Attualità di Giordano Bruno - Seconda Parte (2/5)

 

Attualità di Giordano Bruno

Seconda Parte (2/5)

Realismo, idealismo, gnosticismo

 

L’attualità di Bruno si inquadra in quel filone di pensiero elitario ed esoterico dalle origini antichissime in Occidente e ancora più in Oriente che si fa promotore della grandezza dell’uomo con l’enfatizzarne i poteri spirituali oltre ogni ragionevole limite, così che gli venga in uggia o gli appaia intollerabile la soggezione a qualcuno che gli prescriva ciò che deve pensare e ciò che deve fare.

Attraverso un processo di autosuggestione l’individuo s’immagina di essere l’autocoscienza assoluta, centro dell’universo, anima del mondo, una goccia nell’oceano dell’essere, identificato col puro pensiero, una scintilla del fuoco divino, un raggio del sole degli spiriti, circondato dall’orizzonte onnipervadente dell’infinito, debole e fragile apparizione dell’assoluto, naufragato nel mare dell’ineffabile, temporalizzazione dell’eterno, il mondo come volontà e rappresentazione. È il clima dell’idealismo da Parmenide a Plotino fino a Gentile e Severino.

Lo gnostico appare all’uomo ordinario come una mente superiore ed eccelsa, un maestro di sapienza, un iniziatore ai segreti più profondi e alle verità più sublimi. Il loro pensiero vuotamente astratto appare ovviamente incomprensibile ed astruso alle masse popolari ed ai semplici.

Gli ambiziosi, dal canto loro, per apparire anche loro iniziati ai cammini anagogici si vantano di essere discepoli dei panteisti e ne tessono le lodi. Difficilmente la gente comune sa distinguere lo gnostico dal vero sapiente. Si limita a notare che di quello che dice l’uno e l’altro non ci capisce nulla.

Oppure, come fanno i positivisti, affermano che il discorso metafisico non ha senso.  Sono incapaci di compiere l’astrazione metafisica, di astrarre dall’ente particolare per concepire l’ente universale, di formarsi il concetto dell’essere, benchè sappiano benissimo che cosa è l’essere, dato che ad esso fanno riferimento all’uso del verbo essere nel loro parlare quotidiano.

Tuttavia, per distinguere essere e concetto dell’essere, monismo da analogismo, teismo da panteismo e da ateismo, scienza da gnosticismo, occorre fare attenzione  come concepiamo l’essere e alla differenza tra il nostro concetto dell’essere con l’essere stesso.   L’essere è il reale, è l’oggetto dell’intelletto; il concetto dell’essere è il mezzo mentale col quale l’intelletto concepisce e rappresenta e comprende l’essere.

L’essere è certo per noi intellegibile, anzi, tutto noi concepiamo nella luce dell’essere, e come dotato d’essere, ma esso in se stesso supera infinitamente la nostra finita capacità di intendere, per cui in tal senso ci appare misterioso.

Altra cosa è il nostro concetto dell’essere, per cui parliamo di essere finito ed essere infinito, essere umano ed essere divino, essere reale ed essere ideale. Questo concetto può essere sbagliato, non corrispondente alla realtà dell’essere. Da qui gli errori in metafisica. Da qui, per esempio, il monismo o il panteismo. Sono gli errori più gravi perché fanno crollare le basi stesse del pensiero e quindi della morale.

Col concetto dell’essere abbiamo la più ampia delle nostre categorie o dei nostri predicati, categorie con le quali possiamo concepire tutto e ogni cosa, anche ciò che supera la nostra intelligenza, purchè sia una realtà. In tal modo Dio e il mondo, in quanto da noi pensati e concepiti, vengono ad essere inclusi assieme dentro il cerchio dell’essere, appaiono come un predicato inferiore e più ristretto del concetto e del predicato dell’essere. Appaiono come qualcosa di meno e al di sotto del puro essere, dell’essere come essere, appaiono come parti dell’essere intero o della totalità dell’essere.

Se il nostro concetto dell’essere include Dio e le cose, non vuol dire che l’essere superi l’essere divino o includa in sé l’essere divino, perché non esiste essere superiore all’essere divino. In altre parole, ciò non vuol dire che l’essere sia qualcosa di più ampio di Dio. 

