Il mistero della risurrezione del corpo - Prima Parte (1/2)

 

Il mistero della risurrezione del corpo

Prima Parte (1/2)

Tutti risorgeranno col corpo che hanno adesso

Concilio Lateranense IV del 1215

La situazione presente non ci soddisfa,

ma non riusciamo a sapere come dovrebbe essere il modello alternativo

Una delle promesse che Cristo fa a coloro che Lo seguono è quella che quando Egli tornerà alla fine del mondo, li farà risorgere da morte, ossia ridarà vita al loro corpo in modo tale da vivere per sempre. E per darci una prova di credibilità di queste sue parole, Gesù, come è noto, ha risuscitato alcuni morti (Lc 7,12; 8,54; Gv 11, 1-44).

Questa promessa di Gesù è certo moltoattraente, perché la prospettiva di dover morire ci ripugna. Vorremmo non morire mai. Comunque, se proprio la morte è inevitabile, ci consola almeno questa prospettiva di poter risorgere un giorno ad una vita immortale. Ma come concepire tale vita? Che cosa faremo in questa vita? Continueremo a riprodurci come facciamo adesso? Continueremo a progredire nel padroneggiare sempre più le forze della natura come facciamo adesso?

Noi infatti nella vita presente da una parte vogliamo vivere, per cui ci opponiamo il più possibile alla minaccia della morte, la avvertiamo come un male da respingere. Cerchiamo pertanto col progresso della medicina di allungare il più possibile la vita e di curare al massimo la salute.

Ma dall’altra, consapevoli dell’inevitabilità della morte a causa della corruttibilità del nostro corpo, non riusciamo ad immaginare come potrebbe essere un corpo immortale, né con le nostre sole forze riusciamo a evitare la morte. La situazione presente non ci soddisfa, ma non riusciamo a immaginare, concepire e progettare un’umanità sana e immortale, che costituisca un’alternativa soddisfacente alla situazione presente. Per questo, tanto meno riusciamo a trovare la via e i mezzi per realizzare questa umanità felice, perfetta, ideale e immortale.

Ora Cristo ci conferma nel nostro desiderio, ci prospetta la possibilità di realizzare in un futuro a Lui noto questa umanità, a patto che accettiamo il suo aiuto e seguendo le norme di vita che ci indica, senza però rivelarci con precisione come sarà fisicamente fatta questa umanità immortale. Egli ci dà prova della verità di quanto ci promette operando il miracolo della sua risurrezione e facendo risorgere alcuni morti.

Prima di affrontare l’argomento, può essere utile ricordare alcune posizioni assunte su questa tematica dall’umanità nella storia passata e presente.

Alcuni sono consapevoli che il nostro spirito è immortale, ma costatando che la realtà materiale lo ostacola, lo inganna e lo spinge a peccare, ritengono che la vera felicità non consista in una prospettiva futura di riassunzione del proprio corpo, ma al contrario, di poter liberarsene per sempre.

Per altri la morte non è per nulla ripugnante, ma un fatto del tutto normale e naturale. Essere-non-essere, vero-falso, bene-male, gioia-sofferenza stanno sempre assieme in noi e in Dio. Vita e morte si richiamano a vicenda. Non c’è vita senza morte e non c’è morte senza vita. Dalla morte viene la vita e dalla vita viene la morte. Tutto ritorna, tutto è eternamente ciclico. Anche Dio muore e risorge per morire di nuovo e così all’infinito. È questo l’Assoluto. La vita non è una pura vita senza la morte, ma la vita-morte. Questa è la vera immortalità. Non solo la vita ma anche la morte è immortale.

Altri non credono che il proprio spirito sia immortale, così da sopravvivere alla morte del corpo, ma pensano che al sopraggiungere della morte tutta la loro persona si dissolverà nel mondo materiale trasformandosi in altre sostanze secondo un’evoluzione continua della materia.

