Trattato sugli Atti umani
P. Tomas Tyn
Lezione 9 (Parte 2/2)
P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)
Bologna, 24 marzo 1987
http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm
Miei cari, notate che nell’articolo 4 della Questione 20, S.Tommaso si chiede se l’atto esterno aggiunga qualche cosa alla moralità dell’atto interiore. Ora, S.Tommaso parte da questa constatazione, che mi pare estremamente importante, e cioè che, se l’atto esterno, notate, nulla aggiungesse a quello interno, basterebbe avere buona volontà di agire, senza mai entrare nella concretezza della situazione in cui ci si trova.
Quindi si potrebbe ovviare in ogni situazione con delle belle intenzioni. Uno potrebbe dire: beh, insomma, sì, io vorrei tanto soccorrere i poveretti, però che si arrangino. Ora, è evidente che ci sono delle situazioni, che effettivamente esigono non solo la volontà, ma anche l’azione. Questa è una cosa importantissima.
Quindi S.Tommaso considera proprio la pienezza dell’atto umano. E qui di nuovo si manifesta in qualche modo la sua visione metafisica della morale. Il bene è una pienezza dell’atto. Come il bene fisico è la pienezza dell’essere, così il bene morale è la pienezza dell’essere dovuto all’atto umano. E ci sono delle situazioni, in cui lo stesso agire esteriormente è proprio dovuto, è richiesto, cosicchè, se non si agisce c’è un peccato di omissione, c’è una mancanza di essere dovuto.
E’ qui che riecheggiano le parole di S.Paolo nella Lettera agli Efesini: Veritatem facientes in caritate, facendo la verità nella carità. Sul piano operativo del fare, dell’agire, bisogna mettere in pratica, affermare a livello della praxis, ciò che è la verità teorica, la verità dell’essere umano nelle sue più intime aspirazioni.
Notate che paradossalmente proprio nelle cose minime si manifesta la grandezza dei principi. Si dice anche così: Deus in minimis maximus. Dio si rivela massimo nelle creature più piccole e apparentemente più insignificanti. Similmente, potremmo dire, come dice sempre S.Tommaso, che la potenza di una causa si manifesta nella lontananza dell’effetto, che la causa riesce a raggiungere. Se io fossi esercitato nel lancio di qualche oggetto, purtroppo lo sono poco.
…
… nel lancio del peso. Mi ricordo quando facevamo educazione fisica, che fatica! no? Se fossi meglio esercitato di quanto non lo sia, raggiungerei ovviamente dei risultati migliori in termini di distanza. Cioè nel lancio del peso sarei riuscito sempre meglio nel senso che sarebbe stata sempre più distante la traiettoria percorsa da quel peso che appunto il sottoscritto riusciva a lanciare.
Quindi, quanto più lontano è l’effetto, tanto più potente si rivela la causa. Questo è proprio interessante. Adesso non voglio far entrare anche Hegel, tuttavia ha una battuta buona nella Vorrede, cioè nella prefazione alla Fenomenologia dello Spirito. Adesso non so citarla con esattezza, ma pressappoco dice che uno spirito che non ha il coraggio di compromettersi, cioè di estrinsecarsi o esternarsi, quello spirito si manifesta debole ed inconsistente. Per Hegel ovviamente questo esternarsi era un processo dialettico. Cioè la forza dello spirito è proprio la sua capacità di reggere dinnanzi alla sua esternazione.
Similmente è questo che mi convince molto nella diatriba circa lo spiritualismo di Platone e di Aristotele. Io oserei quasi dire che, per quanto il divino Platone abbia scoperto la metafisica, tuttavia Aristotele non l’ha per nulla compromessa con il suo empirismo, cioè con l’immanenza della forma nella materia, ma proprio a contatto con la materia la forma rivela ancora meglio il suo primato.
Spesso Aristotele è frainteso, come se egli fosse già uno dei primi che, magari se non casca del tutto nel materialismo, però, dopo i voli pindarici di Platone, Aristotele tenderebbe già verso il materialismo seguente degli stoici e degli epicurei. Invece tutt’altro. Aristotele addirittura rafforza la spiritualità della forma, affermando il primato della forma nel sinolo, a contatto con la materia.
