Il Giudizio di Dio
Il mistero della morte
Parte Prima (1/3)
Non sapete né il giorno né l’ora
Mc 13,35
Tenetevi pronti, perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo verrà.
Mt 24, 44
Preparàti alla morte
Gesù Cristo collega la futura nostra morte alla sua venuta come Giudice glorioso e misericordioso. Così l’attesa della morte per il cristiano è l’attesa di Cristo. È evidente quanto questo pensiero sia consolante ed incoraggiante. La tetra ombra della morte è assorbita dalla luce gioiosa di Cristo. Non ci viene incontro la morte ma la Vita che ha vinto la morte.
Oppure si può dire che per il cristiano la morte apre le porte della Vita. Viene Colui che fa cessare in noi per sempre ogni sofferenza, ogni angoscia, ogni turbamento, ogni tormento, ogni dubbio, ogni colpa. È la venuta dello sposo, del quale parla la parabola delle dieci vergini. Ciò ci stimola a tenere i conti a posto, in modo che alla sua venuta sappiamo presentarGli un rendiconto onorevole e lodevole, così che non ci sia più nulla da pagare e, se ci fosse, ci attende il purgatorio. E se non avessimo fatto quello che dovevamo fare? Se avessimo sepolto il talento anziché trafficarlo? Dio non voglia!
Gesù però si paragona anche a un ladro, che non viene certo atteso, ma inaspettato e molto sgradito. Come mai questo contrasto fra il ladro e lo sposo? Non è difficile capire: Gesù viene come sposo per coloro che lo amano, lo desiderano e osservano i suoi comandamenti. Viene come un ladro per coloro che non Lo vogliono a sono attaccati a questo mondo e al suo principe.
Se nel momento della venuta del Signore siamo in grazia, siamo salvi e andiamo in paradiso o in purgatorio; se no, andiamo all’inferno. Dunque occorre mantenersi sempre in grazia e, se dovessimo cadere in peccato mortale, occorre rimediare immediatamente, almeno con un atto di contrizione perfetta, se non è possibile accedere subito ad un confessore.
Ma sono molti i casi di malati in condizioni psichiche che non appaiono le più adatte per presentarsi con lucidità mentale, ponderatezza, obbiettività, calma e serenità davanti a Dio e prendere quella grave decisione che segnerà il nostro destino per l’eternità.
È chiaro che qui bisogna abbandonarsi più che mai nelle mani della misericordia di Dio con immensa fiducia. A Dio, che conosce benissimo la nostra miseria e la situazione, basta uno slancio o un moto del cuore, un palpito dell’anima, uno sguardo verso l’alto, un gemito d’amore, un sospiro di speranza, un grido o un’invocazione di aiuto.
Molto angosciosi possono essere i segni di una morte imminente o premonitori dell’arrivo della morte più o meno a lungo termine, come per esempio una diagnosi medica nefasta. È facile essere presi dal panico o dalla disperazione. Al riguardo è utilissimo esser pronti in unione con Cristo, in ogni momento. È l’unico rimedio per esser pronti con serenità e magari anche con gioia per l’arrivo del Signore.
La frequente meditazione sulle gioie del paradiso è un esercizio molto utile per tenerci pronti ad accogliere la venuta del Signore. La morte diventa in qualche modo desiderabile, non certo in sé stessa, ma in quanto condizione necessaria per l’incontro con Cristo.
Bisogna fare in modo che le gioie del paradiso ci appaiano molto concrete e reali, quasi palpabili, come lo sono effettivamente in sé stesse, ma siccome noi per adesso le cogliamo solo con concetti astratti e metafisici, ci appaiono vuote, insipide ed evanescenti a confronto con i piaceri di questa terra, i quali, benché assai inferiori in sé stessi, ci appaiono più importanti, più concreti e più appetibili.
La morte, per il cristiano è la fine di un cammino disagevole, faticoso, accidentato, nell’oscurità, nei dubbi, tra le illusioni, tra vane speranze, nelle angosce, nelle umiliazioni, nelle amarezze, nelle delusioni, tra gli errori e i peccati, nei litigi e nelle polemiche, in mezzo a innumerevoli tribolazioni, fallimenti, insuccessi, frustrazioni e difficoltà.
