolastica, supponendo in lui una normale intelligenza. Sarebbe bastato, come ogni normale studente di filosofia, studiare quanto a tal riguardo insegnano Aristotele e S.Tommaso, come fanno tutti coloro che imparano la sana filosofia, per cui mi domando che cosa aveva imparato dalla più celebre scuola di filosofia e di teologia d’Europa o che cosa mai gli avevano insegnato, così da creargli tanta confusione? O forse la confusione se la è creata lui per aver motivo di regolare la sua vita non sulla base della verità, ma a modo suo, come egli stesso del resto afferma.

E la sua cosiddetta «morale provvisoria» che cosa è in fondo, se non un espediente ipocrita per nascondere le dirompenti conseguenze pratiche della sua filosofia, conseguenze libertarie, che non si sentì mai di esplicitare, ma che sarebbero state ben messe in luce dall’edonismo e liberalismo dei moralisti della «filosofia moderna»?

In realtà la ragione e l’esperienza ci dicono che sì, possiamo formare in teoria questo dubbio, possiamo farlo, ma non siamo assolutamente autorizzati a prenderlo sul serio e ad esercitarlo. Il farlo infatti è stoltezza e rifiuto di adeguare il nostro pensiero alla realtà per fondare il nostro pensiero non sulla realtà, ma sulla volontà di essere noi stessi i fondatori della realtà.

Fine Seconda Parte (2/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 aprile 2024

 

Occorre dire, per la verità, che, se da una parte la Pascendi colpiva bene gli errori dei modernisti, non riconosceva quanto di buono c’era nella loro istanza innovatrice. Per questo avvenne che la reazione cattolica verso di loro fu a volte esagerata e furono colpiti anche innocenti, come per esempio il Padre Lagrange, il Card. Ferrari e il Padre Juan Arintero.

La vera filosofia, il vero sapere è il rafforzamento e l’aumento di ciò che già sappiamo e sapeva chi ci ha preceduto. Vera filosofia, vera saggezza, vera conquista della verità è imparare da chi ne sa più di noi, credere a chi è credibile.

In filosofia può essere saggio e doveroso rifare daccapo un lavoro fatto da chi ci ha preceduto circa una questione particolare, lavoro deludente che non ha ottenuto i risultati sperati o promessi. È saggezza abbandonare una via che si mostra essere un vicolo cieco per raggiungere una data meta. Ma è stoltezza pretendere di mettere in dubbio o di rifare daccapo il criterio o principio stesso che usiamo e non possiamo non usare per giudicare dei risultati ottenuti o per valutare il risultato del lavoro fatto.


Di questo criterio o principio occorre semplicemente prendere atto e difenderlo con risolutezza contro chi lo nega, il quale, peraltro, così facendo, non fa altro che confutare se stesso. Pertanto esso non può essere sostituito né se ne può avere uno migliore, così come non si può avere nulla di migliore dell’ottimo, né nulla che stia prima del primo. 

 

 

Immagini da Internet:
- Padre Marie-Joseph Lagrange, OP
- Padre Juan Arintero, OP

 

 

 

 


[1] Una buona sintesi storica, anche se inficiata da un’interpretazione troppo benevola, è quella di Nicolai Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, Mursia Editore, Milano 1983.

[2] Discorso sul metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, p.13.

[3] Ibid., p.19.

[4] Ibid., p.25.

[5] Ibid., p.28.

[6] Ibid., p.30.

[7] Ibid., p.59.

[8] Meditazioni metafisiche, Edizioni Laterza, Bari, 1968, p.71.

[9] Ibid., p.95.

[10] Come l’Io Sono di Es 3,14.

[11] Non inopportuno fu dunque il Decreto del S.Ufficio del 1663, che mise all’Indice le opere di Cartesio, «donec corrigantur», dal Dictionnaire de théologie catholique, alla voce DESCARTES.

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