Similmente l’etica di S.Tommaso è certamente un’etica dell’atto interiore; lo ribadisce spesso, e l’abbiamo ben visto nella Questione precedente, come la parte formale dell’atto, quella che poi dipende dal fine remoto. Quindi il fine più incisivo è appunto la moralità dell’atto interiore.
Quindi l’etica di S.Tommaso è certamente un’etica dell’interiorità. D’altra parte, non potrebbe essere una teologia morale, se non tenesse in debito conto quello che Gesù dice nel Vangelo riguardo all’apporto decisivo dell’ interiorità nell’atto umano. Non sono le cose esterne che inquinano l’uomo, ma sono quelle che scaturiscono dal di dentro. E lo stesso dicasi ovviamente, per il bene.
Quindi è una morale dell’intenzione, ma anche una morale dell’azione. Se volete, S.Tommaso non si pronuncia nè a favore della sola intenzione, né a favore della sola azione, ma si pronuncia contro ogni tentativo di disgiungere l’azione dall’intenzione. La sua morale è sia l’etica della intenzione, che l’etica della responsabilità. Entrambe queste componenti ci devono essere. Non basta quindi l’intenzione, ma ovviamente non basta nemmeno l’azione esterna. Questa dev’essere animata dall’intenzione, che scaturisce dall’interiorità dell’uomo.
Insomma, S.Tommaso ancora una volta, per analogia con il sinolo di materia e forma, ci dice che la forma, se non fosse inerente, non sarebbe sostanza, e che quindi nemmeno esisterebbe, se non fosse nel sostrato materiale. E’ chiaro che non ci riferiamo all’angelo, ma alla forma inerente, la forma di una pietra, di una pianta. Così similmente l’atto umano non sarebbe se stesso, cioè non sarebbe pienamente buono, se si limitasse solo alla parte formale interiore, senza raggiungere il complemento materiale, cioè il complemento dell’atto esterno, là dove l’atto esterno è dovuto.
Adesso però S.Tommaso fa un discorso veramente molto interessante. Perché, di per sé, questi sono i suoi approfondimenti inaspettati. Infatti, uno, postosi dinnanzi a quella questione avrebbe detto: adesso ci farà vedere come evidentemente l’atto esterno aggiunge qualche cosa a quello interno. Ma questa è solo la seconda parte della sua soluzione. Nella prima parte, qui del corpus articuli, si adopera a far vedere come l’atto esterno può eventualmente modificare l’atto interno.
Egli dice che ciò accade solo marginalmente. Di per sè l’atto interno rimane immutabile, cioè l’atto esterno non lo modifica. Però accidentalmente può capitare che l’atto esterno incida su quello interno e questo in tre modi addirittura, che adesso vedremo. Il primo è quanto al numero. Si verifica aggiunta dell’atto esterno modificante l’atto interno quanto al numero, se uno prima vuole agire per un fine e non agisce, ma, essendo impedito, non agisce, e in un secondo tempo vuole e agisce.
Mettiamo che quest’oggi abbiamo la speranza che la CGIL non faccia sciopero, facendo pii voti che non sia così, ma che tuttavia l’abbia fatto. Mettiamo che io voglia prendere il treno per andare a Modena. Ma essendone impedito, desisto dall’azione esterna. Ho tante pie aspirazioni di fare la mia conferenzina ai cari amici di Modena. Però non riesco a prendere il treno.
Quindi mi devo per forza limitare all’intenzione. Però poi telefono agli amici di Modena e dico: sentite, mi dispiace, ma io purtroppo oggi la conferenza non la posso fare. In questo caso non è colpa mia, ma della CGIL. Però si prevede che domani lo sciopero non ci sia più, allora arrivo domani, cambiamo l’orario, eccetera.
Prima ho voluto andarci, ma non ho potuto. Quindi, ne sino stato impedito. Ho desistito dall’azione esterna, però quella interiore c’era. Un’altra volta, susseguente nel tempo, vedete che c’è un atto numericamente distinto: io voglio andarci e di fatto ci vado. Così l’atto esterno non solo modifica, ma proprio sdoppia la intenzione. Cioè una volta ho solo inteso l’azione; l’altra volta l’ho intesa e messa in pratica. Qui l’esempio è abbastanza facile, mi pare che non ci siano problemi.
