Heidegger ha superato Hegel? - Parte Terza (3/3)

 

Heidegger ha superato Hegel?

Parte Terza (3/3) 

Heidegger rimane nell’orizzonte di Hegel

Heidegger non riesce a superare Hegel e quindi, nonostante il suo sforzo di recupero dell’essere, resta sostanzialmente un idealista, per il quale l’essere non trascende il pensiero, non è l’essere reale extramentale, quello che Tommaso chiama «ens extra animam», ma è l’essere pensato, la rappresentazione dell’essere. L’essere, per Heidegger, è la «presenza del presente», per cui se non ci sono io al quale l‘essere è presente, l’essere non c’è, non c’è niente.

È vero che Heidegger ammette il nascosto, il mistero, ma questo mistero è sottratto ad ogni concettualizzazione, per cui ci chiediamo come può questo mistero essere oggetto dell’intelletto umano, che non capisce la realtà esterna se non mediante i concetti? In ultima analisi siamo sempre nella linea dell’io cartesiano.

E del resto ricordiamo che Heidegger è stato discepolo di Husserl, il quale pure aveva promesso di superare l’idealismo e di «tornare alle cose stesse», ma queste «cose» sono le essenze in quanto immanenti alla coscienza, che poi è sempre l’autocoscienza cartesiana e quindi anche qui l’essere extramentale, benchè non negato, è messo «tra parentesi», quando dovrebbe essere il primo interesse del vero realista. Succede così che l’essere non è utilizzato per fondare il sapere e non è l’oggetto della filosofia, ma è semplicemente il referente del cosiddetto «atteggiamento naturale», che mi serve per fare i conti della spesa, guardare all’orario dei treni e riscuotere lo stipendio mensile.

In tal modo anche nell’orizzonte della modernità l’unica filosofia  che ci mostri l’essere e ci guidi all’essere è ancora quella tomista, ossia  la bistrattata filosofia scolastica promossa dalla Chiesa, che secondo Rahner, sarebbe ormai morta e sepolta perché secondo lui per essere all’altezza dei tempi moderni occorre assumere come quadro di riferimento le categorie filosofiche dell’ontologia fenomenologica di Heidegger, che gli utilizza, insieme con l’essere hegeliano per darci ad intendere che la metafisica tomista intendeva esprimere esattamente ciò che hanno detto Hegel e Heidegger. Senonchè nei decenni seguenti, al termine della sua vita, Rahner, dopo che la falsità della sua interpretazione hegeliana di San.Tommaso era stata smascherata, invece di assumere il vero tomismo, ebbe a dire che il suo unico maestro era stato Heidegger.

A conclusione di questa breve disamina possiamo dire che la vera valorizzazione della dignità dell’essere rimane quella di San Tommaso. Egli conobbe Parmenide attraverso Aristotele e non ebbe la possibilità di accedere ai testi originali. Certamente, se avesse potuto leggerli direttamente, senza il filtro di Aristotele, non avrebbe mancato anche lui di rintracciarvi, come fecero Heidegger, Bontadini e Severino, la presenza del puro essere.

San Tommaso maestro dell’essere

È interessantissimo quanto San Tommaso dice per descrivere che cosa è l’essere – potremmo dire l’essenza dell’essere - e che Fabro ha raccolto in una significativa serie di passi[1], anche se ce ne sono molti altri che possono essere rintracciati in un index thomisticus.

Ma dall’altra parte pochi o pochissimi tra noi si fermano stupìti su questa parola interessati al suo significato e colpiti dal fatto che tale suo significato sia ad un tempo chiaro e oscuro, semplicissimo e complessissimo, evidente e misterioso, uno e molteplice[2].

Come sappiamo, Tommaso, per significare l’essenza dell’essere, usa il concetto di actus, ricavato dalla energheia di Aristotele, ma mentre l’atto aristotelico è la soltanto la forma che attua la materia, l’atto tomistico è l’essere che attua l’essenza.

Nessuno come San Tommaso sa distinguere così chiaramente essere e pensiero da capire che mentre l’essenza è oggetto del pensiero nell’apprensione concettuale, l’essere, che si aggiunge all’essenza come atto dell’essenza, è dichiarato dal giudizio nel momento della verità. In tal modo Tommaso ha messo a fuoco l’essere (esse, einai) come tale, ossia come atto (actus, energheia) al di sopra dell’essenza come potenza.

Come cogliamo l’essere? In un’esperienza? Tale è la concezione di Heidegger, di Rahner e di Lotz. Rosmini parla di intuizione immediata o apriori. Anche parlare di visione, wesenschau, come fa Husserl, non pare giusto, perchè anche qui si tratta di sapere immediato che non cade a proposito. Ma questi filosofi hanno una gnoseologia che va bene per i puri spiriti e non per l’uomo, che nel conoscere parte dal senso.

