San Paolo VI e Rahner
Un duello a distanza per la guida della Chiesa
Prima Parte (1/3)
Ammonisci, rimprovera, esorta
con ogni magnanimità e dottrina
II Tm 4,2
Perché San Giovanni XXIII ha voluto il Concilio
Per capire la situazione della Chiesa di oggi nei suoi problemi e nei suoi valori, nelle sue sofferenze e nei suoi successi, per liberarla dai suoi mali e offrirle prospettive luminose, ci è di grande utilità riandare a quel periodo dei primi anni del postconcilio che sono stati decisivi per la determinazione degli anni presenti.
Al riguardo, ritengo che per comprendere il significato di quegli anni, sia necessario chiarire, per quanto possibile, il rapporto fra un Santo Pontefice e un grande teologo, uomo astuto, geniale e potentissimo quale fu Karl Rahner, dalla produzione teologica quantitativamente prodigiosa, tanto che difficilmente si comprende – a parte le sue capacità e metodo di lavoro straordinari - come possa aver prodotto tanto in uno spazio di anni non certo breve, ma neppure particolarmente lungo, senza fortissime facilitazioni e senza fortissimi aiuti, che non sono del tutto chiari. E per far questo conviene iniziare facendo un passo indietro nel tempo col ricordare quali furono gli intenti di un altro santo Pontefice, Giovanni XXIII nell’indire il Concilio e quale l’atteggiamento del Santo Pontefice nei confronti di Rahner.
Per quanto riguarda questi, Papa Giovanni lo nominò perito del Concilio su richiesta del Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, nonostante in precedenza Rahner fosse stato oggetto di censure sotto il pontificato di Pio XII. Ma curiosamente la sua opera veramente pericolosa, perché inficiata di idealismo, Uditori della parola (Hörer des Wortes), che aveva a pubblicato in Germania nel 1941, non aveva suscitato l’attenzione del Santo Ufficio.
Indubbiamente Rahner allora godeva già di una buona fama come teologo e probabilmente Papa Giovanni si limitò a tener conto di questo per nominarlo come perito. D’altra parte è ben noto come Rahner avrebbe poi dato un buon contributo alla elaborazione degli insegnamenti del Concilio. Tuttavia, se durante questi lavori Rahner tenne nascosto il veleno idealista, una volta conquistato un prestigio e una fama internazionali per il contributo dato al Concilio, si sentì sicuro dell’impunità manifestando apertamente le sue idee falsamente tomiste e in realtà moderniste; il che purtroppo con Paolo VI effettivamente avvenne. Rahner diffuse effettivamente quanto di buono aveva fatto al Concilio, mescolandolo però con l’inganno modernista. Vediamo in questo articolo come ciò si spiega ed abbia potuto avvenire.
Per quanto riguarda il Concilio Vaticano II, è interessante come sia stato indetto improvvisamente e inaspettatamente dal Papa appena neanche un anno dopo la sua elezione, senza che in precedenza nessuno nella Chiesa o fuori ne avesse proposta o auspicata o invocata l’indizione, come tante volte era successo per il passato, o si fosse invocata la necessità di un Concilio. C’era il ricordo della Vaticano I, anch’esso convocato dal Beato Pio IX per ribadire i fondamenti della fede cattolica contro gli errori contemporanei del materialismo, dell’ontologismo, dell’idealismo, dei protestanti, dei positivisti, dei liberali, dei panteisti, degli atei e dei massoni.
Allora l’iniziativa del Papa non destò sorpresa, perché il mondo cattolico viveva in modo abbastanza compatto l’atteggiamento battagliero del Papa nei confronti della modernità. I cattolici, riprese forze dopo la Rivoluzione francese, erano pronti per dar prova della loro invincibile vitalità al mondo massonico, ateo, liberale e protestante del loro tempo.
Di lì a poco peraltro ci sarebbe stata la rinascita tomista promossa da Leone XIII. Con l’avvento del modernismo, San Pio X pensò che per sconfiggerlo non occorresse un nuovo Concilio, ma fosse sufficiente un’enciclica, la famosa Pascendi.
Ed effettivamente i tomisti allora furono capaci di appoggiare il Papa nella sua battaglia e sembrò che il modernismo fosse sconfitto. Ma in realtà l’istanza dei modernisti non era sbagliata: occorreva che la Chiesa, dopo diversi secoli di opposizioni agli errori della modernità, si decidesse ad assumerne i valori.
