Dante iniziatore al mistero di Cristo. Un nuovo libro di Fabrizio Fabbri

 

 

Dante iniziatore al mistero di Cristo

Un nuovo libro di Fabrizio Fabbri

 

Un maestro che introduce a un altro maestro

Ho già avuto modo di parlare su questo blog del Professor Fabrizio Fabbri, insegnante di religione nelle scuole pubbliche, che da diversi anni sta compiendo un prezioso lavoro di introduzione al cattolicesimo utilizzando gli insegnamenti della Chiesa e degli scrittori cattolici.  Questa volta vi segnalo un recentissimo volume dedicato all’esperienza didattica di Fabbri relativa alla presentazione agli alunni della Divina Commedia di Dante[1].

Continuando il metodo espositivo seguìto in opere precedenti, l’Autore accompagna il resoconto della sua esperienza educativa con quello dei commenti  degli alunni, la lettura dei quali è sorgente per noi cattolici di grande soddisfazione per le loro reazioni favorevoli e a volte addirittura entusiastiche, soprattutto se teniamo conto di una situazione come quella delle scuole pubbliche, il cui clima culturale generale non si può dire certo che sia dei più favorevoli all’accoglienza e apprezzamento della letteratura cattolica.

Fabbri nota come esiste un inveterato approccio al testo dantesco di marca laicistica che si forza di ignorare quanto nell’opera dantesca testimonia della fede cattolica di Dante, illumina la mente e scalda il cuore con lo splendore della verità salvifica rivelata e trascinanti esempi e quindi forma alle virtù umane e cristiane, allontanando dai vizi, dagli errori nella fede e nella morale e dai cattivi costumi.

Nella Divina Commedia la lezione del teologo, la cultura del tempo, l’istruzione catechetica, i sentimenti dell’animo dell’Autore, la passione morale, l’alto afflato mistico, il fascino della creazione poetica, il linguaggio di una consumata maestria del verso, l’emozionante intuizione lirica ed una straordinaria sensibilità estetica convergono assieme e coinvolgono l’ammirato lettore nella totalità delle sue potenze e facoltà, per cui si sente spinto a condividere il cammino penitenziale e il proposito di purificazione spirituale dell’Autore.

Il disegno di Dante nel progettare la Commedia è stato quello della più chiara e schietta tradizione ascetica cristiana, una meditazione sui misteri dell’oltretomba al fine di emendare una vita giunta in una condizione  di smarrimento e di allontanamento dalla retta via: recuperare i valori trascurati e negletti, ritrovare il giusto cammino alla luce della meditazione di questi misteri di salvezza: il pensiero delle pene dell’inferno ci ricorda quali sono le conseguenze del peccato mortale non perdonato, il pensiero delle pene purificatrici del purgatorio serve a farci evitare anche il peccato veniale e a farne penitenza adesso, per non doverne scontare le pene in purgatorio.

La visita in paradiso serve per invogliarci a impiegare tutte le nostre forze per l’edificazione del regno di Dio, a farci vendere tutto per l’acquisto della perla preziosa, a fare ogni sacrificio ed accettare ogni sofferenza, pur di raggiungere la città celeste, a non risparmiare alcuna fatica pur di arrivare a vedere il volto del Padre.

Nel descriverci l’esperienza della sua visita del Paradiso, Dante, da buon cattolico discepolo di San Tommaso, è ben lontano   dal voler darci ad intendere di avere avuto la stessa esperienza dei beati, ossia di avere avuto la visione beatifica immediata dell’Essenza divina. Dante infatti sa benissimo di trovarsi ancora nella condizione presente del viatore ferito dal peccato originale e non di coloro che hanno raggiunto la meta celeste.

Egli sa bene, cioè, che la luce nella quale vede Dio non è ancora la luce della gloria celeste, ma la luce della fede, per la quale noi attingiamo ai misteri rivelati per mezzo di immagini e concetti. Ecco allora qui, oltre alla funzione dei dogmi, quella del linguaggio della poesia.