Un’altra possibilità è quella dell’estensione dell’atto umano. Infatti, quanto all’estensione, l’atto esterno può modificare quello interiore. Questo avviene in due soggetti agenti distinti. Cioè, capita che uno vuole agire per un fine buono o cattivo, ma impedito desiste, mentre un altro continua il moto della volontà fino al compimento dell’opera superando le difficoltà.
Per esempio, scalare una montagna. E’ una cosa di per sé piacevole, però ovviamente gli ostacoli da superare sono talvolta effettivamente molto ardui. Quindi prendete due alpinisti, tutti e due abili nello scalare la montagna. Uno però, a un certo punto, si spaventa delle difficoltà, desiste e se ne ritorna a casa. L’altro ha anche lui l’intenzione di scalare la montagna, conosce le stesse difficoltà dell’altro, però le supera ed arriva in cima.
Ora, dice S.Tommaso, non c’è dubbio che nel secondo alpinista, forse c’entravano anche la preparazione atletica e tante altre cose. Non c’è dubbio. Però c’era certamente anche una intensità di volontà maggiore rispetto al primo, che ha desistito e se ne è andato. Quindi il fatto di continuare l’atto, superando delle difficoltà, manifesta un’intenzione più forte.
Lì vedete proprio il ruolo formale, predominante, della volontà rispetto alla disposizione dei mezzi, cioè rispetto anche alla sua ridondanza sull’atto esterno. Similmente, se uno vuole intensamente proprio molto guarire, allora accetta di sottoporsi ad un intervento chirurgico, anche se si tratta di una cosa impressionante. Oppure ci può essere quello che non ha molta volontà di guarire. Per cui non si sottomette alle dovute operazioni.
Quindi, quanto all’estensione dell’atto umano, cioè il perseverare, essa manifesta la maggiore intensità dell’atto interno, ma questa estensione più che altro è un signum, un segno che manifesta una volontà già in precedenza più intensa, seppure poi ovviamente anche la volontà più intensa modifichi l’atto esterno, cioè incida sull’atto esterno in maniera tale, che gli ostacoli eventuali vengono più costantemente o con maggiore perseveranza, superati.
Infine quanto all’intensità. E qui S.Tommaso pensa alle passioni, cioè all’aspetto passionale. Lo vedremo poi; forse riusciremo addirittura entro quest’oggi almeno ad avviare il Trattato sulle Passioni, ma comunque, comunque lo vedremo poi appunto trattando delle passioni, in quanto alcune virtù, non tutte ovviamente, sono di natura tale da doversi servire delle passioni. Sarebbe quasi non virtuoso non servirsi della passionalità in determinati ambiti.
Ci sono determinate azioni connaturali, che ovviamente dipendono dalla morale, sono regolate dalla morale e dalla ragione umana, che però sono legate alla passionalità, per esempio il mangiare o l’attività procreativa. Tutto questo è legato alla passionalità. Quindi, se non ci fosse il dovuto diletto passionale in questo campo, ci sarebbe il peccato di insensibilità, dice S.Tommaso.
Quindi, alcune virtù si servono di passioni. Così, per esempio, la fortezza si serve dell’irascibile. Soprattutto incidono molto le due passioni in cui tutto si compie e cioè le passioni in qualche modo finali, cioè la passione del piacere, del godimento, del gaudium, e la passione della tristitia, della tristezza o del dolore.
Quindi, ha l’intenzione di agire e poi, mettendo in pratica la sua intenzione, cioè ponendo l’atto esterno, sperimenta della gioia di riflesso, c’è una specie di ciò che in inglese si chiama feedback, cioè una specie di contraccolpo. Sperimentando la gioia, si invoglia ulteriormente a portare a termine l’azione.
Invece, se uno con la stessa intenzione pone un atto, nel quale però sperimenta la tristezza, ovviamente la tristezza di suo ha in sé una certa ripugnanza. Quindi, essa tende a scoraggiare, a respingere dall’azione l’agente. E quindi ovviamente, anche questo può accidentalmente modificare l’atto interno. Quindi l’atto interno può essere così per accidens modificato dall’atto esterno.
Invece, adesso la moralità dell’atto esterno, che deriva dalla materia e dalle circostanze, si rapporta alla volontà come termine e fine. Quindi, per quanto riguarda l’atto interno, abbiamo visto che l’atto esterno lo modifica solo per accidens; però l’atto esterno è nei riguardi dell’atto interno qualche cosa di assolutamente essenziale.