Lo sbaglio dei modernisti fu la pretesa di condurre questa difficile operazione senza far ricorso a San Tommaso ma cedendo all’influsso di quegli stessi autori, dai quali, alla luce di San Tommaso si poteva trarre il positivo, come Lutero, Cartesio, Kant, Hume, Fichte, Hegel, Comte, Rousseau o Marx. Per questo difetto di metodo, l’impresa non poteva non fallire.
Roncalli, prima di esser Papa, si accorse che Pio X era stato sì giusto nel condannare gli errori, ma troppo severo nel non riconoscere che l’istanza dei modernisti era giusta e andava soddisfatta, tuttavia col criterio giusto, ossia quello tomistico. Così io credo che Roncalli, ancora prima di essere Papa comprese che l’impresa difficile di recuperare il buono presente nel pensiero moderno doveva assumersela la Chiesa stessa: solo a questa condizione l’impresa sarebbe riuscita.
Da qui l’idea di un Concilio, il quale sarebbe stato in certo senso una nuova Pascendi, riuscendo laddove la prima non era riuscita, ma con un cambio di metodo: vincere il modernismo non attaccandone gli errori, ma accontentando nel senso giusto le sue istanze, così da togliergli le armi contro la Chiesa. Pochi hanno capito la sapienza di questa sottile strategia e alcuni hanno pensato che il Concilio fosse filomodernista o per compiacersene (i rahneriani) o per addolorarsi (i lefevriani). Eppure è dal Concilio che viene la vera vittoria sul modernismo, solo che lo si interpreti rettamente.
Questa, secondo me, è l’origine del Concilio. Il Papa, quando ne dette l’annuncio, non entrò in questi dettagli e si mantenne su di un piano del tutto generico parlando solo di «aggiornamento», onde evitare gli intralci ai lavori conciliari che sarebbero venuti da coloro che mantenevano l’antimodernismo della Pascendi e non avrebbero potuto capire questa nuova tattica apparentemente spericolata, ma che è in realtà migliore, perché, anziché mettere in risalto l’errore, costruisce sulla base della verità.
Il Concilio nasceva dunque dal Papa stesso e non con finalità prevalentemente polemiche nei confronti degli errori, come era sempre avvenuto nei precedenti Concili, ma con finalità prevalentemente espositiva e in particolare con l’intento di assumere i valori della modernità usando un linguaggio attento al modo di esprimersi degli uomini contemporanei, dunque un intento evangelizzatore e un appello all’unità cattolica fatto alle comunità dissidenti e ai fratelli separati, senza ricorrere a nuove definizioni dogmatiche e tuttavia proponendo ai fedeli e al mondo una dottrina più progredita sulla Chiesa, sulla vita cristiana e sul rapporto della Chiesa col mondo.
Come tutti sappiamo, al Concilio si formarono fra i Padri due schieramenti contrapposti, che giunsero in alcuni drammatici frangenti a momenti di aspra opposizione, che preoccupò fortemente Paolo VI. Da una parte c’erano i Padri dell’Europa meridionale e precisamente gli esponenti della scuola romana, fortemente e forse pedantescamente ligi alla tradizione e zelanti nella conservazione del deposito rivelato, professante un tomismo sincero ma chiuso e conservatore in polemica contro la modernità ancora con lo stile della Pascendi e dell’Humani generis di Pio XII, scrupolosamente ligia all’obbedienza al Papa, anche in cose dov’è permessa una ragionevole libertà di dissenso o di critica. E per queste cose questi Padri erano chiamati «conservatori». Sentivano più il bisogno di condannare gli errori moderni che di ammodernare la Chiesa.
Dall’altra parte c’erano i Padri provenienti dal nord Europa, intenzionati ad un confronto serio con la modernità, piuttosto indipendenti nei confronti del Papa, affezionati al pensiero moderno e poco fedeli a San Tommaso, decisi a far progredire e a svecchiare la Chiesa e per questo chiamati «progressisti».
Questa situazione era l’occasione di esercitare una grande carità reciproca col sopportarsi a vicenda, imparare gli uni dagli altri, riconoscere i propri errori. In un diuturno esercizio ascetico per tutta la durata dal Concilio (tre anni!) i Padri gradualmente, benché faticosamente e con un continuo sforzo di carità, impararono gli uni dagli altri e si corressero a vicenda dei propri errori, splendido esempio di carità fraterna! Non è anche questo messaggio del Concilio?
I Padri hanno realizzato quella reciprocità, purificati dai disagi delle interminabili sedute, al fuoco della sofferenza e della tolleranza reciproca, imparando umilmente dagli altri e correggendosi a vicenda i propri errori. Alla fine sono usciti nel comune sfibrante lavoro quei documenti di somma sapienza, nei quali le tempeste si sono placate e si respira un clima sereno e sublime, dove i toni polemici si sono spenti e si sente invece ardere nelle parole sagge ed equilibrate il fervore della carità.