Quando pensiamo alla totalità dell’essere, dobbiamo stare attenti a non confondere la totalità come categoria con la totalità reale dell’essere. Nel primo caso pensiamo Dio insieme col creato come fossero un unico essere. Nel secondo caso la totalità dell’essere è solo Dio.

Benchè infatti l’essere o ente creato sia esterno a Dio, non si dà essere che non sia contenuto virtualmente in Dio identico a Dio, dato che Dio è assolutamente semplice. Quindi nell’essere divino il finito e l’infinito, il contingente e il necessario, il temporale e l’eterno, l’uno e il molteplice lo spirito e la materia coincidono e sono identici con l’essere divino.

L’essere creato, in quanto creato, è certo esterno all’essere divino increato; ma l’essere creato, prima di essere creato, in quanto essere finito, è già in Dio, nell’essere divino identico a Dio. Qui sta l’aspetto di verità del panteismo.

Bisogna inoltre considerare che Dio, causa creatrice dell’essere degli enti, per poter causare il loro essere dal nulla, in quanto la causa deve in qualche modo precontenere l’effetto, cioè gli stessi enti che crea. Causare infatti è un donare. Nessuno può dare ad altri ciò che non ha. 

Se Dio dà agli enti da Lui progettati il loro essere, vuol dire che non solo li pensa, li idea e li progetta, ma ne precontiene l’essere, identico al suo essere, ma nel contempo superandolo infinitamente col suo essere infinito.

Infatti l’essere divino non può essere un composto, una «sintesi», come credeva Hegel, di essere divino ed essere mondano, ma è l’essere uno e totale, completo, infinito ed assoluto, l’ipsum Esse per se subsistens.  Questa identità in Dio dell’essere finito con l’essere infinito è l’aspetto di verità del panteismo.

Notiamo che la domanda su che cosa c’è in Dio e nell’essere divino emerge nella filosofia moderna, appunto con Bruno e poi con Spinoza, Böhme, Schelling ed Hegel.  Essa fa seguito a quella su che cosa c’è nell’uomo, che è la grande domanda dell’Umanesimo, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, del Rinascimento e di Lutero, nella linea di Sant’Agostino, di Platone e di Socrate. 

Nasce allora un intreccio fra la questione di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio, tema bellissimo, ma che va trattato con somma prudenza. Il difetto del panteismo è quello di basarsi, per l’occasione, su di un concetto monistico, univoco, parmenideo di essere, anziché su di un concetto biblico, analogico e partecipativo.

Connesso a questo tema è quello, trattato da San Tommaso ed Eckhart, del rapporto del sapere divino col sapere creaturale. Noi vediamo le cose e da lì comprendiamo come le vede Dio. Invece Dio, a differenza[H1]  di noi, parte dalla sua autocoscienza, cosicchè Egli vede originariamente le cose in Sé stesso, in quanto da Lui ideate, prima di crearle, ossia prima di porle al di fuori di Sé e vederle fuori di Se stesso, in quanto create. Difetto del panteista è quello di voler porsi dal punto di vista di Dio escludendo che Dio veda le cose create fuori di Sé stesso.

Tuttavia è vero che le essenze delle cose, in quanto ideate da Dio, sono eterne come Dio. Questa è la parte di verità della metafisica di Severino. Parmenide ha confuso essere finito ed essere infinito, pensiero ed essere, e perciò è il fondatore dell’idealismo e del panteismo.

Osserviamo inoltre che gli enti sono diversi e differenti gli uni dagli altri, anche se è vero che esistono alcuni enti tra di loro uguali e identici. Il mio essere è diverso dal tuo. Eppure io e te esistiamo, abbiamo l’essere.

Inoltre, ponendoci la questione dell’origine comune degli enti, tutti possessori dell’essere e chiedendoci come fanno ad esistere, se non sono l’essere, scopriamo l’esistenza di un ente supremo, che chiamiamo Dio, diversissimo dagli enti. Eppure, sia di Lui che di loro predichiamo l’essere, certo non allo stesso modo e nella stessa misura, ma in modi diversi ed analogici, secondo gradi diversi di perfezione o di partecipazione. Da ciò risulta che mentre la creatura ha l’essere, Dio è l’essere, non però l’essere come essere, ma l’essere sussistente. La creatura ha l’essere per partecipazione; Dio è l’essere per essenza.