La vita per il credente è un cammino di liberazione, di progressiva purificazione dal peccato, di crescita nelle virtù, di consolidamento nelle certezze di fede, di accumulo di meriti per il paradiso, è l’acquisto graduale di quel tesoro immarcescibile dei cieli, dove il ladro non ruba e la tignola non sfonda. È un cammino di speranza. È il ritorno imperfetto all’Eden e la pregustazione della futura risurrezione. Niente di più. Ma niente di meno.
Invece la morte per noi cristiani è il passaggio alla pienezza del bene che è cominciato qui, la totale e definitiva liberazione da ogni sofferenza e da ogni colpa, una sicurezza che nessuno ci potrà più togliere, una certezza assoluta, per cui non dovremo più dire: mi sono sbagliato., una comunione di affetti limpida, senza ombre, senza fraintendimenti, una piena intesa e concordia nella pace e nella gioia.
Non è dunque benvenuta la morte? Sì, ma non nel senso leopardiano del cadere nel nulla[1], e neppure nel senso platonico dell’anima che si libera dal corpo, ma in quanto liberazione dal peccato, da Satana e dalla stessa morte per entrare nella Vita.
Il nostro destino eterno lo decidiamo al momento della venuta del Signore. Come mai la nostra volontà in quel momento si fissa per sempre nella scelta che abbiamo fatta o per Dio o contro Dio? Perchè in quel momento la volontà è a contatto diretto con l’assoluto ovvero con l’eterno, verso il quale essa è per sua natura orientata, indipendentemente dalle scelte che essa può fare durante il corso di questa vita, siano per Dio o contro Dio.
Ma perché al momento della morte resta per sempre la scelta che la volontà ha fatto in quel momento? Perchè in quel momento, mancando lo svolgersi del tempo, ormai esaurito, viene meno la stessa possibilità di cambiare scelta che per essenza avviene nel tempo e per questo la scelta resta quella che ha fatto in quel momento: o per Dio o contro Dio.
La prospettiva della morte
Ma che cosa è la morte? La morte è la cessazione della vita del vivente per il fatto che l’anima perde la forza di animare il corpo, la cui disorganizzazione o corruzione è giunta a un punto tale, che l’anima non ha più la forza di governarlo e di animarlo, per cui si verificano due possibilità: l’anima dell’animale, che è il risultato dell’organizzazione del corpo, si estingue per la stessa dissoluzione del corpo. Invece l’anima umana, che sussiste per conto proprio indipendentemente dalle forze del corpo, si separa dal corpo in via di dissoluzione e continua a vivere per se stessa separata dalla materia del cadavere.
La morte ripugna naturalmente al vivente, sia la pianta che l’animale che l’uomo, per cui il vivente si difende naturalmente con tutte le forze contro la prospettiva o il pericolo della morte, ordinariamente preceduta dalla sofferenza, dal trauma o dalla malattia, parimenti ripugnante al vivente, spontaneamente amante del piacere e non del dolore. La morte è un male; è il peggior male che possa capitare al vivente, il quale appetisce spontaneamente il suo bene, ossia vivere, mentre rifugge dal male e quindi soprattutto dalla morte.
Il vivere e vivere bene richiede l’osservanza di certe leggi, alle quali l’animale, se è sano, obbedisce spontaneamente, mentre Dio le propone all’uomo da applicare con la sua libera volontà, che ha la possibilità, se preferisce, di disobbedire. Obbedendo, l’uomo raggiunge il suo fine ultimo e sommo bene ed eterna felicità che è Dio. Disobbedendo fa il suo male, che è la separazione da Dio.
Dopo la morte l’unione finale con Dio, bene eterno, procura all’uomo una beatitudine eterna. Invece l’allontanarsi da Dio ed opporsi a Lui o il rifiuto della sua grazia ha come logica conseguenza la soggezione a una pena eterna. Ma il disobbediente non si cura di questa pena.
Ciò che gl’interessa e che vuole assolutamente è fare la propria volontà e non quella di Dio; egli non ama Dio ma solo sé stesso. Egli conosce le conseguenze della sua scelta e della condotta, ma egli disobbedisce ugualmente perchè si compiace supremamente della sua volontà e la preferisce all’obbedienza a Dio.
