La virtù teologale della Speranza
Conferenza del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP
presso le Suore della Misericordia di Bologna, 11 dicembre 1988
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Seconda Parte (2/2)
La speranza è così: noi sappiamo che il Signore ci promette la felicità[1], la beatitudine in Lui Stesso, sappiamo che quel bene è ancora assente, ma non lo possediamo ancora. Ne abbiamo però la promessa dalla parte del Signore. È un bene assente, un bene importantissimo, l’unico bene che conta. La speranza teologale ci insegna proprio questo: l’unico bene che conta.
Ora, questo bene così importante, lontano ancora da noi, suscita il desiderio. Ma non solo; esso suscita la speranza, perché sappiamo che è un bene difficilissimo da raggiungere. Anzi, sappiamo di più. Sappiamo che è un bene umanamente impossibile da raggiungere. Vedete, cari fratelli, Chi ci dà la speranza? Solo Cristo Redentore.
Da soli non ce la faremo mai. Soprattutto poi dopo il peccato dell’origine. Veramente Sant’Agostino, dice delle parole sacrosante quando afferma che nello stato di peccato l’umanità è massa damnationis. Invece con il Cristo apparve la speranza. Perché? Perché allora quel bene difficile, continua ad essere difficile, ma nel contempo è possibile. In Cristo è possibile essere beati.
E allora bisogna sperare questo, cioè aspirare alla vita eterna, alla quale il Signore ci chiama come a un bene possibile, perché Gesù ci ha salvati, il Padre ci ha amati tanto da dare il suo Figlio Unigenito. I disperati[2] peccano proprio molto, offendono molto il Signore, perché non credono nel suo amore, avendo sotto gli occhi l’amore del Padre, che tanto ci ha amati da dare il suo Figlio Unigenito.
Vedete dunque come la nostra speranza è ben fondata. La speranza è un dovere. Però nel contempo essa, per quanto si appoggi su quella possibilità che Dio ci ha spalancato davanti, la speranza non è nulla di superficiale, non è nulla di facile.
Oggi spesso si parla della speranza, come se fosse la cosa più facile di questo mondo. Talvolta certe consolazioni, più che mi aiutarmi, mi urtano. Dicono: abbi speranza, non vedere così tutto nero. No, no. La speranza è cosa seria. Non si spera nel buon andamento del mondo. Si spera in Dio, cari fratelli.
E si spera con tanta umiltà e con tanta consapevolezza che se noi non ci sottomettiamo alla Legge del Signore, per quanto il Signore ci abbia amati, non ce la faremo. Perché non basta dire solo: il Signore mi ama. Se il Signore mi ama, allora anch’io devo amarLo, anch’io posso amarLo e perciò devo amarLo. E’ un potere e un dovere nel contempo.
Però non è solo. Ancora una volta Sant’Agostino un’altra volta ci ammonisce con le famose parole: “quel Dio che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te”. Vedete quante cose giuste e sante ci dice quel Santo Dottore. Quando il Signore ci ha creati, ovviamente, non c’eravamo ancora. Invece, adesso che ci siamo, il Signore crea la salvezza. Però in quella salvezza il Signore ci responsabilizza al massimo.
Quindi niente speranze facili e superficiali, speranze che poi deludono, perché sono umane. Notate come San Tommaso insiste che bisogna sperare da Dio nientemeno che Lui Stesso. Infatti la speranza teologale si appoggia non sulla azione di un uomo, ma sulla salvezza che Dio ha operato.
Ora, San Tommaso dice che sarebbe un oltraggio a Dio aspettarsi da Lui meno di Lui stesso. Pensateci bene. Il Signore è tanto largo nelle sue benedizioni, che ci vuole dare nientemeno che Se Stesso. E non è umiltà vera, quella che dice: Signore, non sono degno, non posso chiederTi Te Stesso. No, il Signore stesso vuole che noi Lo desideriamo, che noi Lo speriamo.
Vedete come dalla speranza nasce una santa violenza[3]. Intendetemi bene. Dice anche San Paolo: Spe roborati, cioè corroborati, resi forti dalla speranza. Noi siamo forti, perché speriamo. Se non avessimo speranza, ci indeboliremmo subito. Quando uno è disperato, le sue facoltà operative subiscono una vera e propria paralisi[4].