Questo vuol dire che l’essere non è uno solo come credeva Parmenide, ma è uno e molteplice, esistono anche i molti, anche se esiste solo un ente uno ed unico, Dio, al di sopra di tutti gli enti ad unificare attorno a Sé e sotto di Sé di tutti gli enti. Ciascuno di essi, certo, è uno di numero ed anche ontologicamente, ma non indivisibile, mentre l’Uno divino è assolutamente semplice e indivisibile.

Grande pregio del tomismo è quello di descrivere i caratteri dell’essere come atto del poter-essere, atto dell’essenza, atto che in Dio è pura forma, privo di potenza. L’ente è ciò che esiste o può esistere. Solo il contradditorio non può esistere. L’ente è ciò che ha un’essenza in atto d’essere. L’essere è atto dell’ente e dell’essenza.

Inoltre pregio deil tomismo Ed è quello di dirci come formiamo il concetto dell’essere e dell’ente, e quali sono le loro proprietà. Noi formiamo il concetto dell’ente partendo dall’esperienza degli enti sensibili; formiamo il concetto dell’essere intuendo e affermando l’essere nella copula del giudizio.

Viceversa il monista parmenideo, per il quale l’essere è uno solo, fraintende come il discepolo di Severino le esigenze del principio di non-contraddizione, sostenendo che l’essere non può non essere, ed ignorando quindi l’essere contingente. Egli rischia quindi di confondere, come per esempio un Bontadini o un Rahner, Parmenide con Aristotele, San Tommaso con Hegel, Giordano Bruno con Sant’Agostino.

Tuttavia la persona credente semplice, del popolo, possiede una sapienza, dono di Dio, ben maggiore di quella degli gnostici. Si tratta di quei piccoli, circa i quali Cristo esulta nel constatare che il Padre celeste ha rivelato a loro, cioè agli umili, anche se indotti, i misteri del Regno e li ha nascosti ai sapienti e agli intelligenti, cioè agli gnostici e ai superbi.

Notiamo inoltre che lo gnosticismo nella storia dell’umanità ha spesso avuto sbocchi di tipo sensista, materialista, edonista e lassista, perchè il falso spiritualismo e la falsa mistica facilmente fruttificano nei vizi carnali. Anche se la l’espressione immediata dello gnosticismo ha l’aspetto della più astratta ed elevata teoresi, ciò non toglie che da essa possano discendere i suddetti inconvenienti, sicchè se non è difficile da una parte riscontrare nell’atteggiamento didattico dello gnostico i toni tipici del presuntuoso, come l’alterigia e l’arroganza, dall’altra non sono rare la meschinità e la licenza nei costumi morali.

Dobbiamo invece far presente che la posizione sana dell’intelletto nei confronti della realtà, il modo giusto e rigoroso di pensare e ragionare, l’autentico acume critico, la vera genialità speculativa, la posizione intellettuale che conduce alla verità ed evita l’errore è il realismo, espressione di umiltà, docilità, lealtà, prudenza, coraggio, semplicità ed onestà, nonchè principio ed incentivo alle vere virtù e alla stessa santità. Nessun Santo proclamato dalla Chiesa è stato un idealista, uno gnostico o un panteista, ma i Santi, quando non sono stati espliciti seguaci di San Tommaso, quanto meno sono stati fedeli al realismo biblico tradizionale nella Chiesa[1].

Dalla parola stessa «realismo» s‘intuisce che cosa è il realismo: è l’attenzione alla realtà, il rispetto della realtà, l’ascolto della realtà, l’accettazione e il riconoscimento della realtà delle cose così come sono, così come ci stanno davanti, anche se vorremmo che fossero diverse da come sono. Realismo è quindi correggere la nostra veduta o considerazione del reale, se ci accorgiamo o ci si fa notare che non è così come credevamo.

Realismo è limpidezza, onestà nel pensare e nel riflettere, oggettività nel giudicare, correttezza e coerenza nel ragionare, non discutere davanti all’evidenza, non dubitare dell’indubitabile, semplicità, avvedutezza e prudenza nel valutare, sottigliezza nel distinguere, saggezza nell’unire, rigore e fondatezza nel dedurre e dimostrare, saper andare all’essenziale, non voler dimostrare quello che è evidente, non prender o dar per certo quello che non lo è.

