Il Giudizio di Dio
Il mistero della morte
Parte Seconda (2/3)
La morte del martire e la morte del suicida
La vita è un bene prezioso. Ma noi abbiamo la facoltà di rifiutarla in nome di un bene superiore o che giudichiamo migliore. Abbiamo qui due atti umani opposti, che potrebbero sembrare in qualche modo simili: quello del suicida e quello del martire. Entrambi disprezzano la vita e non temono di andare incontro volontariamente alla morte per libera scelta, giudicando il morire cosa buona.
Entrambi vogliono morire. Eppure il suicida pecca mentre il martire compie un atto di amore eroico. Come mai questa differenza? Essa dipnde dal diverso motivo per il quale vogliono morire. Il semplice voler morire non è ancora suicidio.
Bisogna vedere perchè uno cerca la morte. Il suicida odia Dio che lo ha creato, disprezza il dono della vita che Dio gli ha fatto. Per lui valgono solo i beni di questo mondo. Non vuole vivere per Dio e per il prossimo, ma solo per sé stesso. Quello che l’interessa è il suo bene privato, il non soffrire. Non sopporta l’essere disprezzato dagli altri. Gli viene a mancare un bene terreno, sul quale puntava tutto. Trovandosi in una situazione che lo fa soffrire e che gli toglie ogni speranza, senza sapere come venirne fuori, per lui è meglio suicidarsi che soffrire mettendosi nelle mani di Dio. Delle conseguenze, andasse anche all’inferno, non glie ne importa.
Diverso è il caso di chi non ce la fa a sopportare la sofferenza o è afflitto da gravi forme di malattia mentale o da gravi stati depressivi. In questi casi il suicido attenua o esclude del tutto la colpa, per cui il soggetto non va biasimato ma compassionato. Si pensi per esempio al caso di chi in un appartamento al sesto piano invaso dal fuoco, decide di gettarsi dalla finestra: è colpevole?
Non si può invece considerare gesto di compassione l’eutanasia, in quanto positiva soppressione della vita, fosse anche la sola vita vegetativa, perché dovere della medicina è quello d prolungare la vita il più possibile, senza che per questo non vi sia l’obbligo del medico di somministrare calmanti, sedativi o anestetici capaci di lenire o togliere il dolore. A questo proposito è molto importante ed utile che il malato possa fruire, grazie alla fede cristiana, della consolazione e del conforto che da essa vengono nel momento della sofferenza.
Possiamo dire che sia il suicida che il martire si procurano la morte? Possiamo dire che entrambi si tolgono la vita? Perché allora il suicidio è biasimevole e peccato mortale e il martirio è lodevole e atto eroico di amore? Perché nel caso del martirio il martire non si uccide ma è ucciso; per questo la colpa della sua morte non è la sua ma di chi l’uccide.
Il martire lascia che lo uccida chi lo vorrebbe obbligare a rinnegare la sua fede o a compere atti contrari alla volontà di Dio. Quindi, piuttosto che rinnegare la fede o mancare alla carità, preferisce la morte. Il motivo del martirio, dunque, non è un egoistico attaccamento alla vita o la delusione d’aver perso un bene di questo mondo o il rifiuto di esser dileggiato o vituperato dai nemici ma è quella volontà di mostrare il primato del regno di Dio sulle gioie del mondo, così da attirare a Cristo coloro che Dio chiama al suo amore.
Secondo le famose parole della Scrittura, Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Egli non ha creato la morte, ma ha creato tutti i viventi perchè vivano. Il Dio biblico è il Dio Vivente, il Dio della vita, creatore, difensore e promotore della vita. Dio non vuole la morte, ma essa, come ci insegna la Scrittura, è entrata nel mondo per colpa del diavolo.
I comandamenti divini, secondo la Bibbia, sono comandamenti di vita, ossia doveri e leggi morali finalizzati a promuovere o difendere la vita. Il comandamento «non uccidere» significa non uccidere l’innocente, per cui diventa lecito, proprio in difesa della vita, uccidere gli agenti che sopprimono o mettono in pericolo la vita.
Lutero davanti al giudizio di Dio
Ho ritenuto bene introdurre questo articolo con una trattazione del significato della vita e della morte da un punto di vista filosofico e cristiano. Ma il tema di questo articolo – non l’ho dimenticato - è eminentemente pratico: come ci dobbiamo atteggiare davanti alla prospettiva della morte? Come dobbiamo prepararci a morire? Come dobbiamo affrontare cristianamente la morte? Che cosa è la morte per il cristiano?