La mistica dantesca è teista, non panteista

Dante vive in una temperie spirituale, quale quella del sec. XIV, che vede una fioritura della mistica. Negli anni immediatamente seguenti sarebbe sorta la grande figura di Caterina da Siena. Nell’Europa del Nord e specie in Germania, anche nell’Ordine domenicano, che pur doveva essere fedele a San Tommaso compare una mistica che calca esageratamente da una parte sulla nullità della creatura e dall’altra esagera il valore della grazia capovolgendo il suo nulla nel Tutto e diventa Dio. Col pretesto della grazia, il mistico si identifica con Cristo.

Invece di un’autentica fedeltà al sano realismo biblico che distingue chiaramente la creatura dal creatore, s’infiltrano nella mistica influssi pagani, neoplatonici, parmenidei, plotiniani e gnostici, col rischio quindi del panteismo. È vero che San Tommaso aveva utilizzato Aristotele per interpretare il Vangelo, ma lo aveva fatto con tale prudenza, da evitare ogni pericolo. Invece purtroppo alcuni Domenicani tedeschi non ebbero questa prudenza e caddero nell’eresia.

Caso emblematico fu quello di Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, il quale era giunto a dire che «l’occhio col quale io vedo Dio è lo stesso occhio col quale Dio vede me». Ben diversa è la posizione di Dante, il quale, ben consapevole che per adesso quaggiù noi possiamo vedere Dio solo per mezzo dei concetti e delle creature, ebbe sì una visione del paradiso e ci narra di esservi stato, ma è chiaro che tutto ciò va inteso come descrizione di un’esperienza mistica e quindi raffigurazione poetica e simbolica di un’esperienza che resta sempre nei limiti della conoscenza di fede.

Beatrice, la donna sublimata del «dolce stil novo».

Come sappiamo, Dante vive quel clima proprio del passaggio dal XIII° al XIV° secolo che ha ricevuto l’influsso dei poeti provenzali, che a loro volta erano stati influenzati dalla sublime mariologia di San Bernardo. Così era nata la figura del cavaliere crociato che dedicava la sua eroica impresa alla sua donna, considerata come signora, una «dama», da domina, da cui donna, il francese ma-dame da cui Madonna, mentre il concetto della femminilità si andava rapidamente liberando dal maschilismo, residuato del paganesimo e si avvicinava sempre più alla figura sublime di Maria Santissima, ideale della donna[2].

In questa atmosfera spirituale di alta stima per la donna si comprende la missione specialissima di Beatrice nell’aprire a Dante l’occhio a vedere le cose celesti in paradiso. Dice infatti Dante espressamente che nella sua visione del paradiso vide Dio non immediatamente in se stesso, ma solo indirettamente negli occhi di Beatrice che vedeva Dio. E qui vediamo l’importanza essenziale e provvidenziale della nobilissima figura di Beatrice sia nella vita umana che in quella di fede di Dante.

Come infatti sappiamo, Beatrice fu una donna realmente esistita, di grande pietà religiosa e di straordinaria bellezza, che Dante improvvisamente incontrò da fanciullo e Firenze, fanciulla  che, per divina grazia, accese nel cuore di Dante un amore fulmineo, profondo, sublime e indelebile, che sarebbe cresciuto nel tempo in un continuo processo di purificazione, fino a che per Dante Beatrice, simile alla Madonna, diventa per lui una ianua caeli, una perfetta mediatrice della stessa visione di Dio.

Dante dunque visita il paradiso con straordinaria immaginazione poetica, intuitività ed emozione mistica, nonchè acuta intelligenza teologica, affidandosi alla guida di Beatrice, figura della Madonna, ed al contempo donna che realmente egli incontrò ed amò su questa terra.

Ciò peraltro testimonia di quanto Dante, alla luce della fede e grazie alla sua ricchissima umanità, abbia compreso la dignità della donna, al di là del tradizionale maschilismo che sarebbe durato fino al secolo scorso e in certi paesi o ceti sociali dura ancora, anche all’interno della Chiesa. Ed anche in ciò Dante fu certamente profeta. Egli non sposò Beatrice, non sappiamo perché, ma sposò un’altra donna, dalla quale ebbe una figlia che chiamò appunto Beatrice e a Ravenna esistono ancora gli avanzi del monastero domenicano dove Beatrice visse da monaca.