Realismo è saper distinguere l’apparenza o la sembianza dalla realtà, ciò che sembra a me da ciò che è in sé fuori di me, l’io dall’altro da me, l’identico dal differente, l’uno dal molteplice, il sostanziale o essenziale dall’accidentale, il fenomeno sensibile dalla cosa in sé intellegibile, l’ideale dal reale, l’essere dal non-essere, il pensiero dall’essere, il razionale dal sovrarazionale, l’immaginabile dall’intellegibile, l’opinabile e il credibile dallo scibile, il soggettivo dall’oggettivo, il divino dall’umano, il misterioso o il mistico dal comprensibile.

Realismo è distinguere l’immanente dal trascendente, ciò che è in noi da ciò che è fuori di noi, ciò di cui siamo coscienti da ciò di cui non siamo coscienti, le cose dai nostri concetti delle cose, l’essere dall’essere pensato, le cose dal nostro pensare le cose, i concetti delle cose prodotti da noi e le cose create da Dio.

Realismo è adeguazione del nostro pensiero, dei nostri concetti, delle nostre idee, dei nostri giudizi alla verità delle cose così come sono in sé stesse.  Il realismo si traduce nel linguaggio e nella comunicazione con gli altri nella virtù della sincerità, cioè nel dire la verità, nel dire come stanno le cose in sé stesse e nell’evitare la menzogna e l’inganno e nel non far dire al reale ciò che il reale non è.

Il realista distingue il pensiero dell’essere dal pensiero dell’essere pensato. L’essere è indipendente da lui e prima di lui, mentre l’essere pensato è prodotto del suo pensiero, rappresentazione dell’essere. Prima di pensare l’essere, l’essere per noi non è pensato e non per questo non esiste.

L’essere esiste anche se non è pensato da noi. L’essere non dipende dal nostro pensarlo, ma dal pensiero divino. Un conto è pensare l’essere e un conto pensare il pensato. Soltanto per il pensiero divino, ideatore e creatore dell’essere, l’essere è per sé pensato, l’essere coincide con l’essere pensato.

Interessante è il sofisma dell’idealista, per il quale egli nega che esistano cose alle quali non pensiamo. Egli dice infatti che se le pensiamo, diventano pensate, sono pensate. Ne conclude che le cose sono le cose pensate. Non si rende conto del fatto che e io penso a queste cose da me non pensate, l’oggetto del mio pensiero sono appunto le cose da me non pensate, che esistono indipendentemente dal mio pensarle.

Il suo idealismo gli fa confondere le cose non pensate in se stesse con le cose non pensate in quanto da lui pensate. Le cose non pensate esistono per conto proprio e in se stesse anche se non le penso. Un conto è l’atto del mio pensarle e un conto sono le cose non pensate in sé stesse, alle quali penso. È la solita confusione idealista del pensiero con l’essere.

L’idealista, nella sua tracotanza di voler includere tutto l’essere nella sua piccola mente, non si rende conto che l’esistenza delle cose da lui pensate non dipende dal suo pensarle; esse esistono anche se non le pensa. Non sta a lui provvedere all’esistenza delle cose, ma c’è Qualcun altro ad occuparsene ben più intelligente e potente di lui.

Tanto il realista che l’idealista ammette la possibilità della certezza e della verità. L’uno e l’altro ammettono l’esistenza del pensiero, dell’essere, dello spirito, della coscienza, dell’assoluto, dell’universale, dell’infinito, dell’eterno.

La differenza sta nel fatto ben noto che mentre il realista distingue il pensiero dall’essere, l’idealista li identifica. Ma entrambi rifuggono dal dubitare fine a sé stesso, dallo scetticismo, dall’agnosticismo e dall’indifferentismo. Apprezzano le affermazioni categoriche ed assolute.

Entrambi respingono la tesi di coloro che dicono che di tutto si può dubitare, che la certezza non esiste, che tutto può essere continuamente rimesso in discussione. Respingono la posizione di coloro che dicono che a loro non interessa che Dio ci sia o non ci sia, che non vogliono pronunciarsi su questo argomento, che per loro il problema se Dio esiste non ha senso, o che non sanno decidersi se credere o non credere.