Ho pensato allora di scegliere un punto di partenza o spunto di riflessione che mi sembra molto incisivo e significativo: come Lutero ha vissuto la prospettiva della morte? Come egli ha affrontato il problema della sua morte? Questo non per diventare luterani, ma perché bisogna riconoscere che Lutero si è posto la questione in modo molto profondo e significativo in stretta relazione col rendiconto che dobbiamo dare a Dio e alla grave questione di come Dio ci giudicherà.
Facciamo alcune premesse per capire l’atteggiamento di Lutero. Egli era portato a una forte sensualità che gli rendeva molto difficile l’attività astrattiva del pensiero e quindi l’intellezione e la speculazione filosofica, logica e metafisica. Da qui la sua forte antipatia per Aristotele e San Tommaso, e quindi per il magistero della Chiesa e per i dogmi cattolici, che utilizzano concetti metafisici.
Tuttavia egli seppe in qualche modo comprendere e rivivere in sé stesso l’interiorità agostiniana con la sua diffidenza verso la realtà sensibile esterna. Paradossale è invece in Lutero la fiducia e al contempo la sfiducia che ha nella sensibilità: da una parte egli le dà troppo credito quando entra in gioco la concupiscenza, ma dall’altra è troppo scettico quando si tratta della visibilità della Chiesa, tirando fuori il pretesto della coscienza per disobbedire al Papa.
Per essere così angosciato circa l’incertezza di essere o no gradito a Dio e il dubbio atroce che Dio gli sia contrario, Lutero manifesta in ciò un’indubbia, profonda preoccupazione religiosa, della quale gli hanno dato atto di recente sia San Giovanni Paolo II che Benedetto XVI. L’empio e l’ateo se ne infischiano di essere graditi a Dio, poiché non credono neppure nell’esistenza di Dio o non sono affatto interessati ad essere graditi a Dio. Quello che però lascia perplessi è la pretesa di un’assoluta certezza del proprio essere in grazia, come se si trattasse di avere in tasca il portafoglio, cosa che denota nel tempo una mancanza di fiducia e di abbandono nelle mani di Dio. Egli, dopo l’esperienza della torre del 1515, crederà di averla trovata con quella assolutezza che desiderava, ma - ahimè! - non era più fiducia, ma autosuggestione.
Lutero all’inizio della sua vita religiosa sentì fortissimo l’appello di Dio all’obbedienza con forte coscienza e addirittura spavento della giustizia punitiva divina. Egli partì così con un concetto impressionante e sconvolgente di Dio e con un forte bisogno di salvezza. Partì con alcune idee errate su Dio, che successivamente si sforzò di correggere, ma in realtà le mantenne per tutta la vita, senza tuttavia cessare di credere in lui, di aggrapparsi a Lui, di predicare il Vangelo, di cercare di metterlo in pratica, e di sperare nella salvezza.
Agli inizi egli da una parte sentiva l’amore per Dio, lo desiderava, sentiva il bisogno di un Dio misericordioso, desiderava di essere da Lui perdonato, ma dall’altra scambiava il timore di Dio col terrore, gli pareva che per la nostra fragilità fosse impossibile obbedire ai suoi comandamenti, immaginava un Dio che lo incolpava senza spiegargli il perché, un Dio che pretendeva che facesse ciò che non riusciva a fare, sicchè la sua coscienza non trovava mai la pace e si sentiva combattuta tra sentimenti di amore e di odio verso Dio.
La giustizia divina gli appariva odiosa perché la scambiava per crudeltà. Influenzato da Ockham, pensava che Dio non vuole qualcosa perché è bene, ma è bene perché lo vuole Dio. Il bene non era fondato sull’essere, ma solo su di un semplice decreto arbitrario di Dio. Qualcosa è bene non perché è bene, ma perchè Dio lo chiama «bene». Credeva che Dio, per essere buono, non doveva intimorire o far soffrire o punire nessuno. Credeva che punisse l’innocente e premiasse il malvagio. Vedeva Dio come inaffidabile, come un despota nemico dell’uomo.
È questo fatto che dà pace e sicurezza alla coscienza. Ma ciò suppone il funzionamento del libero arbitrio, cosa che Lutero si ostinò sempre a negare, nonostante l’esperienza che ognuno di noi fa, al di là della nostra fragilità e delle nostre impotenze, di questa facoltà che caratterizza a differenza dalle bestie la dignità della persona umana.
È giusto chiamare «riforma» l’opera di Lutero
e chiamarlo col titolo di Riformatore?
Che cosa è stata la «riforma» di Lutero? Lutero aveva un’idea giusta della Chiesa, così da poter valersi del giusto criterio per discernere le cose da mantenere e quelle da lasciare? Questo è il punto. Il fatto grave è che Lutero non si basò su di un concetto giusto di Chiesa cattolica[1]. Anche ammesso che egli avesse une buona intenzione, in realtà che cosa ha fatto? Ha riformato da una parte, ma dall’altra ancor di più ha distrutto. È stato un vero riformatore?