Avete già sperimentato forse un momento di angoscia e di paura, e proprio quasi di disperazione. Come tentazione, può succedere a tutti, per carità. In quel momento noi siamo talmente perplessi, che non facciamo nulla. Siamo completamente passivi. È come se tutte le nostre facoltà venissero meno. È uno stato che non auguro a nessuno, per la verità[5].
Allora, guai a noi si ci viene questa paralisi sul piano soprannaturale. Invece, se noi abbiamo speranza, le nostre facoltà sono vivaci, robuste e forti. Quindi tutta la nostra fortezza cristiana, tutto il nostro coraggio, accompagnati come siamo dall’aiuto del Signore, il coraggio del dovere, questa santa violenza, questo gloriarsi nel Signore derivano dalla speranza.
Voi riconoscete subito un uomo che è pieno di speranza. Non è colui che è ottimista rispetto al mondo. Ma è colui che, pur soffrendo nel mondo, sa sorridere, perché il Signore è la sua gioia. È questo il punto. Perciò bisogna che noi ci rendiamo conto della valenza vera della speranza, cioè che la speranza si appoggia non solo alla promessa di Dio, ma anche all’azione di Dio, e vuole da Dio ciò che l’azione di Dio produce, cioè Dio stesso nelle nostre anime, Dio beatitudine, gioia e luce delle nostre anime, luce eterna.
Quindi la speranza desidera da Dio nientemeno che Dio Stesso per la nostra anima. Notate però la differenza dalla carità. E qui c’è una leggera ombra di imperfezione nella speranza, che poi è tolta con il possesso beato in cielo, perché, mentre la carità vuole solo la santità, la maestà e la bontà infinita del Signore, la speranza vuole quella bontà di Dio, non per Dio stesso, come la carità, ma vuole quella bontà per noi[6]. Vedete la differenza.
Ecco perché alcuni Dottori della Chiesa, anche San Tommaso tra gli altri, dicono che mentre alla carità corrisponde il cosiddetto amore di benevolenza, per cui si vuole bene all’amico, perché è l’amico e non per qualche altro fine; alla speranza corrisponde l’amore detto di concupiscenza[7], ma nel senso buono della parola, perché c’è anche un significato deteriore. Qui la prendiamo nel senso buono, che è il desiderare il bene di Dio per noi. Ed è un desiderio buono. Intendetemi. Perché? Perché il Signore in fondo non vuole altro che questo. Cioè vuole dare Se Stesso a noi. Quindi noi, sperando Dio per noi, non facciamo altro che conformarci alla volontà del Signore, non facciamo altro che ubbidirGli nell’amore.
Ora, San Tommaso procede e si chiede se è possibile sperare anche per un’altra persona. E dice effettivamente di sì. E’ possibile sperare anche per la persona dei nostri fratelli. Non però immediatamente. È cosa interessante. Invece la carità è l’amore, che aggrega, congrega e unisce tante anime nell’unico bene del Signore. E’ stupenda la carità. Voi ben lo sapete. La carità è una vera e propria amicizia dell’anima con Dio. Ora, vedete come noi, quando abbiamo la fortuna di avere degli amici, immediatamente estendiamo il nostro amore anche agli altri amici, amici dell’amico. Così avviene anche in questa unione mistica. Tutta la vita mistica è carità. Non ce n’è un’altra, non c’è un altro fondamento. Tutta la vita di preghiera, la vita soprannaturale, è carità. E’ tutto qui. Ma non è poco.
Ora, la carità, che opera questa unione mistica dell’anima con il Signore, aggrega ovviamente in questa amicizia tutte le altre anime. Tutti coloro che sono amati dal Signore, sono amati da coloro che amano il Signore. Quindi in qualche modo la carità è immediatamente espansiva, vuole abbracciare tutti. E se non vuole così, non è carità. Talvolta si fa fatica, eh, miei cari. Però, c’è poco da fare. Il Vangelo non ci lascia delle scappatoie. Dice: se voi amate solo i vostri amici, solo quelli che vi fanno del bene, non avete ancora fatto nulla di particolare, insomma siete ancora pagani, non siete cristiani.