Il termine esperienza o intuizione non sembra dunque adatto, perché esso comporta un sapere immediato e originario, che per noi, come sapeva anche Kant, è solo quello sensibile. Ora invece il nostro sapere iniziale è aposteriori, ossia cominciamo con l’esperienza delle cose sensibili. Solo riflettendo su queti oggetti iniziali del sapere scopriamo l’ente e successivamente l’essere.

Si potrebbe allora parlare, come fa Maritain, di intuizione intellettuale, che però si verifica dopo aver concepito l’ente al terzo grado di astrazione[3], secondo la dottrina tomistica di Tommaso De Vio. Meglio parlare di intuizione intellettuale o intellezione. Invece noi percepiamo l’essere solo ricavandolo dall’ente: è questo il primo di tutti i concetti, nel quale tutti si risolvono. E quando riflettiamo sull’ente ci accorgiamo che è qualcosa che ha l’essere. Per cogliere l’essere dunque non basta questo processo astrattivo che si ferma all’ente, ma occorre il giudizio esistenziale, per il quale non ci limitiamo a prescindere dal quantitativo e quindi dalla materia, ma nel giudizio affermiamo la possibilità dello spirito, ossia dell’ente immateriale, per cui l’ente spirituale non solo astrae dalla materia, ma è da essa separato.

Da notare che l’ente in quanto ente, oggetto della metafisica, va distinto dall’ente comune, che noi astraiamo dall’ente individuale. L’ente comune (ens in communi o universale) o ente in generale, è un concetto univoco approssimativo, iniziale, vago e indeterminato, che ci serve per concepire l’ente metafisico, che è analogico, ma anche l’ente logico o di ragione.

È il quadro più ampio del nostro pensiero, che include tutto e ogni cosa, ma nel contempo astrae da tutto e da ogni cosa.  Hegel lo ha confuso con l’essere, che è invece analogico, uno e molteplice, include tutto e ogni differenza virtualmente. Infatti la nozione dell’essere o dell’ente non astrae totalmente dagli inferiori come fosse un genere, perché anch’essi sono enti o hanno l’essere, ma li include virtualmente e implicitamente.

Cornelio Fabro ha poi precisato come l’esse tomistico non è tanto un esse in actu, quanto piuttosto un esse ut actus, l’actus essendi, tanto che mentre l’esse in actu non è che l’attuazione di una possibilità, per cui restiamo nel campo dell’essenza, l’esse ut actus è atto della potenza, per cui siamo nel campo della realtà. In altre parole, l’attuazione non perfeziona l’essenza sul piano della realtà, ma solo la fa passare del possibile all’attuale.

Di ciò Aristotele e Kant erano consapevoli. Ma di cui non erano consapevoli e che invece Tommaso conosce perché attinge da Es 3,14 è che l’atto d’essere aggiunge perfezione all’essenza sul piano del reale, giacchè Dio non è l’attuazione di una possibilità o l’atto di una potenza, ma è puro atto d’essere di un’essenza che coincide con lo stesso suo essere.

Fabro ha fatto bene a segnalare il primato in Tommaso dell’essere sull’esistenza: l’essere esiste, ma non è detto che l’esistente sia un essere; può essere anche un non-essere, un essere ideale o possibile o di ragione, come la negazione, il nulla o il male o l’ente logico o matematico o immaginario. L’impossibile o l’assurdo o il contradditorio esistono, ma non sono essere. Ciò che non esiste è ciò che non è o non ha essere, ma esiste come non-essere.

L’ente, per Tommaso è ciò che è in atto d’essere. E se l’essere non è atto di una potenza, allora sussiste da solo, per cui l’essenza di questo ente è quella di essere, ossia in Lui l’essenza coincide col suo essere. E questo è Dio, Colui che È per essenza, un ente che non ha l’essere, ma che è l’essere.

Da notare che Aristotele non si è chiesto che cosa è l’essere (einai), ma che cosa è l’ente (on). Aristotele ha conosciuto l’essere (esse, einai) solo come copula del giudizio, ma non ha pensato di considerarlo per sé stesso, perché per lui essere aveva significato solo nel giudizio, preceduto da un soggetto e da un predicato. Ma da solo gli sembrava che non significasse nulla: invece San Tommaso, che aveva presente l’ipsum Esse che egli aveva trovato in Es 3,14, dice al contrario che il predicato «è» (est)

 

«significa anzitutto ciò che cade nell’intelletto secondo il modo dell’assoluta attualità: infatti est, semplicemente detto, significa essere in atto; e quindi significa al modo di una parola (verbi). Poiché invero l’attualità, che questa parola est principalmente significa è comunemente l’attualità di ogni forma o atto sostanziale o accidentale, da qui viene che quando vogliamo significare qualunque forma o atto attualmente inerente a qualche soggetto, lo significhiamo con questa parola est o in modo semplice o in certo modo»[4]. Noi esprimiamo l’ente nel nome e nella semplice apprensione (simplex apprehensio) e l’essere nel verbo e nel giudizio.