Per questo egli stesso volontariamente rifiuta la misericordia di Dio e la sua offerta di salvezza. Dio non gl’interessa affatto ed anzi lo odia. Egli certo odia la sofferenza, ma per lui è meglio stare al’inferno lontano da Dio piuttosto che in paradiso con Dio e soggetto a Dio. Per questo sceglie la sua opposizione a Dio, pur sapendo che comporta una pena eterna.
Dunque la vita dell’anima umana è duplice: essa possiede una vita naturale che non cessa mai, dovuta alla sua stessa natura spirituale. Ed inoltre, per grazia di Dio, può ricevere una vita superiore, divina e soprannaturale, quella che Cristo chiama «vita eterna», di eterna unione beata con Dio in paradiso nella visione immediata del suo volto.
La fede cristiana chiama «morte» anche la privazione della grazia, che è la vita divina dell’anima, per la quale siamo figli di Dio. In tal senso San Paolo dice che noi, prima della venuta di Cristo, eravamo «morti» in quanto privi della sua grazia. E similmente l’Apocalisse parla di una «seconda morte» in riferimento alla pena eterna dei dannati che hanno perduto per sempre la grazia.
Dio salva dalla morte fisica con la risurrezione finale del corpo e da quella spirituale del peccato mortale con la remissione dei peccati. Egli rimedia alla morte e toglie la morte con la morte di suo Figlio. Egli è il creatore dei viventi. Ma la vita non è solo quella naturale delle piante, degli animali, dell’uomo e degli angeli. Vita, secondo la fede cristiana, è anche la grazia divina, che si aggiunge alla creatura intellettuale, uomo ed angelo, per renderla partecipe della stessa vita divina. Il cristianesimo, quindi, al concetto di morte inteso o come dissoluzione del vivente o come separazione dell’anima immortale dal corpo, parla anche di peccato «mortale» e di «vita eterna», in quanto rispettivamente atto che estingue la vita della grazia. Secondo la rivelazione cristiana, anche il corpo dei dannati risorge, ma l’anima è priva della grazia.
Che cosa è la vita?
La vita è quel modo di esistere e quell’attività del vivente in quanto individuo, che non proviene da semplice trasformazione o dissoluzione di una precedente sostanza, ma è generato dall’accoppiamento di due individui della stessa specie, dotato di apposite potenze che lo rendono capace di crescere fino a un certo punto, di generare a sua volta altri individui della stessa specie, di alimentarsi, conservarsi e difendersi da agenti ostili, riparando i danni ricevuti, evolvendo ulteriormente in decadenza fino alla morte, in seguito alla quale il soggetto si decompone e si dissolve e la sua materia assume altre forme per formare altre sostanze materiali. Nel caso dell’uomo l’anima, essendo spirituale, sopravvive alla dissoluzione del corpo.
Siamo dunque consapevoli di non essere solo un corpo come gli altri corpi o entità fisiche della natura. Ciò che dà forma, essenza ed essere alla nostra persona non è una semplice forma naturale come quella del fuoco o dell’acqua o di una stella, ma è una forma esistente per sé, cioè spirituale, che è l’anima umana.
Anche noi, certo, siamo sostanze materiali, veniamo generati e formati da cause esterne, riceviamo una forma della nostra sostanza, viviamo nel tempo, la nostra esistenza ha una certa durata e a un certo punto si corrompe e si dissolve. «polvere siamo e in polvere torniamo» (Cf Gn 3,19).
Sembreremmo simili al fuoco e alle stelle che si accendono e si spengono. Però di questi enti non diciamo che nascono e muoiono. Lo diciamo solo delle sostanze viventi a cominciare dalle piante e dagli animali. Che cosa abbiamo in più dei non viventi? Abbiamo quella che si dice «anima», perché abbiamo la vita. E l’anima è appunto il principio della vita del vivente.
Ma noi esseri umani, al momento della nostra morte, non torniamo solo in polvere come tutti i viventi inferiori. L’esperienza che abbiamo delle nostre attività spirituali ci rende consapevoli che c’è in noi una vita immateriale, al di sopra dello spazio e del tempo e quindi di ciò che è corruttibile, che pure avvertiamo come dimensione della nostra persona.