Allora, bisogna amare assolutamente tutti. Quindi desiderare, per tutti lo stesso bene della salvezza eterna. Ed è così che la speranza si estende anche ai fratelli, non immediatamente, ma tramite la carità. Di per sé la speranza desidera solo il bene proprio di colui che spera. Cioè io voglio per me il bene di Dio. Poi però incomincio ad allargare la prospettiva e dire: quel bene che desidero per me, lo desidero anche per i miei amici nel Signore.
Questo però solo tramite la carità. Notate che purtroppo anche la speranza, come d’altronde anche la fede, può rimanere come si dice informe. È una cosa importante. Ci sono delle persone esagerate, che dicono: senza la carità non c’è nemmeno fede e nemmeno speranza. Non è vero. Per fortuna non è vero.
Perché, con ogni peccato mortale noi uccidiamo letteralmente la vita divina nella nostra anima: lo stato di grazia e anche la virtù teologale della carità. Però per fortuna, sia benedetto Dio, ci rimane un trampolino di lancio, come lo chiamo io: quando tutto si fa nero, e mancano la carità e i doni dello Spirito, rimane però la fede e la speranza.
Purtroppo anche la fede e la speranza, si perdono non però con ogni peccato mortale, ma con i peccati specifici contro queste virtù. Per esempio, chi cade nella eresia, perde la fede. Chi cade nella disperazione, perde la speranza. Invece, chi fa un altro tipo di peccato, perde sempre la carità, se il peccato è mortale, ma fortunatamente gli può rimanere la fede e la speranza. Ed è cosa bellissima.
Vedete come queste anime, che sono lontane da Dio, avendo però ancora questo tenue germe soprannaturale di fede e di speranza, aspirano poi ed anelano alla carità. È quello che poi muove queste anime a fare la dovuta penitenza, a riconciliarsi con il Signore e a rivivere nel suo Santo Spirito. Allora notate come la carità consolida la speranza e la rende più generosa senza mutarla nella sua essenza.
Chi ha soltanto la speranza, e non la carità, è un tantino egoista. Vuole il Signore, ma Lo vuole per sé. Invece chi ha la speranza assieme alla carità, allora ovviamente, considerando la felicità e la beatitudine di Dio come il suo vero bene, anzi l’unico vero bene, estende la sua speranza anche agli altri. Desidera questo stesso bene per tutti gli amici, per tutti i fratelli, e per tutte le sorelle.
Una domanda non senza interesse è quella che si chiede se l’uomo può sperare in un altro uomo. Ah, qui San Tommaso accenna proprio alla maledizione di Geremia. Mi viene un brivido ogni volta che la leggo. Dice Geremia: “Maledetto l’uomo che confida in un uomo”[8]. Guai, al giorno d’oggi, dire così. Temo che se Geremia vivesse con la nostra teologia contemporanea, l’avrebbero buttato un’altra volta nel fosso[9], come fecero i preti nel Tempio di Gerusalemme, ai tempi di Geremia.
Geremia avrebbe la stessa sorte. Perché? Perché Geremia a noi appare pessimista. E invece, no. E’ che la sua speranza è limpida, cioè non è idolatrica. Geremia dice: solo il Signore è l’unica nostra vera sicurezza; tutto il resto può deludere; Lui, mai. Oh, bisogna proprio purificare molto queste virtù. E lo sapete bene, fratelli cari. Noi ci lamentiamo: Signore, perché quella sciagura, perché quel male? Capite. Ma poi se il Signore ci dà sempre la grazia e l’aiuto, se superiamo quella sofferenza, ci rendiamo conto che la nostra speranza ne esce consolidata. Perché?
Perché diciamo: Signore, sono stato malato, sono stato triste, sono stato proprio abbattuto, ma ho avuto tanti cari amici che volevano aiutarmi. Certo. Infatti, non penso che qualcuno sia del tutto abbandonato. Questo è capitato forse solo a Gesù. Nel Getsemani è stato abbandonato da tutti. A noi generalmente il Signore dà qualche consolazione, qualche amico.
Però uno dice: Signore, hanno voluto aiutarmi i miei amici, ma non era a loro possibile. Ah, lo sperimentiamo bene. Voi sapete, fratelli, che quando assistete una persona gravemente provata, come è difficile consolarla; le parole umane vengono meno. E allora, in questo completo sconforto o perché c’è chi non vuole consolare o c’è chi pur volendo non può consolare, rimane però una sola cosa, rimane Dio.