Se non crediamo che Cristo è l’ipsum Esse,

ne và della nostra salvezza

La concezione tomista dell’essere ci consente di capire che cosa intende dire Cristo, quando, come vediamo nel Vangelo di Giovanni, più volte afferma di Se stesso «Io Sono» raccomandandoci di credere a questa verità per non morire nei nostri peccati. Al riguardo è molto importante il dialogo agitato e drammatico che Gesù ha, nel c.8 di Giovanni, con i Giudei circa la sua identità. Gesù afferma di essere sic et simpliciter, senza precisare chi è e i Giudei comprensibilmente rimangon perplessi, giacchè l’espressione di Gesù li sorprende. Infatti è insolito dire «io sono» senza un predicato nominale. Io posso dire: io sono un uomo, sono un italiano, sono un domenicano, ma non dico di me stesso: io sono.

Ebbene, i Giudei avevano dimenticato l’«Io Sono» di Es 3,14 e per questo chiedono a Gesù: «tu chi sei?» (v.25). Gesù non può che rispondere ripetendo quello che ha detto, ma usando un altro termine, che nei Vangeli ricorre soltanto qui: «Principio», Archè. Da notare che Giovanni usa questo termine nel Prologo per designare il Logos e nell’Apocalisse dove Cristo designa Sé Stesso dicendo «Io sono il Principio» (21,6). L’essere sussistente è il principio di tutte le cose perchè è il creatore.

La risposta di Gesù alla domanda chi sei nel testo greco è la seguente: «ten Archèn, o ti kai lalò ymìn». La Vulgata traduce bene: «Principium, qui et loqiuor vobis». San Tommaso osserva: «induce i Giudei a credere in Cristo la sublimità della sua natura, perché Egli è il Principio» e aggiunge la perifrasi proposta da Sant'Agostino: «dovete credere che io sono il Principio, per non morire nei vostri peccati»[5]

Dispiace che la traduzione della CEI di questo passo importantissimo sia sbagliata. Infatti alla domanda dei Giudei fa rispondere a Gesù: «proprio ciò che vi dico», eliminando così il preziosissimo termine Archè, che non compare solo nel Prologo del Vangelo di Giovanni e nell’Apocalisse, ma anche nella Genesi: «in principio Dio creò il cielo e la terra». Ora questo principio non è solo l’inizio del tempo, come spiega il Concilio Lateranense IV, ma anche, come spiegano i Padri, il Logos, per mezzo del quale Dio Padre ha creato il mondo.

Vediamo allora quanto è importante formarci il giusto concetto dell’essere in ordine alla nostra eterna salvezza.  Bisogna pertanto finirla una volta per sempre sia contro la dannosa polemica luterana contro la metafisica, sia con la falsa metafisica di Cartesio e sia con la cecità nei confronti della metafisica propria della tradizione protagorea, epicurea, materialistica, sensista, empirista e positivista.

L’essere (esse, einai) non è l’indeterminato, non è il principio, non è il mistero, non è il divenire, non è la storia, non è l’uno, non è uno solo, non è il necessario, non è l’eterno, non è Dio, non è l’assoluto, non è l’evento, non è il presente, non è il temporale, non è l’apparire, non è l’idea, non è l’essenziale, non sono io, non è la coscienza, non è la volontà, non è il pensiero, non è lo spirito, non è la materia, non è la natura, non è il sensibile, non è l’individuo.

L’essere è l’atto di tutti gli atti, la forma di tutte le forme, la perfezione di tutte le perfezioni, l’intimo più intimo di ogni ente. Esso ha una molteplicità di sensi o significati, tendenti all’unità o attorno ad un’unità; comporta diversi gradi di perfezione o partecipazione; non ha un unico significato, un significato semplice ed univoco, ma neppure equivoco. Ha un significato analogico e partecipativo rispetto all’essere per essenza. L’essere è distinto dall’esistere. Questo è attuazione del possibile o è il semplice possibile o pensabile o non-contradditorio, che può essere anche un non-essere, come per esempio il nulla, il male o il pensato in quanto pensato.