Tuttavia esiste un legame tra Parmenide e Protagora, per cui l’idealista, nonostante la sua sicumera, in fondo non è lontano dallo scettico. Credere infatti che le mie idee come tali coincidano con l’essere, che cosa è infatti se non il principio protagoreo che verum est quod videtur? È vero che Parmenide dice che il vero è ciò che è, ma se questo è, è la mia idea, dove va a finire l’oggettività della verità? È vero che Protagora è compromesso con la contraddizione, mentre Parmenide opta per l’identità. Ma non è contradditorio credere che il mio pensiero sia ad un tempo umano e divino?

Quanto ad una definizione dell’idealismo, essa è già implicita nel termine stesso: l’assolutizzazione dell’idea o quanto meno, come insegna Papa Francesco, il primato dell’idea sulla realtà, che egli contrappone al realismo, definito come primato della realtà sull’idea.

Perchè questa gerarchia? Perché l’idea è funzionale alla realtà; la rappresenta nella mente ed è mezzo per conoscere la realtà. La realtà potrebbe esistere senza l’idea, ma l’idea non può esistere senza la realtà. Se qualcuno obietta che in Dio l’idea primeggia sulla realtà creata da Dio a Lui esterna, ciò vale per l’idea divina, ma non del concetto o dell’idea come tale, applicabile anche alle idee umane. Altrimenti attribuiremmo all’uomo l’idea divina, che è appunto l’errore dell’idealismo.

L’idealista considera il realista come un minus habens, una persona ingenua, sottosviluppata, immatura, priva di acume critico, che sarebbe stato fondato da Cartesio, perfezionato da Kant e condotto al suo vertice insuperabile da Hegel[2]. Infatti, secondo l’idealista, il realista considera le cose che vede attorno a lui come indipendenti da lui e create da Dio, mentre il poveretto non sa che in realtà, le cose sono il prodotto del suo io trascendentale, non è un Dio trascendente all’io che produce le cose, ma è lo stesso io profondo dell’idealista, non in quanto io empirico, ma in quanto io trascendentale o assoluto.

L’idealista non ripudia in modo assoluto il realismo, che gli serve per i suoi affari ed interessi quotidiani, ma in quanto gli fa comodo, se ne serve. Ritiene però che nel momento in cui si vuol far filosofia, corrispondere alla propria dignità e riconoscere la verità al di là delle apparenze, l’uomo deve diventare idealista, cioè prender coscienza della propria divinità, mettere da parte l’io empirico, per elevarsi al puro pensiero e al puro essere, che è egli stesso, ossia al proprio io assoluto.

In quanto al termine «idealismo», che richiama alla parola «idea», potremmo dire che l’idealismo ha fatto il suo tempo, perché gli idoli di oggi non sono più l’idea, non è più il concetto, non è più lo spirito, ma sono l’io, la soggettività, l’uomo, il concreto, la scienza, il pensiero, l’esperienza, la storia, la coscienza e l’autocoscienza.

Certo Hegel come maestro di doppiezza non è ignorato e il dottore dell’essere per gli idealisti resta sempre Cartesio, ma dietro il velo del misericordismo e del buonismo che è l’applicazione morale dell’idealismo c’è un gran desiderio di farla franca comunque, pur continuando a soddisfare le nostre voglie, che non sono affatto quelle di aver pietà per chi soffre o di sollevare il povero dalla sua miseria, ma in realtà sono la volontà di potenza, di dominio e di sopraffazione.

In tal senso Bruno col suo panteismo attivo, materialista e parmenideo è il grande maestro di oggi e i suoi continuatori sono Heidegger e Nietzsche. Severino signoreggia fra gli intellettuali, gli pseudoteologi, i massoni, i modernisti e gli gnostici.

Ci potremmo chiedere: se l’idealista riduce tutto il reale al suo io, e non vede nulla al di là del suo io, potremmo dire del suo naso, come imposta i suoi rapporti interpersonali con il prossimo, con gli angeli e con Dio, dato che egli a benissimo, al là delle sue chiacchiere, di non avere a che fare con dei suoi semplici concetti, ma con realtà indipendenti da lui? Egli sa, in fondo, di non giocare la sua partita sul solo piano delle i idee, dove considera l’alterità come posta dal suo stesso io, alla maniera di Fichte.