Le attività del nostro spirito – pensare, intendere, intuire, concepire, giudicare, riflettere, ragionare, ricordare, parlare, volere, decidere, scegliere, desiderare, amare – ci obbligano ad ammettere che esse sorgono e sono causate da poteri spirituali che a loro volta debbono aver sede o emanare da un soggetto a sua volta spirituale, che chiamiamo «anima».
Occorre tuttavia esser prudenti e cauti nella valutazione del nostro io, del nostro spirito, del nostro pensiero, della nostra coscienza, del nostro volere, perché qui ci può essere la tentazione di esagerare. Con la scoperta dello spirito, noi scopriamo l’eterno, l’universale, l’uno, l’assoluto, l’infinito. Scopriamo Dio.
La scoperta del nostro spirito comporta la scoperta dell’eterno, dell’infinito, dell’immortale. Ma questa esperienza che si apre alla determinazione del fondamento o di una visuale globale della realtà, presenta il rischio di confondere la materia con lo spirito. E difatti questa volontà di comprensione globale ha prodotto, come è noto, i due fenomeni moderni del panteismo idealista e le varie forme di ateismo marxista, positivista, freudiano e nicciano.
Come si configura il fatto della morte in queste visioni? Non si dà un al di là celeste dopo la morte al quale aspirare rendendosi degni con le buone opere, ma la morte appare come un dissolversi dell’individuo umano nell’Io assoluto nel panteismo idealista e un dissolversi dell’io individuale nella Natura, nella Storia, nell’Umanità o l nelle varie forme di ateismo.
Prendendo adesso in considerazione la natura dell’anima in rapporto alla questione della morte, ricordiamo che l‘anima è una forma naturale che dà forma, vita e forza a tutte le nostre attività motrici, vegetative, psichiche e spirituali della nostra persona. La forma dei corpi non-viventi dà forma anch’essa a tutte le loro attività e passività, ma qui la forma si limita semplicemente a determinare le proprietà specifiche ed individuali della sostanza e dei suoi accidenti senza l’esercizio dell’autoconservazione, autodifesa e riproduzione della specie propri del vivente.
Esistono in noi anche attività psichiche, immanenti al nostro io, ma non del tutto immateriali come quelle spirituali; esistono forze fisiche, non interiori come quelle spirituali, ma esteriori, proiettate al di fuori del nostro io, immerse nello spaziotempo, che si esprimono nel moto, in divenire, generabili e corruttibili, che crescono e diminuiscono, lente o veloci. Sono i moti delle membra del nostro corpo, i movimenti interiori e fisiologici dell’organismo, le vicende della sua crescita e della sua maturità e della sua decadenza nella vecchiaia fino alla morte.
Tuttavia sentiamo anche come e quanto questa vita superiore ed immortale è resa possibile da precise condizioni materiali, senza le quali ci sembra che quella vita non possa esistere. Se queste condizioni vengono meno, sentiamo subito che anche quelle attività vengono meno. Quando dormiamo non abbiamo alcuna percezione dell’attività del nostro spirito, come se esso fosse un’emanazione del corpo. Se il radiatore è spento, non produce calore.
È questo l’errore dei materialisti. Non è facile capire che se il corpo vive, lo deve all’anima, la quale può vivere anche senza il corpo. Invece a noi sembra l’inverso e cioè che sia il corpo a far vivere l’anima. Scambiamo la causalità efficiente con la condizione di possibilità. Non è il cervello, ma l’intelletto che produce il pensiero. Ed anzi è l’intelletto che comanda al cervello.
Il cervello assicura solo all’intelletto e alla volontà la possibilità di agire, funzionando secondo leggi proprie, ma queste potenze hanno per conto proprio in se stesse, in quanto spirituali, il principio della loro attività, indipendentemente dal fatto che siano soggettate nel corpo, in modo tale che possono funzionare anche senza il corpo o far uso del corpo. Questa è la condizione dell’anima dopo la morte.