Le caratteristiche e lo scopo del Concilio
San Giovanni XXIII aveva dato al Concilio questo scopo: «Questo massimamente riguarda il Concilio: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace»[1]. Dunque il Papa gli dette una finalità puramente pastorale. È stato Paolo VI a volere un approfondimento dottrinale: conoscere meglio la natura, la bellezza e la missione della Chiesa.
Stante questa impostazione pastorale, il Concilio ha abbandonato l’uso dei canoni sanzionati dalla relativa anatematizzazione dei dissenzienti. I Concili precedenti stabilivano delle precise formule o tesi fisse, dense e brevi, allontanandosi dalle quali o disattendendo alle quali anche in una sola parola il fedele era ipso facto scomunicato. Tali formule davano ad un tempo certezza, ma potevano anche provocare degli scrupoli.
Invece il Vaticano II svolge un tema costruendo una pluralità di proposizioni logicamente collegate fra di loro secondo diverse modalità espositive o di tipo narrativo o di forma sillogistica o descrittiva o prescrittiva. Anche gli insegnamenti dottrinali non hanno il tono normativo e legislativo proprio dei Concili precedenti, ma vengono esposti in maniera semplicemente assertiva senza dichiarare che si tratta di verità di fede, ma lasciando al lettore la saggezza di capirlo, trattandosi di materie che riguardano il deposito rivelato. Il fatto dunque che qui il Concilio non faccia la precisazione di cui sopra non autorizza nessuno a credere che qui il Concilio possa sbagliarsi o dire cose rivedibili.
Lo stile letterario del Concilio non è quindi tanto quello giuridico o didascalico o scolastico con termini desunti dalla filosofia tomista o nozioni metafisiche, ma assomiglia al modo stesso di insegnare di Cristo nel Vangelo, ha piuttosto il tono proprio della predicazione, il cosiddetto stile «kerigmatico» oratorio ed omiletico, portato all’uso della metafora o dell’immagine, con termini desunti dalla Bibbia, attento alla storia sacra, più vicino allo stile agostiniano e dei Padri della Chiesa. proporzionato al comune fedele e all’uomo moderno.
Il grande errore dell’età moderna denunciato da Concilio è stato l’ateismo materialista. Tuttavia il Concilio non ha pensato di denunciare l’altra pericolosissima insidia, esattamente corrispettiva a quella dell’ateismo, che è l’idealismo panteista. Ha tenuto presente Marx, ma non ha considerato Hegel. Per cui non ci ha mostrato che ateismo e panteismo si corrispondono esattamente, sono le due facce della stessa medaglia.
L’ateismo è una forma di cecità mentale per cui la mente è bloccata nelle cose terrene ed incapace di elevarsi al livello dello spirito, sicchè l’ateo non sa veder niente di meglio dell’uomo e quindi divinizza l’uomo; «l’uomo – dice Marx - è Dio per l’uomo». Nell’ateo giocano i vizi della carne.
Invece l’idealista panteista, per converso, sa che cosa è lo spirito, ma, illuso dalla superbia, considera il proprio spirito come fosse Dio e di nuovo divinizza l’uomo, questa volta però non abbassandolo al livello delle bestie, come fa il materialista, ma credendolo in possesso di una libertà assoluta, quale conviene solo a Dio.
Il panteismo si cela nel modernismo e ha le sue prime origini nel cogito cartesiano. Il soggettivismo di Lutero non esclude la distinzione dell’uomo da Dio, anzi la accentua anche troppo; ma poi appunto per togliere questa contrapposizione da lui stesso creata, finisce nell’immanentismo del «Dio-in-me» e «Dio-per-me», che è l’anticamera del panteismo perché, se Dio è in me e io sono in Dio per essenza, come se fossi un attributo o un modo d’essere di Dio, che cosa manca a dire che io sono Dio e Dio sono io?
Il Concilio contiene l’insegnamento di nuove dottrine e direttive pratiche. Abbiamo nuove dottrine sulla liturgia, sulla Rivelazione, sul rapporto fra l’etica naturale e quella cristiana, sulla collegialità episcopale, sulla missione pastorale del Papa e dei vescovi, sul rapporto fra Scrittura e Tradizione, sul rapporto fra la scienza e la fede, sulla funzione della teologia, sulla coscienza religiosa, sull’ampiezza della misericordia divina, sulla Chiesa in se stessa, nel suo progredire nella storia, nel suo continuo riformarsi e nel suo rapporto col mondo e con lo Stato, sulla mariologia, sulla formazione del clero, sulla vita religiosa, sull’escatologia, sulla funzione del laicato, sul concetto della santità.