Ma ancor più in radice l’errore di Lutero è stato dottrinale: il fatto di aver dichiarato falsità alcune verità di fede, come per esempio il valore della ragione umana, il libero arbitrio, la bontà di Dio, la giusta nozione del peccato originale, il sacramento dell’Ordine, la praticabilità dei comandamenti, il sacrificio della Messa, la transustanziazione, l’infallibilità del Papa, il merito soprannaturale, il purgatorio.
Certo la sua è stata un’opera complessa. Alcune sue istanze sono state accolte dal Concilio Vaticano II. Non possiamo invece accettare l’opinione di coloro che sostengono che il Concilio di Trento ha frainteso Lutero, che in realtà era rimasto cattolico. La Chiesa nei Concili non si sbaglia nella condanna degli eretici. È vero che i luterani di oggi hanno abbandonato alcuni errori di Lutero.
L’aspetto negativo della riforma di Lutero è consistito nel passare dalla disperazione alla presunzione, dallo scetticismo alla sicumera, dalla convinzione di essere dannato alla certezza assoluta, di fede, di salvarsi, dallo scrupolo alla furbizia, dal libero arbitrio senza la grazia alla grazia senza il libero arbitrio, dalla convinzione di peccare sempre a quella di non peccare mai, dall’idea di un Dio troppo esigente e colpevolizzante a quella di un Dio permissivo, che approva e vuole tanto la giustizia quanto il peccato, da un Dio giusto ma senza misericordia a un Dio misericordioso ma ingiusto.
Lutero non ha capito come lo Spirito di Dio causa ontologicamente gli atti delle volontà create, si tratti del giusto o dell’empio, degli angeli o dei demòni, senza per questo causare il male che compiono. A prescindere cioè dal fatto che si tratti di un atto buono o cattivo, Dio comunque è la causa dell’atto in senso ontologico in quanto Egli è la causa prima e il creatore di tutte le cose.
Se poi quest’atto è buono, occorre aggiungere che la bontà divina è la causa della bontà morale dello stesso atto. Ciò non toglie affatto che nel contempo questo atto sia meritorio, perché in questo caso Dio dà all’agente la grazia di poter compiere l’atto che merita il premio celeste. Tuttavia ci sono due costanti nella vita di Lutero, alle quali non venne mai meno: una, lodevole e l’altra, biasimevole: la prima, seguendo in ciò la spiritualità agostiniana, per la quale impostò tutta la sua vita secondo un rapporto personale con Dio nel desiderio della salvezza e della beatitudine.
Tuttavia ha voluto mettere insieme e d’accordo i contradditori: il peccato mortale con la grazia: la buona con la cattiva volontà; la bontà divina con la predestinazione all’inferno; il premio con l’assenza del merito; il castigo con l’assenza della colpa.
Per lui un atto buono può essere ad un tempo giusto ed empio; Dio ti dichiara giusto ma al contempo copre il peccato; la coscienza ti rimorde, eppure Dio ti ha perdonato; sai di fare il male eppure Dio ti ha giustificato; pecchi anche se non vuoi peccare; non pecchi se hai fede che non pecchi.
La seconda cosa, effetto dell’occamismo, è che Lutero non riuscì mai a coniugare la fede con la ragione, la grazia col libero arbitrio, la grazia sanante con quella elevante, l’azione con la contemplazione, il timore con la speranza, la giustizia umana con quella divina, la giustizia divina con la misericordia, l’obbedienza alla legge con quella allo Spirito Santo; non riuscì mai a distinguere il peccato dalla concupiscenza, la certezza dalla sicumera, la buona volontà dall’ipocrisia, lo scrupolo dalla coscienziosità, il male di colpa dal male di pena, la malizia dalla fragilità, il peccato veniale dal peccato mortale, la tendenza a peccare dall’atto del peccato, lo stato di peccato dall’atto del peccato, la confidenza in Dio dal prendersi gioco di Dio, la pace della coscienza dal menefreghismo, la penitenza dall’autolesionismo, il perdono dalla connivenza, iI castigo dalla crudeltà, la coscienza dalla verità.
Fine Parte Seconda (2/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 14 novembre 2024
All’inizio del suo cammino spirituale Lutero si metteva davanti al giudizio divino con terrore, perché mancava della consapevolezza della bontà divina, cioè che Dio, come è chiaramente insegnato dalla Bibbia, è un Signore leale, che fa un patto con noi, stipula un contratto di lavoro e al termine della giornata, che rappresenta il momento della morte, ci convoca a render conto di quanto abbiamo fatto e con piena lealtà, paga ognuno secondo il patto convenuto.