L’atto esterno, qualificato moralmente come abbiamo visto dalla materia e dalle circostanze, si propone nei riguardi dell’atto interiore come il suo fine. Notate bene. Quindi, l’atto interiore che cosa intende? Intende produrre, esteriormente, ciò che si propone interiormente.
Facciamoci un esempio che riguarda il male. L’ipocrita, che vuole farsi vedere davanti agli altri, concepisce in dipendenza da questo suo fine perverso, quell’azione esterna particolare, che potrebbe dargli credito davanti agli altri, e che è dare l’elemosina suonando la tromba. E allora, l’intenzione sia del fine remoto che di quello particolare, dare l’elemosina, lo muove a mettere in pratica, ad eseguire l’azione esterna che si propone, cioè a dare di fatto l’elemosina, però con questa intenzione deleteria.
Quindi, in qualche modo, nell’ordine dell’esecuzione, ciò che vuole la volontà interiore è proprio affermare una somiglianza di sé nell’effetto esterno, come ogni causa. La volontà finalizzata è vera e propria causa efficiente dell’opera esterna eseguita. Ora, ogni causa intende porre una similitudine di sè nel suo effetto, ed è proprio finalizzata a questo.
Quindi, praticamente la volontà, con la sua finalità interiore, tende a considerare l’atto esterno come fine, nel quale vuole porre la similitudine di se stessa. In questo senso, l’azione esterna, non come causa, ma proprio ovviamente come finis effectus e come fine effetto della intenzione, aggiunge qualche cosa all’intenzione stessa.
Non basta quindi, aggiunge realisticamente S.Tommaso, il solo volere là dove c’è bisogno di agire. Bisogna quindi, là dove in qualche modo le stesse circostanze invitano a un atto esterno, che l’atto esterno effettivamente sia posto. Cioè che ci sia e l’aspetto interiore, volere o quella determinata azione, e l’atto esterno posto ovviamente in ossequio a quello che l’uomo ha predeterminato dentro di sè nel consilium e nella scelta.
E’ importante questo. Ora, però c’è un caso in cui effettivamente l’azione può essere completa, limitandosi al suo aspetto interiore. L’unico caso in cui ciò avviene è quello in cui l’assenza dell’atto esterno risulta incolpevole. E’ il caso un cui uno non è tenuto di agire esteriormente. Per esempio, un atto di preghiera può essere anche benissimo un atto interno, non c’è bisogno di inginocchiarsi esteriormente.
Quindi, ci sono degli atti che di suo, rendono utile una certa esteriorità, ma proprio non la esigono. Invece, se si tratta di salvare una persona che sta per annegare, non posso dire: io voglio salvarla, però adesso non voglio bagnarmi. Allora, non sarebbe più una cosa, una cosa lecita. Però, se io vedo una persona annegare, non solo devo dire: vorrei tanto salvarla, al condizionale, ma devo buttarmi di per sé nell’acqua per strappare, questo poveretto ai flutti de mare.
Però nel contempo, se io stesso non so nuotare, non posso aiutarlo e anzi potrei anche lasciarci io la mia pelle. E quindi in tal caso effettivamente è legittimo desistere dall’azione esterna. L’azione non è doverosa solo là dove uno o non è tenuto di agire, o non ha potuto agire, cioè non può convenientemente agire. Questo è comprensibile.
Altrimenti invece non vale il discorso: nobis autem bene voluisse satis est, noi ci accontentiamo di avere voluto il bene. Non basta. Bisogna volere il bene, ma anche farlo. Bisogna metterlo in pratica. Quanto, più lo si vuole, tanto più, secondo l’opportunità delle circostanze, connaturalmente anche lo si afferma nell’attività esterna.
Un’ultima questione, ma non priva di interesse, anzi non ultima, ma penultima, , è quella che riguarda o che si connette un po’ con la prudenza. Noi abbiamo visto nella prudenza l’aspetto della circospezione e della cautela. Vi ricordate ancora che l’uomo prudente è circospetto, cioè deve guardarsi attorno, deve vedere in quali circostanze concrete agisce. E in quelle circostanze, ecco l’aspetto della cautela, deve badare alla connessione di una con l’altra. Cioè deve in qualche modo prevedere gli effetti dell’atto posto in quella determinata situazione.