Dante precorritore della moderna laicità cattolica

Facciamo un’altra considerazione. Certamente nell’attuale clima ipocrita di amnistia generale, buonismo bonaccione, di perdonismo a basso prezzo, di misericordismo di comodo, di chiusura non di un solo occhio, ma di entrambi, di voglia di primeggiare sugli altri, di irrisione nei confronti degli onesti e della verità, di simpatia per la doppiezza, di cecità verso il trascendente e nei confronti dei valori non negoziabili,  metafisici e soprannaturali, di attaccamento ai piaceri carnali, di cecità spirituale, l’esplosivo messaggio di Dante rompe le uova nel paniere, e arreca un notevole disturbo. Ma è la sorte di tutti i profeti da Socrate e da Antigone ai profeti biblici e Gesù Cristo a San Tommaso a Caterina da Siena al Savonarola, a Garrigou-Lagrange, a Maritain a Fabro, a Coggi, allo stesso Magistero della Chiesa, perché anch’esso è profezia. 

Un segno dei tempi è oggi la maggiore preparazione e il maggior coraggio che a volte si constata nei laici rispetto ai vescovi nell’annuncio del Vangelo e nella denuncia e correzione dei vizi e degli errori.

Il fenomeno del silenzio dei pastori come «cani muti» davanti alle ingiustizie e ai soprusi è sempre esistito, ma non mai come oggi. Certi vescovi non solo sono assenti o fuggono davanti al lupo, ma pare che neppure si accorgono della sua presenza ed anzi alcuni sembrano addirittura scendere a patti con lui.

Sembrano ossessionati dal timore di essere troppo severi e da uno smodato desiderio di piacere al mondo e di mescolarsi alla gente, con finta umiltà e con il pretesto della sinodalità, dimenticando la loro grave responsabilità di padri, di maestri e di guide del popolo di Dio, salvo poi a volte colpire degli innocenti per non dar fastidio ai modernisti.

Dante rappresenta gli albori della presa di coscienza della dignità del laico cattolico e della propria facoltà di richiamare, all’occorrenza, i pastori e il Papa stesso al loro dovere specifico ed insostituibile, che è quello di insegnare, custodire e spiegare il Vangelo e promuoverne con ogni impegno l’applicazione.

La missione del pastore, certo, può comportare, in certe circostanze urgenti, il pronunciarsi in campo temporale e l’uso di un certo potere temporale, ma sempre con distacco, sobrietà, discrezione e moderazione, senza mostrare cupidigie e senza piccinerie, senza mai trascurare le esigenze della vita spirituale, giacchè, come insegna Cristo, è a Cesare che va dato ciò che gli appartiene, mentre a Dio si deve dare ciò che è di Dio.

Ora, grande merito di Dante, che testimonia dell’aspetto profetico della sua visione della Chiesa, è che egli avverte dolorosamente gli inconvenienti causati  dalla famosa donazione di Costantino, della cui falsità ai suoi tempi non ci si era ancora accorti.

Guelfi e ghibellini 

Per questo motivo Dante, come è noto, apparteneva al partito dei ghibellini, dal tedesco weibling, che ebbero origine in Germania nel sec. XII, legati alla Casa imperiale degli Hohenstaufen, la quale, senza affatto negare il primato del potere spirituale pontificio su quello temporale, intendeva gestire da sé questo potere e non in dipendenza dal Papa. A questo partito si opponeva, come è noto, quello dei guelfi, dal tedesco welf, legato alla Casa dei Duchi di Baviera, i quali invece vedevano bene il potere temporale del Papa, dal quale traevano vantaggi.

Dante pertanto si oppose, come è noto, all’arrogante temporalismo di Papa Bonifacio VIII, ponendolo addirittura all’inferno. Ma questa opposizione di Dante al papato non ebbe nulla a che vedere con l’odio antipapale che sarebbe stato quello di Lutero.