La partita dell’idealismo si gioca sul piano della volontà e la cosa è abbastanza semplice: gli idealisti conoscono la volontà del prossimo, degli angeli e di Dio, ma in fin dei conti, attaccati come sono alla propria volontà, finiscono per assoggettarsi a colui che per primo si è ribellato a Dio e ha fatto cadere l’uomo nel peccato: Satana. Come mai Eva è passata dall’ascolto di Dio all’ascolto di Satana? È questo il mistero del peccato.

Anche l’idealista monista e panteista, che ritiene di essere Dio e che esista solo Dio, e quindi crede di esistere solo lui, in realtà anche a lui non basta parlare con se stesso, ma ha bisogno di un interlocutore sul quale misurarsi o confrontarsi. E allora, se questo interlocutore non è Dio, chi può essere se non il demonio?

La tragedia di Bruno, domenicano infedele alla sua vocazione e al suo ministero ricevuti da Dio, e il rischio grave di qualunque idealista è quello di disobbedire a Dio per lasciarsi ispirare e guidare dal suo io. In tal senso San Paolo ci mette in guardia contro le «dottrine diaboliche» (I Tm 4,1).

Fine Seconda Parte (2/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 agosto 2025

Festa di San Domenico

Col concetto dell’essere abbiamo la più ampia delle nostre categorie o dei nostri predicati, categorie con le quali possiamo concepire tutto e ogni cosa, anche ciò che supera la nostra intelligenza, purchè sia una realtà. In tal modo Dio e il mondo, in quanto da noi pensati e concepiti, vengono ad essere inclusi assieme dentro il cerchio dell’essere, appaiono come un predicato inferiore e più ristretto del concetto e del predicato dell’essere. Appaiono come qualcosa di meno e al di sotto del puro essere, dell’essere come essere, appaiono come parti dell’essere intero o della totalità dell’essere.

Se il nostro concetto dell’essere include Dio e le cose, non vuol dire che l’essere superi l’essere divino o includa in sé l’essere divino, perché non esiste essere superiore all’essere divino. In altre parole, ciò non vuol dire che l’essere sia qualcosa di più ampio di Dio. 

Quando pensiamo alla totalità dell’essere, dobbiamo stare attenti a non confondere la totalità come categoria con la totalità reale dell’essere. Nel primo caso pensiamo Dio insieme col creato come fossero un unico essere. Nel secondo caso la totalità dell’essere è solo Dio.

L’essere divino non può essere un composto, una «sintesi», come credeva Hegel, di essere divino ed essere mondano, ma è l’essere uno e totale, completo, infinito ed assoluto, l’ipsum Esse per se subsistens. Questa identità in Dio dell’essere finito con l’essere infinito è l’aspetto di verità del panteismo.

Tuttavia è vero che le essenze delle cose, in quanto ideate da Dio, sono eterne come Dio. Questa è la parte di verità della metafisica di Severino. Parmenide ha confuso essere finito ed essere infinito, pensiero ed essere, e perciò è il fondatore dell’idealismo e del panteismo.

Immagine da Internet: Ermete Trismegistro 



[1] Il caso di Rosmini fu chiarito a suo tempo dalla CDF in occasione della Beatificazione. Invano i modernisti vorrebbero accaparrarsi di Newman, oggi addirittura prossimo Dottore della Chiesa. A nessuno è mai venuto in mente di beatificare Rahner.

[2] Questa supponenza dell’idealista che conosce la «realtà» nei confronti del realista ingannato dall’immaginazione, è evidente in Fichte. Ccf Luigi Pareyson, Fichte, Edizioni di «Filosofia», Torino 1950, pp.181-189. Medesima alterigia, benché attenuata, in Hegel, per il quale il realista, che «va diritto agli oggetti» e «riproduce il contenuto delle sensazioni e intuizioni», è un «ingenuo», illuso di poter «acquistar coscienza di ciò che gli oggetti veramente sono», imbrigliato nella «vecchia metafisica». Vedi Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.36. Per Hegel il realismo corrisponde alla «rappresentazione» (Vorstellung). L’idealismo si erge al livello del pensiero (denken). Il filosofo dimostra la necessità razionale di ciò che il credente semplicemente crede.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.