Quindi, la cautela sottolinea molto l’aspetto della previsione, non nel bene, ma piuttosto nel male, cioè come evitare eventuali effetti deleteri di una azione che immediatamente si presenta anche come buona. Allora c’è la domanda, appunto, se l’evento seguente possa modificare la moralità dell’atto umano. Ovviamente se l’evento è premeditato, dice S.Tommaso.
Ci sono infatti due casi da considerare: c’è l’evento premeditato e quello non premeditato. Se io prevedo che la mia azione avrà una conseguenza nel futuro, è evidente che la previsione di questa circostanza, cioè dell’effetto remoto, incide sulla moralità dell’atto. Pensiamo per esempio ad un’azione magari anche buona, che però darà scandalo agli altri. Mettiamo, come dice S.Paolo, se io sapessi che un mio fratello si scandalizza perché mangio carne, non voglio mai più mangiare carne.
C’è qui tutta la vicenda della carne degli idolotiti. Se io so che mangiando carne, cosa di per sé assolutamente tranquilla e pacifica, azione moralmente indifferente, e però so che avrà un effetto dannoso, cioè che darò scandalo al fratello, e io nonostante ciò pongo una azione per sé addirittura buona, tuttavia l’evento cattivo premeditato ovviamente la rende cattiva. Cioè c’è una circostanza che corrompe ella azione.
Quindi, l’evento premeditato, sia nel bene che nel male, incide sulla moralità dell’atto. Così se io, per esempio, vedo che con una azione buona, non solo riuscirò magari ad aiutare la persona bisognosa, ma, con discrezione, si capisce, senza suonare la tromba ma anche e a dare il buon esempio ad altri. Allora, in tal caso l’azione amplia la sua bontà morale.
Infatti, al di là della bontà intrinseca dell’atto esterno, c’è anche la bontà anch’essa estrinseca dell’evento seguente. Entrambe le bontà erano previste e premeditate dal soggetto agente. Quindi l’inizio della bontà dell’evento seguente premeditato incide sulla moralità dell’atto complessivo. Invece, se l’evento seguente non è premeditato - notate - uno potrebbe accontentarsi di dire: allora in quel caso ovviamente non incide.
Invece S.Tommaso fa ancora una distinzione, che mette in rilievo appunto l’aspetto dell’omissione. Il dovere di fare attenzione. In fondo qui mette un gioco la cautela, cioè il pensarci prima di agire. Dice che se un evento si collega con un certo atto esterno ut in pluribus, cioè nella maggior parte dei casi, anche se non è prevedibile con certezza, ma solo con probabilità, e uno non ne tiene conto, ne è moralmente responsabile.
Invece può succedere che un evento non può essere previsto, perchè proprio moralmente non è nemmeno prevedibile. Perché? Perché non si connette con l’azione esterna, se non in paucioribus, ossia nella minor parte dei casi. Questo è il tipico e classico evento contingente. Il quale si dice contingente quando capita nella minor parte dei casi. E allora è accidentale, è connesso solo per accidens e questo non è prevedibile e nessuno ha colpa di non averlo previsto.
Facciamo un esempio, che proprio mi fa tribolare tanto, ossia le oscenità che si vedono per le strade, propinate ovviamente anche dinnanzi a minorenni. E’ chiaro che quel tal birbante, che appende un certo manifesto un po’ dappertutto, su tutti gli angoli delle strade, oltre tutto agisce anche contro il buon gusto, ma ha ben potuto prevedere gli eventi di quella azione. Quindi è chiaro che, anche se non li ha previsti, gli eventi seguenti, cioè lo scandalo dato ai piccoli, erano però prevedibili. E quindi ha piena responsabilità di quello che fa.
C’è un caso diverso, che talvolta succede. L’esempio è spiacevole. Uno, per esempio, parlando, magari tocca un tasto delicato, che non poteva prevedere nella persona dell’interlocutore. Ora gli capita di darle fastidio. Lo si vede, no? La famosa gaffe, come di dice. E allora, in quel caso uno ovviamente ne è rammaricato, perché si tratta di una cosa sbagliata. Però chi’ha fatto quella famosa gaffe, non ne ha colpa, perché non poteva prevederla.