La severità di Dante contro Bonifacio fu esclusivamente dettata proprio dall’amore per la vera missione del Papa, al quale Cristo non dette alcun potere temporale[3], ma solo la missione di rappresentarLo in terra, nel che il Papa deve trovare sufficiente soddisfazione senza cercare altro. Che Dante vedesse sinceramente in Bonifacio il Vicario di Cristo è testimoniato dai famosi versetti dove dice che nello schiaffo di Anagni fu Cristo stesso ad essere schiaffeggiato.

Oggi non abbiamo più i guelfi e i ghibellini, ma abbiamo i passatisti e i modernisti, i quali in qualche modo possono essere confrontati con i primi.

Infatti i passatisti vorrebbero un Papa fermo al papato del Concilio di Trento o al massimo al Vaticano I, quando esisteva ancora il potere temporale, mentre i modernisti vorrebbero un Papa sessantottino, un giullare senza fissa dimora, squattrinato, a loro servizio e che permettesse loro tutti i piaceri della vita nella certezza della salvezza, senza alcun riguardo a premi o castighi, perché tutti in fondo sono buoni. Il bello è che i modernisti pretenderebbero loro di far la figura dei guelfi, cioè dei paladini del Papa contro i “ghibellini”, i quali restano fermi allo Stato della Chiesa del Beato Pio IX.

Certamente il parallelo che ho fatto tra la coppia guelfi-ghibellini e modernisti-passatisti vale solo nei termini che ho detto, perchè è chiaro che il clima storico dei primi è differente da quello di oggi. Nel Medioevo la divisione fra cattolici era tra chi sosteneva il potere temporale dell’Imperatore contro il potere temporale del Papa (ghibellini) e coloro che viceversa sostenevano il potere temporale del Papa al di sopra di quello dell’Imperatore (guelfi).

Oggi la divisione è data fra coloro che strumentalizzano il Concilio Vaticano II e il Papa in senso modernista, ossia i modernisti – e sono i guelfi di oggi - e coloro che rifiutano il Concilio e il Papa e vogliono tornare al preconcilio perché credono che il Concilio favorisca il modernismo, e sono i passatisti - che potrebbero essere confrontati con i ghibellini. Ma fra le due coppie resta sempre questa somiglianza: la divisione fra coloro che ce l’hanno col Papa (passatisti-ghibellini) e coloro che fingono di essere con lui, ma in realtà lo strumentalizzano per i loro interessi puramente politici e terreni (guelfi-modernisti).

Ora è chiaro, però, che Dante oggi sarebbe un ghibellino, ossia un passatista, solo in quanto contrario a un Papato secolarizzante, ma non sarebbe certo ostile al Concilio; al contrario, lo avrebbe apprezzato e applicato nel suo giusto senso, perchè Dante, in quanto tomista, aveva perfetta coscienza del progresso della Chiesa nella storia e anche in ciò precorre la moderna sensibilità per il valore della storia e del progresso storico.

Diciamo dunque in conclusione che imparare oggi da Dante vuol dire imitarlo nella sua testimonianza di cattolico e di laico, fare della poesia un’educazione alla fede, nonché mettere in pratica le direttive del Concilio Vaticano II sull’autonomia ecclesiale e temporale dei laici nella comunione con i Vicari di Cristo, che non sono è più i San Pio V o i Beato Pio IX o San Pio X, ma sono i Papi del postconcilio fino all’attuale Papa Leone XIV.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 luglio 2025


 



[1] Lo splendore della verità. Insegnare religione cattolica con Dante, Edizioni Il Cerchio 2025.

[2] È interessante il confronto col Petrarca, vissuto nello stesso secolo, dove il culto di Laura si risolve in un misero servilismo, per quanto espresso in raffinatissimi versi, che malamente copre un sostanziale desiderio sensuale e un permanente maschilismo, mentre Laura è una bellissima dea pagana che nulla ha a che vedere col rapporto con Dio.

[3] Significative le parole di Pietro in At 3,6 «non possiedo né oro né argento».

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