E noi nel medesimo momento ci dibattiamo, piangiamo e diciamo: Signore, perché? Il Signore ha un suo perché preciso: per purificare la nostra fede e la nostra speranza. Il Signore ci mette spesso duramente alla prova, perché impariamo ad avere fiducia solo in Lui, che solo la merita. È così, cari fratelli.
Allora vedete che l’avere speranza, certo ci fa apparire il sorriso e nell’anima e sulle labbra, così come vi ho detto che la speranza porta coraggio. Ma non è la speranza superficiale, oserei dire, antiteologale, ossia la speranza propria del superficiale ottimismo. Scusate fratelli, ve lo dico proprio di cuore. Non pronuncio queste due parole ottimismo e pessimismo, perchè sono entrambe troppo mondane per potersi applicare alle realtà cristiane.
Ma c’è chi vuole accreditare come speranza un certo chiudere gli occhi davanti a quello che succede. Per esempio, uno dice: “il mondo effettivamente non va proprio per il meglio”. D’altra parte, come potrebbe andare bene, dato che è sotto il dominio di quel principe che tutti conosciamo? Magari non ne avessimo fatta conoscenza! Ebbene, essendo il mondo sotto quel nefasto potere, è solo possibile salvarsi dal mondo. Ma il mondo come tale[10] non può che andare male. Chi non vuole riconoscerlo non è uno speranzoso, è solo superficiale. E’ tutto qui.
E quindi non bisogna mai dire: tu hai delle visioni troppo nere, troppo tetre, eccetera, quindi non sei un uomo di speranza. No, io sono un uomo di speranza, non perché spero nel mondo, ma perché disperando del mondo, attacco la mia unica speranza nel Signore.
Poi certo, adesso, dopo aver citato Geremia, cercherò di attenuare le cose. Ci può essere infatti anche una buona speranza nelle creature. Ma non intese come fine ultimo. E’ questo il punto. Quindi San Tommaso dice che come noi dobbiamo sperare come sommo bene e fine ultimo solo Dio e nient’altro che Dio, possiamo poi assieme a Dio desiderare e sperare tanti altri beni minori, che il Signore pure ci dà, per non abbatterci troppo.
Così possiamo fidarci pure dei nostri amici. Per questo il profeta Geremia non ci insegna una diffidenza verso tutti, una specie di atteggiamento quasi paranoico o psicopatico. Ma ci insegna proprio a confidare in Dio come nell’ultima causa di ogni nostro bene, Dio, il Signore, il Quale fortunatamente si serve di tante persone buone, di tante circostanze non solo brutte ma anche liete e via dicendo. Però quello che è sempre da tener presente è che la speranza ha il suo appoggio in Dio e in Dio solo.
Ora, un’ultima parola e poi dò la parola anche a voi, così mi direte qualcosa anche voi. L’ultima parola sulla speranza, la fede e carità, cioè il dinamismo delle virtù teologali, la ricaviamo della figura di Maria, la quale è la donna della speranza.
Solo brevemente: fede, speranza e carità. In primo luogo, per sperare e amare teologalmente bisogna avere anzitutto la fede. Anche qui ci sono persino teologi che cominciano a negarlo. Invece, no. È impossibile, perché la Lettera gli Ebrei dice che per chi vuole accedere a Dio, la prima condizione è quella che egli creda che esiste. E ancora: nessuno può piacere al Signore, se non crede. E San Tommaso naturalmente è contento di sentirselo dire dalla Scrittura, perché penso che si veda confermato nella sua giusta convinzione, che l’intelletto umano è veramente una facoltà fondamentale. La nostra stessa volontà, che è stupenda nel suo amare, non potrebbe amare convenientemente, se non conoscesse il bene da amare.
Quindi è importante che l’intelletto illumini la volontà, affinchè la volontà si muova a desiderare, a sperare e ad amare. E così nessuno può avere speranza in Dio o amore di Dio, se non sa che Dio è buono e che Dio è un amico, che non delude e che aiuta. Se noi non sapessimo che il Signore ci aiuterà a conseguire la salvezza, saremmo dei disperati o degli incoscienti. E però non avremmo la vera speranza.