Abbiamo nuove direttive pratiche sul modo di celebrare la Messa e i sacramenti, sul compito dei laici, dei religiosi, dei sacerdoti, dei vescovi, del Papa e del collegio episcopale, sul modo di evangelizzare, su come vanno regolati i rapporti della Chiesa con lo Stato, sull’educazione cattolica, sull’uso dei mezzi di comunicazione, sulla funzione delle leggi ecclesiastiche, sul modo di realizzare il culto mariano.
San Giovanni XXIII nominò una commissione preparatoria dei lavori del Concilio. Essa lavorò per due anni con la produzione di un materiale di circa 2000 pagine. Essa rifletteva soprattutto il punto di vista della scuola teologica romana, fedele a San Tommaso, ma poco sensibile ai valori del pensiero moderno, anzi con accentuata tendenza alla condanna, per cui per essa dire «pensiero moderno» voleva dire abbandono dell’oggettivismo, del realismo, della trascendenza e del teismo con la sostituzione del soggettivismo, dell’immanentismo, dell’idealismo e dell’ateismo.
Nel corso dei lavori conciliari si fece viva un’inopportuna e ingiusta polemica contro la teologia scolastica, che in passato fu sempre lodata e raccomandata dai Papi. Fu questo nei lavori del Concilio il farsi vivo di una punta di modernismo, che non era scomparso del tutto, ma aveva perseverato nel sottosuolo della storia e che sarebbe riesploso dall’immediato postconcilio ad opera di Rahner e di altri teologi, alcuni dei quali furono censurati; ma Rahner è sempre riuscito a sfuggire alle censure, grazie alle fortissime protezioni delle quali godeva e dell’abilità con la quale riusciva ad apparire un grande pensatore e addirittura un mistico.
Con tutto ciò i Padri conciliari del nord Europa fecero bene a spingere i Padri conservatori a realizzare i voti di San Giovanni XXIII e di San Paolo VI che si usasse un linguaggio non scolastico o didascalico, come da lezione di scuola e neppure giuridico da legge positiva, ma biblico, patristico, omiletico o, come si diceva kerigmatico o pastorale.
Fine Prima Parte (1/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 13 gennaio 2025
Il grande errore dell’età moderna denunciato da Concilio è stato l’ateismo materialista. Tuttavia il Concilio non ha pensato di denunciare l’altra pericolosissima insidia, esattamente corrispettiva a quella dell’ateismo, che è l’idealismo panteista. Ha tenuto presente Marx, ma non ha considerato Hegel. Per cui non ci ha mostrato che ateismo e panteismo si corrispondono esattamente, sono le due facce della stessa medaglia.
Ora l’insidia fondamentale del rahnerismo sta proprio qui, che Rahner, volendo dare ad intendere di aver capito lui, al di là dei tomisti, qual è il vero concetto tomista dell’essere, falsifica il suo pensiero presentando Tommaso come fosse un hegeliano, quando, se c’è un campione del realismo, questo è proprio Tommaso. Il colpo di mano di Rahner è dunque formidabile e di una sfrontatezza incredibile.
In realtà il disprezzo o rifiuto della teologia scolastica è un atteggiamento che risale al Rinascimento e a Lutero, per esprimere l’ostilità o il rifiuto della teologia tomista in nome di una teologia basata solo sulla terminologia biblica, soprattutto ebraica, senza tener conto del fatto che se il vocabolario ebraico è più povero di quello greco, i termini ebraici sono carichi di molte virtualità semantiche, che alla fine dicono anche di più di quello che dice il greco o il latino. Per esempio, barà in ebraico significa fare e creare, mentre la lingua greca che pure ha ktizein e poiein, non ha un termine specifico per significare creare. Così pure dabar, parola, è in greco rema, ma è anche concetto, nòesis, ragione, logos, opera, pragma, praxis.
Con tutto ciò i Padri conciliari del nord Europa fecero bene a spingere i Padri conservatori a realizzare i voti di San Giovanni XXIII e di San Paolo VI che si usasse un linguaggio non scolastico o didascalico, come da lezione di scuola e neppure giuridico da legge positiva, ma biblico, patristico, omiletico o, come si diceva kerigmatico o pastorale.
Immagini da Internet:
- L’incipit del libro della Genesi, e con esso della Bibbia
- Parashat Bereshit. La creazione è un fondamento della fede ebraica
[1] Discorso di apertura del Concilio dell’11 ottobre 1962.
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