Naturalmente se lui conosce benissimo la situazione del prossimo e proprio in qualche modo commettere queste gaffes proprio per farlo tribolare, allora ritorna nel primo caso, cioè quello di un’azione evento premeditata. Invece, se l’evento non succede ut in pluribus, e quindi è legato alla contingenza della situazione particolare, non poteva nemmeno essere previsto; e se succede qualche cosa di spiacevole, l’agente non ne ha ovviamente colpa. Quindi non modifica la bontà dell’intenzione e dell’atto esterno.
Ultima, ultimissima domanda è questa: se l’atto esterno possa essere simultaneamente buono e cattivo. S.Tommaso risponde dicendo che, per quanto riguarda la sua moralità, non è possibile. La moralità dell’atto umano, moralmente parlando, è una sola, cioè l’atto umano o è buono o è cattivo. Abbiamo visto che la moralità è appunto questo bonum est ex causa integra. Quindi, se c’è l’integrità[1] della intenzione della volontà, se c’è l’oggetto che specifica l’atto esterno, e se ci sono tutte le circostanze dovute, non c’è dubbio che l’atto umano è buono. Non può essere buono e cattivo. Se invece manca anche una sola di queste condizioni, è tutto cattivo.
Qui non ci danno posizioni intermedie, come a dire: il mio atto è buono; l’intenzione era buona, però i mezzi che ho adoperato, lo erano un po’ meno, meno piacevoli. Qui basta un solo disordine perchè l’atto sia tutto cattivo. Quindi, o moralmente parlando è buono, perché integro, o se è solo parzialmente buono, quella stessa parzialità è già cattiveria. E’ terribile.
L’atto umano non può essere buono solo parzialmente; è impossibile: o è buono in tutto o non è buono per niente. E’ un integrista, il nostro caro S.Tommaso. Ma la morale è fatta così. E’ proprio l’integrità dovuta a tutte queste fonti della moralità; quindi bontà del fine, bontà dell’oggetto e bontà delle circostanze.
Però, S.Tommaso dice - e la cosa è di un certo rilievo - che se si sdoppia il genere, cioè quello fisico e quello morale, è possibile che quell’azione, che ha una sua identità nel genere fisico, ne abbia un’altra nel genere morale, e che addirittura cambi la moralità quanto al genere morale.
Per esempio, uno fa una passeggiata per andare a trovare un malato. Però per strada si ricorda che lì abita un suo nemico, al quale deve ancora dirgliene quattro. Quindi, strada facendo, anziché andare a trovare l’ammalato, si ferma da quel suo amico nemico e comincia a litigare.
Ebbene, si capisce che lo stesso atto, fisicamente uno, un’azione fisicamente in qualche modo così consistente, da avere una certa sua unità, moralmente è cambiato da buono in cattivo. O viceversa, per fortuna può cambiare anche da moralmente cattivo in buono. Un altro, per esempio, va a fare del male a un suo nemico, ma poi per strada si converte, e poi invece fa qualche cosa di buono. E quindi è possibile che una azione fisicamente una, si sdoppi quanto alla moralità.
Ovviamente S.Tommaso con questo voleva sottolineare la diversità del genere fisico e da quello morale. Sono due cose veramente diverse. Adesso invece cominciamo il Trattato delle Passioni. La Questione, la questione 21 infatti è di minore importanza. Comunque leggete anche quella. Lì si tratta appunto, in sostanza, delle diverse denominazioni della terminologia morale. Per esempio, la colpa, la responsabilità, il merito dell’atto, e via dicendo.
Invece noi adesso iniziamo il Trattato sulle Passioni.
Fine Prima Parte
Padre Tomas Tyn, OP
Registrazione di Amelia MonesiTrascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 23 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 9 febbraio 2017
S.Tommaso considera proprio la pienezza dell’atto umano. E qui di nuovo si manifesta in qualche modo la sua visione metafisica della morale. Il bene è una pienezza dell’atto. Come il bene fisico è la pienezza dell’essere, così il bene morale è la pienezza dell’essere dovuto all’atto umano. E ci sono delle situazioni, in cui lo stesso agire esteriormente è proprio dovuto, è richiesto, cosicchè, se non si agisce c’è un peccato di omissione, c’è una mancanza di essere dovuto.
[1] Bontà.
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