Noi sappiamo che quel bene della salvezza ci è possibile, non tramite noi e la nostra opera. Ma è possibile solo tramite l’aiuto di un amico, che in questa circostanza è il Signore stesso. Dice ancora San Tommaso, e sono parole belle, che tutto ciò che noi possiamo per opera dei nostri amici è come se lo potessimo noi stessi.
Se uno sa che ha un amico, sul quale può assolutamente confidare può essere fiducioso. Così più che mai possiamo essere fiduciosi in Dio, perché un amico umano anche buono può sempre venir meno; invece Dio è un amico buono e onnipotente, che non viene mai meno nel suo amore e nel suo potere aiutarci.
Allora, in questo senso noi appoggiamo la nostra speranza in Dio, perché sappiamo che il Signore ci ama, e perché sappiamo che il Signore ci può aiutare con la sua onnipotenza. E, se non sapessimo questo, noi non spereremmo. E allora solo tramite la fede, che ci fa conoscere queste due realtà, noi ci muoviamo a sperare. Rispetto alla carità, è interessante, anzitutto l’ordine del nascere di queste virtù: prima speriamo e poi amiamo.
E’ un po’ come nelle vicende umane. Se stiamo male e qualche persona buona ci aiuta, allora noi prima accogliamo questo aiuto, e poi ci rendiamo conto che quella persona proprio ci aiuta per un solo motivo: perché ci vuole bene. E allora impariamo che l’aiuto, che quella persona ci dà, è ispirato dall’amore. E penso che non ci sia alcun’anima così arida e chiusa, che non corrisponda all’amore che le è donato. Quindi nasce un’amicizia.
Così similmente con il Signore. Prima noi sperimentiamo la soavità, la dolcezza dei benefici di Dio. E poi poco alla volta impariamo che il Signore è buono. E imparando che il Signore ci ama, ci muoviamo anche noi a amarLo. E abbiamo la carità. E sotto quest’aspetto, prima c’è la speranza, e poi c’è la carità.
Sotto un altro aspetto però, l’abbiamo ben detto, la carità porta la speranza alla sua più completa perfezione, soprattutto a questo espandersi della speranza, che va al di là del desiderio della vita eterna per me, fino a desiderare la vita eterna per i fratelli. E’ quella che muove San Paolo alla speranza quando dice: caritas Christi urget nos. La carità ci spinge a predicare la Parola del Signore, per portare in cielo non solo la nostra anima, ma anche quella dei fratelli.
Un’ultima parola ancora, sulla Beata Vergine, dulcis in fundo. E’ proprio dolce e doveroso, come dice il Praefatio, concludere così. Vi dico solo queste semplici parole, che la teologia ci insegna, e anzi ormai possiamo dire la fede ci insegna. Mentre Gesù non aveva nè speranza nè fede, ma aveva solo l’amore; si può dire proprio a chiare lettere che la Madonna è una donna di fede, di speranza e di carità.
Dice appunto Santa Elisabetta: “Beata tu, che hai creduto che si adempirà in te la Parola del Signore”. La Madonna ha creduto e ha sperato, ha atteso l’adempimento della Parola del Signore. Si è appoggiata anche lei sulla Parola del Signore, come gli Apostoli. Vedete che è un appoggiarsi, come quando gli Apostoli, dopo una notte che non hanno preso neanche un pesciolino, tuttavia hanno detto: “Sulla tua Parola gettiamo le reti”.
Così la Madonna si è appoggiata sulla Parola. Vedete la struttura della vera speranza: “Beata te, che hai creduto nell’adempimento di una Parola, che non è umana, ma è Parola di Dio”.
Ora, cari fratelli, perché dico che Gesù non aveva la fede? Potrebbe urtare, detto così. E invece, no. Non è che sia stato incredulo, perché Gesù è perfetto. Ce lo insegna, ripeto, la fede. E’ perfetto, come lo sono i beati in cielo, perché la teologia dogmatica ci insegna che il Salvatore è, come dicevano gli Antichi, simul viator et comprehensor.