È questo fatto che dà pace e sicurezza alla coscienza. Ma ciò suppone il funzionamento del libero arbitrio, cosa che Lutero si ostinò sempre a negare, nonostante l’esperienza che ognuno di noi fa, al di là della nostra fragilità e delle nostre impotenze, di questa facoltà che caratterizza a differenza dalle bestie la dignità della persona umana.
Lutero ha un concetto inadeguato della causalità divina, che egli riduce al funzionamento delle cause fisiche. È vero che ciò che Dio vuole non può non avverarsi: ma ciò non vuol dire che l’atto dell’effetto causato da Dio sia necessariamente necessario: può essere contingente come l’atto del libero arbitrio e nondimeno essere causato da Dio, che è causa prima, mentre l’atto del libero arbitrio è una causa seconda ed è ovvio che la causa seconda è causata dalla causa prima.
Lutero non ha capito come lo Spirito di Dio causa ontologicamente gli atti delle volontà create, si tratti del giusto o dell’empio, degli angeli o dei demòni, senza per questo causare il male che compiono. A prescindere cioè dal fatto che si tratti di un atto buono o cattivo, Dio comunque è la causa dell’atto in senso ontologico in quanto Egli è la causa prima e il creatore di tutte le cose.
Se poi quest’atto è buono, occorre aggiungere che la bontà divina è la causa della bontà morale dello stesso atto. Ciò non toglie affatto che nel contempo questo atto sia meritorio, perché in questo caso Dio dà all’agente la grazia di poter compiere l’atto che merita il premio celeste.
Immagini da Internet: Dio Creatore e Cristo Giudice, Michelangelo
[1] Fu la prima cosa che notò in Lutero il grande teologo domenicano il Card. Tommaso De Vio, detto Gaetano, dopo il famoso colloquio che gli tenne nel 1518 come legato del Papa. «La sua – disse – è un’altra Chiesa!».
Caro Padre Cavalcoli,
RispondiEliminagrazie del Suo nuovo articolo. Dato questo argomento, ovverosia il resoconto che dovremmo a Dio al fine dei nostri giorni, Le vorrei porre questa domanda: data la mia giovane età e la confusione delle voci in cui siamo capitati a vivere, ancora non ho ben capito perché sia peccato compiere atti illeciti (fuor di perifrasi: perché sia illecita la masturbazione). Che sia illecita la dottrina della Chiesa lo dice e ribadisce (non so però se assolutamente o con qualche limite), ma ancora mi sfugge il perché, il motivo. Sarebbe così gentile da illuminarmi? Avendo bene in mente il motivo riuscirei a portare avanti la mia battaglia con più convinzione, grazie.
Caro Ludovico,
Eliminail motivo per cui la masturbazione è peccato è molto semplice: perché, per il desiderio del piacere, si compie un atto, che è contrario alla generazione, nel senso che, venendo distrutto il seme maschile, evidentemente da quel seme non può sorgere la vita.
Occorre tuttavia tenere presenti le condizioni soggettive del giovane, le quali comportano una spinta passionale così forte che è molto difficile trattenersi. Per cui, se la materia del peccato è grave, la colpa diminuisce e può abbassarsi a livello di colpa veniale per il fatto che l’impulso istintivo è più forte della volontà, in modo tale che l’atto non è pienamente volontario. E dato che la colpa è legata alla volontà, ne consegue una attenuazione della colpa.
Che cosa deve fare il giovane? Non si deve scoraggiare, ma tutte le volte che cade si deve rialzare con rinnovata fiducia, anche se le cadute sono frequenti. È molto importante pregare nel momento della tentazione.
Inoltre è molto utile che il giovane concentri la sua attenzione su obiettivi morali sani e corrispondenti ai suoi gusti personali. Ciò gli consente di tenere occupata l’attenzione nel fare il bene, per cui le tentazioni diminuiscono.
Inoltre è molto importante la custodia dei sensi e saper guardare alla donna non come occasione di piacere, ma come la creatura che Dio ci ha messo accanto per aiutarci sulla via del bene. Altro consiglio è quello di evitare delle donne, che possono essere tentatrici. Inoltre è importante evitare discorsi lascivi o scurrili.
Per quanto riguarda la confessione, essa è necessaria in caso di colpa mortale. Considerando tuttavia che le cadute sono frequenti anche in giovani cattolici, c’è da supporre che solitamente la colpa sia solo veniale. In tal caso non occorre la confessione, ma è sufficiente una penitenza personale, come per esempio la recita di atti di dolore, l’astersi da alcuni cibi, fare sacrifici nell’operare il bene.