Bisogna che ci convinciamo che se non ci formiamo un concetto giusto di Dio come causa prima e fine ultimo, come ente primo e supremo, la cui essenza è il suo stesso atto d‘essere, falliamo nel nostro concepire Dio, vaghiamo senza meta nell’agnosticismo o nello scetticismo, o caschiamo nell’eresia, nell’assurdo, o nel panteismo o nell’ateismo o nell’idolatria o nel politeismo.  

Basta con le tergiversazioni. Cominciamo a pensare sul serio

Bisogna che contro il modernismo di Rahner e compagni, torniamo a comprendere e ad accettare la raccomandazione della Chiesa a favore della filosofia scolastica tomista, conciliatrice della metafisica col dogma cattolico e quindi come conciliazione della ragione con la fede e come vera interpretazione della divina rivelazione.

Teologia scolastica, nel linguaggio della Chiesa, non vuol dire affatto riesumazione della teologia del sec. XIII, ma semplicemente la teologia insegnata a scuola, vuol dire scuola di teologia e senza scuola – fosse il catechismo parrocchiale -, non esiste serietà, fondatezza e maturità di pensiero e senza maturità di pensiero non esiste fede cattolica, ma superstizione, mitologia, fantasticheria e magia.

Ciò non vuol dire affatto tornare ad una Chiesa preconciliare, ma è la conferma della philosophia perennis ancilla theologiae, la vera continuazione dell’impulso progressista e innovativo conciliare, nella tradizione, della filosofia e della teologia secondo i bisogni veri, urgenti e indilazionabili degli uomini del nostro tempo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 maggio  

Come sappiamo, Tommaso, per significare l’essenza dell’essere, usa il concetto di actus, ricavato dalla energheia di Aristotele, ma mentre l’atto aristotelico è la soltanto la forma che attua la materia, l’atto tomistico è l’essere che attua l’essenza.

Nessuno come San Tommaso sa distinguere così chiaramente essere e pensiero da capire che mentre l’essenza è oggetto del pensiero nell’apprensione concettuale, l’essere, che si aggiunge all’essenza come atto dell’essenza, è dichiarato dal giudizio nel momento della verità.

Come cogliamo l’essere? In un’esperienza? Tale è la concezione di Heidegger, di Rahner e di Lotz. Rosmini parla di intuizione immediata o apriori. Anche parlare di visione, wesenschau, come fa Husserl, non pare giusto, perchè anche qui si tratta di sapere immediato che non cade a proposito. Ma questi filosofi hanno una gnoseologia che va bene per i puri spiriti e non per l’uomo, che nel conoscere parte dal senso.

Da notare che l’ente in quanto ente, oggetto della metafisica, va distinto dall’ente comune, che noi astraiamo dall’ente individuale.

È il quadro più ampio del nostro pensiero, che include tutto e ogni cosa, ma nel contempo astrae da tutto e da ogni cosa. Hegel lo ha confuso con l’essere, che è invece analogico

Bisogna che, contro il modernismo di Rahner e compagni, torniamo a comprendere e ad accettare la raccomandazione della Chiesa a favore della filosofia scolastica tomista, conciliatrice della metafisica col dogma cattolico e quindi come conciliazione della ragione con la fede e come vera interpretazione della divina rivelazione.

Ciò non vuol dire affatto tornare ad una Chiesa preconciliare, ma è la conferma della philosophia perennis ancilla theologiae, la vera continuazione dell’impulso progressista e innovativo conciliare, nella tradizione, della filosofia e della teologia secondo i bisogni veri, urgenti e indilazionabili degli uomini del nostro tempo.

 Immagini da Internet: Rosmini e Rahner


[1] Vedi in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, pp.103-135.

[2] È sempre utile leggere quanto Maritain dice circa il modo col quale noi arriviamo all’intuizione o intellezione dell’essere in Sept leçons sur l’être et les prermiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934 e come affermiamo l’essere nel giudizio: Court traité de l’existence et de l ‘existant, Paul Hartmann Editeur, Paris 1947.

[3] 1° grado: astrazione dal singolare empirico (fisica): 2° grado: astrazione dal sensibile e mobile (matematica); 3° grado: astrazione dalla quantità; ecco apparire l’ente in quanto ente, l’ente metafisico. Vedi: Benoît-Marie Simon, Esiste un’«intuizione dell’essere»?, Edizioni ESD, Bologna 1995.

[4] Commento al Perì hermeneias di Aristotele, Edizioni Marietti, Torino 1964, l.I, c.III. n.73. p.292.

[5] Commento al Vangelo di San Giovanni, Edizioni Marietti, Torino-Roma 1952, nn.1180-1183, pè.221.

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