Gesù, nella sua vita terrena, era nel contempo in cammino e comprensore; adesso invece è solo comprensore. Ma quando viveva qui sulla terra era in via verso il Padre, per esempio verso la resurrezione, che non c’era ancora stata. Però nel contempo era già comprehensor, perché la sua anima ipostaticamente unita alla divinità era inondata dalla luce della visione di Dio. E questo lo crede proprio la Chiesa. Non è opinione di alcuni teologi un po’ esagerati.
Quindi, in Gesù non c’era la fede, ma c’era la visione; non c’era la speranza, ma c’era il possesso pieno di Dio[11]. Come poi ciò sia avvenuto, notate bene, è un mistero grande. E come poi ciò abbia consentito al Salvatore di gustare fino in fondo la asprezza della passione senza che nulla gli sia stato risparmiato, rimane un grande mistero.
Ma non bisogna usare criteri umani. Alcuni dicono che il Salvatore per poter soffrire, non poteva avere la visione beatifica. No. Anzi, qualcosa mi induce quasi a credere, ma non riesco a formularlo bene, che Gesù abbia sofferto anzi di più, perché ha visto il Volto del Padre[12].
Comunque, fratelli cari, Gesù non aveva in questo senso nè fede nè speranza. La più grande fede e la più grande speranza che mai ci sia stata in un’anima, è quella di Maria. E però bisogna parlare sempre con rispetto della Beata Vergine, perché vi ho detto che la sua speranza è perfetta.
Ora, anche i discepoli hanno chiesto al Signore: “Signore, aumenta la nostra fede”. E forse, sotto un certo aspetto, anche la Madonna potrebbe dire: “Signore, aumenta la mia fede”, nel senso di una crescita interiore, perché il Signore può sempre fare di più, cioè dare di più, Egli è infinito. In quel senso è possibile[13]. Però guai se uno pensa che la Madonna abbia avuto anche per un solo momento una esitazione, una titubanza o un rifiuto.
Noi spesso tendiamo a umanizzare troppo Gesù e a trascinare troppo l’Immacolata nelle macchie della nostra vita non immacolata. Vedete come la fede è questione di un dolce equilibrio. Dico dolce, perché è tutto pieno di quel pius credulitatis affectus, di quell’innamoramento della verità di Dio, che ci porta a rispettare tutte le sfumature della santa fede.
Ora, bisogna dire che anche la Madonna ha conosciuto l’oscurità della fede, e l’oscurità della speranza, cioè il non possedere ancora. Però ha vissuto tutto questo con una assoluta perfezione, a differenza anche dei più grandi santi. Nella Madonna c’era sempre un appoggiarsi completo e fiducioso al Signore.
Certo, signora, vede. E’ molto bello, quello che lei dice. Penso che interessi non poche persone, perché molti anticipano questa domanda. Anche rispetto a Gesù. Quando prendo qualche esempio della vita di Gesù, dicono: ma sì, ma Lui era Dio.. È un bel monofisismo, questo, come se Gesù, per essere Dio, non fosse anche pienamente uomo.
Certo, uomo perfettissimo. E però, uomo, realmente uomo. E allora, bisogna dire questo, che certamente non possiamo imitare Gesù nella sua divinità e la Madonna nel privilegio dell’Immacolata Concezione e della Divina Maternità. Questo non è ripetibile.
Ci sono alcuni che dicono che Gesù ha subito delle tentazioni che non poteva evitare. La differenza è questa, che mentre noi, che abbiamo conosciuto la macchia del peccato, possiamo essere tentati anche dal di dentro, dalla nostra scadente umanità, cioè da quelle che gli Antichi chiamavano le tentazioni della carne, la concupiscenza depravata, di questo in Gesù e nella Immacolata Vergine non c’era nemmeno un’ombra. Fortunati loro, per la verità.
E però anche noi nella apocatastasi[14] di tutte le cose, siamo chiamati a questo nella risurrezione futura. Però, sia Gesù che la sua Madre Santissima potevano e sono stati tentati più ancora di noi, proprio dalle tentazioni esterne. Cioè Gesù non poteva certo provare tentazioni che venissero dalla sua umanità, perché quella era perfetta. Però ha sperimentato l’inimicizia del demonio più di ogni altro uomo. E’ terribile, questo. Il demonio ci sottovaluta come suoi avversari, mentre in Gesù, ha subito intuito che lì viene uno che riuscirà a sconfiggerlo.