Quando pensiamo o vogliamo, facciamo lavorare il cervello, benchè esso abbia già un’attività per conto proprio per mantenersi in vita grazie all’attività del cuore. Ma quando usiamo il cervello per pensare o per volere, esso fà quello che gli comandiamo noi e compie il suo dovere, supponendo che esso sia in forze. Infatti, se ciò non è; se per esempio siamo stanchi o assonnati, ci accorgiamo che esso non ci obbedisce, per cui il pensare o il volere diventa faticoso o quasi impossibile. Sentiamo che esso oppone resistenza alla nostra volontà di capire o di pensare o di agire, fino al punto che, anche con ogni sforzo, non ci riusciamo, vinti dal sonno o dalla stanchezza. Anche i disturbi mentali sortiscono lo stesso effetto. Pensiamo anche all’effetto delle passioni volente.
La nostra anima, in quanto spirituale, è una forma semplice, non è qualcosa di composto che sia il risultato di una precedente evoluzione, per cui non può essere stata generata dai nostri genitori, come avviene per l’anima degli animali, la quale non è completamente indipendente dalla materia, ma necessita della materia per operare. Ora la morte è la dissoluzione di un composto. Da qui deduciamo l’immortalità dell’anima.
L’evento della morte ci mette davanti a due cose profondamente misteriose: la sopravvivenza della nostra anima alla dissoluzione del corpo e il nostro comparire davanti a Cristo giudice per renderGli conto delle nostre azioni.
Per quanto riguarda la prima cosa, Gesù Cristo ci offre la prospettiva di una vita eterna dopo la morte nella comunione con Dio: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa di mio Padre ci sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (Gv 14, 1-3). «Tutti quelli che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5,28).
Per quanto riguarda la seconda cosa, ognuno di noi, trattandosi di dare alla nostra vita l’orientamento di fondo, di stabilire quale fine ultimo dare alla nostra vita, è chiamato da Dio a operare una scelta o fare di lui, sommo bene, la «perla preziosa» per la quale vendere tutto, l’oggetto del nostro sommo desiderio e del nostro sommo amore, onde alla fine della vita presente obbedendo ai suoi comandi, possederlo e goderlo eternamente; oppure rifiutarci di assoggettarci a Lui come nostro Signore, respingere la sua proposta di salvezza, ripiegarci sulla nostra volontà, fare Dio di noi stessi o della creatura, pronti ad accettare le conseguenze penali di tale condotta, pur di star lontano da Lui.
Fine Prima Parte (1/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato 14 novembre 2024
Cristo ci fa presente che la morte può giungere da un momento all’altro, anche in gioventù e mentre si gode piena salute: un incidente stradale, un’alluvione, un infortunio sul lavoro, un terremoto, una distrazione fatale, un atto terroristico, un infarto, un ictus cerebrale.
La frequente meditazione sulle gioie del paradiso è un esercizio molto utile per tenerci pronti ad accogliere la venuta del Signore. La morte diventa in qualche modo desiderabile, non certo in sé stessa, ma in quanto condizione necessaria per l’incontro con Cristo.
Bisogna fare in modo che le gioie del paradiso ci appaiano molto concrete e reali, quasi palpabili, come lo sono effettivamente in sé stesse, ma siccome noi per adesso le cogliamo solo con concetti astratti e metafisici, ci appaiono vuote, insipide ed evanescenti a confronto con i piaceri di questa terra, i quali, benché assai inferiori in sé stessi, ci appaiono più importanti, più concreti e più appetibili.
Lo scorrere del tempo della vita presente consente alla volontà di mutare direzione tutte le volte che lo vuole o verso Dio o contro Dio. Quello che non può evitare è l’inclinazione verso l’assoluto. Col terminare del tempo della vita terrena, viene meno alla volontà la possibilità di far succedere nel corso del tempo, le scelte o per Dio o contro Dio.
Ma perché al momento della morte resta per sempre la scelta che la volontà ha fatto in quel momento? Perchè in quel momento, mancando lo svolgersi del tempo, ormai esaurito, viene meno la stessa possibilità di cambiare scelta che per essenza avviene nel tempo e per questo la scelta resta quella che ha fatto in quel momento: o per Dio o contro Dio.
- L'angelo della morte, Emile Jean Horace Vernet
[1] Vedi l’interessante analisi che Severino fa del pensiero leopardiano, come espressione del nichilismo occidentale che assolutizza il divenire come venire dal nulla e tornare nel nulla: Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 2020.
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