Il processo all’infinito nella prova dell’esistenza di Dio
Prima Parte (1/2)
La sua grandezza non si può misurare
Sal 145,3
Conta le stelle, se riesci
Gen15,5
Come è nata l’idea dell’infinito?
La parola «infinito» è di uso comune ed ha per noi un significato ovvio, che impariamo senza difficoltà fin da ragazzi: un numero infinito, un amore infinito, un bene infinito, il verbo all’infinito, lo spazio infinito. Diciamo che Dio è infinito, che l’uomo ha una dignità infinita, parliamo di un progresso infinito.
Nella storia della filosofia il primo a parlare dell’infinito o indeterminato (àpeiron) come principio primo della realtà è stato Anassimandro nel sec.VI a.C. È interessante come egli abbia saputo coglierne il significato divino al quale ha associato il concetto dell’Uno.
L’infinito è ciò che non ha fine, ciò che non è finito, ciò che non finisce e neppure comincia. Ma per noi oggi la parola ha perduto il significato latino di in-finitus, il non-finito, come sarebbe un lavoro non finito, non portato a termine, imperfetto, incompiuto, incompleto. Non usiamo più la parola in questo senso. Al contrario, noi oggi diamo a questa parola il senso di qualcosa che è oltre il finito, che è meglio del finito e non di qualcosa che non ha raggiunto il suo fine, il non-compiuto, l’imperfetto. Il fine può essere finito, ma, come fine ultimo, può essere infinito, somma perfezione.
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Non ci è difficile concepire il finito. Ne abbiamo esperienza tutti i giorni. La vita comincia e finisce. Le nostre forze hanno un limite. Noi agiamo per un fine, raggiunto il quale la nostra azione ha fine. Ogni numero è finito, ma possiamo aggiungere sempre un’unità: ed ecco affacciarsi la nozione dell’infinito. Immaginiamo qualcosa a cui nulla si può aggiungere: ecco l’idea dell’infinito, che appare come sommamente perfetto, insuperabile e completo, come totalità.
Il finito è causato. È parziale. Il finito partecipa di un tutto infinito. È il termine di qualcosa che è cominciato. Dà spazio ad altro. Si accompagna con altri finiti. Non esaurisce l’essere. Il finito è essenzialmente relativo: non che sia pura relazione. Esso è sostanza che ha relazione con gli altri finiti.
Il finito ci fa bene, ci è utile, ci piace, ci occorre, ci è necessario, ma non ci basta. Noi stessi siamo finiti, benché sentiamo un bisogno d’infinito. Il finito non riguarda solo la materia ma anche lo spirito. La materia è un costitutivo del nostro essere e dell’essere del mondo. Essa è eminentemente il mondo della finitezza, della particolarità, della spaziotemporalità, della determinatezza sotto un individuo, una specie e un genere.
Non ci è neppure difficile formarci il concetto o l’immagine dell’infinito: è ciò che non ha fine, ciò che va oltre, ciò che supera ogni limite: un numero infinito di volte, uno spazio o un tempo infinito, una perfezione infinita, un amore infinito, una successione infinita di cause, ciò che non finisce mai, l‘eterno, l’immortale. Suggerisce l’dea della totalità e dell’assoluto. Possiamo semmai chiederci se certe forme di infinito esistano realmente. Può esistere un numero infinito? L’universo è infinito?
Immagini da Internet
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