Quindi Gesù ha subito tentazioni molto più gravi, però dall’esterno, cioè proprio le tentazioni diaboliche, e anche forse dal mondo[15]. Generalmente, così si dice, la sorgente di tentazione è triplice: la carne, il mondo e il diavolo.
Ora, Gesù e sua Madre Santissima non avevano tentazioni interiori, ma solo quelle dall’esterno, quelle soprattutto del demonio. E come! Per esempio pensate al Getsemani, pensate proprio anche a quello che la Madonna doveva vivere in quel momento in cui proprio il Signore l’ha chiamata alla divina maternità. Pensate a tutto quel dramma, che la Scrittura non descrive.
Pensate proprio alla delicatezza con cui la Madonna amava anche il suo sposo. E tutto quello che si poneva sul piano umano, come proprio come domanda angosciosa. Tutto questo la Madonna l’ha sperimentato. Ma non per difetto suo, bensì come una situazione che veniva dal di fuori.
P. Tomas Tyn, Op
Registrazione e custodia dell’audio a cura di diverse persone
Trascrizione da registrazione di Suor Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 6 settembre 2015
Testo con note rivisto da Padre Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 3 dicembre 2017 – Fontanellato, 8 aprile 2025
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Il Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP
Foto delle Suore Domenicane di Santa Caterina, Bologna
[1] Padre Tomas non sviluppa i contenuti di queste promesse. Potremmo qui accennare a qualcuno di questi contenti, come per esempio, la speranza della propria risurrezione, quella di entrare in comunione con i Santi, di rivedere i propri cari defunti, e di vedere la bellezza dei nuovi cieli e della nuova terra.
[2] I disperati nel linguaggio moderno sono più degni di compassione che di riprovazione. Padre Tomas si riferisce a coloro che ribelli a Dio non vogliono sperare, pur avendo ragione di farlo. Si tratta di coloro che la Bibbia chiama «empi».
[3] Con riferimento al passo di Mt 11,12.
[4] Padre Tomas si riferisce al disperare nel senso dello scoraggiamento. Ma esiste un disperare o non sperare in Dio, che è grave colpa. In questo caso il soggetto non è affatto abbattuto, ma fa lo spavaldo e il gradasso per nascondere con vani discorsi il suo vuoto interiore.
[5] Qui Padre Tomas parla della disperazione non come peccato contro la speranza, ma come stato d’animo di sconforto e di abbattimento. In questo caso bisogna dar motivi per sperare in modo che il soggetto sia confortato e incoraggiato.
[6] La speranza è motivata da un sano interesse e precisamente dall’interesse che suscitano le promesse del Signore. Nella speranza, quindi, l’uomo confida di poter essere salvato. Invece la carità si proietta verso Dio e verso tutti. Coloro che dicono che bisogna sperare per tutti confondono la speranza con la carità.
[7] Amore interessato.
[8] La traduzione esatta non è «in un uomo», ma «nell’uomo». Infatti non si condanna in generale quella fiducia che è necessaria alla convivenza civile, né il dovere o la facoltà di confidare motivatamente in una persona autorevole ed affidabile, ma il profeta intende condannare l’antropocentrismo o l’idolatrazione dell’uomo, come se fosse Dio.
[9] E’ una cisterna.
[10] In questa situazione.
[11] San Tommaso al riguardo dedica un articolo della Somma Teologica e dopo aver escluso che Cristo abbia avuto la speranza teologale, dice: «ebbe tuttavia speranza riguardo alcune cose che ancora non aveva conseguito. Infatti, benché Egli conoscesse pienamente tutte le cose, per cui si esclude totalmente la presenza in Lui della fede, tuttavia non aveva ancora pienamente tutte quelle cose che riguardavano la sua perfezione, per esempio la gloria del corpo e l’immortalità, che poteva sperare» (III, q.7, a.4).
[12] Gesù è rimasto tanto più addolorato, quanto nella visione beatifica vedeva molto meglio di noi, la grandezza del sommo Bene, che i peccatori rifiutano.
[13] Una crescita della fede nella Madonna durante la sua vita terrena.
[14] Ricapitolazione.
[15] Una tentazione proveniente dal mondo è quando la folla che ha assistito al miracolo della moltiplicazione dei pani, vuole farlo re.
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