Altri hanno la percezione dell’infinito, dell’assoluto e dell’eterno, ma a loro non interessa sapere che cosa ci sarà dopo la morte. Per loro l’importante è godere il più possibile adesso, e considerare i beni presenti nella loro provvisorietà e fuggevolezza come gli unici, tali che dobbiamo vedere proprio in essi la sorgente e la ragione di quell’infinità e quell’assoluto, dei quali sentiamo il bisogno, ma che saremmo tentati di vedere in un inesistente al di là di questo mondo, che invece è l’unico esistente.

Altri ammettono uno Spirito assoluto e credono di essere questo stesso Spirito, cosa che però nella presente vita mortale non appare, perché adesso abbiamo l’impressione che il nostro io sia quello empirico e materiale che sperimentiamo nella superficialità della vita quotidiana. Ma, se riflettiamo seriamente su ciò che noi veramente siamo, ci accorgeremo che il nostro io profondo non è il nostro io empirico destinato a scomparire con la morte, ma è un Io assoluto, del quale i singoli io empirici non sono che una transitoria apparenza empirica. Pertanto al momento della morte ci appare in chiarezza e pienezza e per sempre quell’Io assoluto che tutti siamo, senza che in questa vita ne avessimo coscienza, distratti dalle cose sensibili, tranne i filosofi e i veggenti.

Altri ammettono l’eternità e l’immortalità, ma solo quella dell’essere. Invece noi, in quanto enti contingenti e temporali, non abbiamo un’esistenza per conto nostro distinta dall’essere, così che ognuno di noi possegga un’anima immortale tale da poter riassumere il proprio corpo. Il nostro essere non è distinto dall’essere, ma è lo stesso essere in quanto si manifesta e scompare in vari modi successivi e spaziali, che siamo ciascuno di noi.

Quindi non ha senso prospettare una risurrezione del nostro corpo, perchè noi stessi siamo apparizioni e sparizioni eterne, benché tra di loro diverse, dell’Eterno, ossia dell’unico Essere e quindi siamo eterni noi stessi, giacchè tutto è eterno, così come tutto è essere. 

Altri, credendo di interpretare la concezione cristiana della resurrezione, ma rifiutandosi di ammettere la distinzione e quindi la separabilità fra anima e corpo, credono che alla nostra morte tutto il nostro essere, anima e corpo, muore e tutto immediatamente dopo o anche nello stesso tempo, anima e corpo, risorge.

Riguardo alla questione dell’esistenza dello spirito umano, indipendente dalla materia, vorrei far notare che Kant, benché respinga la psicologia aristotelica, non nega affatto, nella linea di  Cartesio, l’esistenza e la dignità immateriale, metempirica, sovramateriale e sovrasensibile del nostro spirito.

Infatti Kant sa bene che ogni nostra conoscenza parte bensì dall’esperienza e in questo senso è a posteriori, ossia parte da ciò che assiologicamente dopo ed inferiore,  anche se è prima nel tempo, il dato sensibile, e sa altresì che la scienza è a priori, razionale, universale e necessaria, anche se viene dopo nel tempo, e quindi non nega una scienza a priori, cioè che si fondi e parta da ciò che è assiologicamente prima e più importante, puramente razionale e intellegibile ed indipendente dalla verifica empirica, ossia lo spirituale.

Quando egli dice che la ragione speculativa non può oltrepassare l’esperienza per elevarsi al sapere metafisico, perché i concetti resterebbero forme vuote senza contenuto tratto dall’esperienza, non intende affatto negare la possibilità di concetti metafisici a priori («concetti puri» e «idee») e della metafisica come scienza, e quindi la scienza dello spirito (intelletto e ragione), dell’anima (autocoscienza) e di Dio (legge morale e ragion pratica) , ma crede che per fondare la metafisica occorra  partire dal cogito cartesiano («io penso»), anziché dall’esperienza, come sostiene Aristotele. Quindi anche in Kant è possibile trovare una dimostrazione della spiritualità dell’anima, benchè egli neghi quella ricavata dalla metafisica realista di Aristotele.

È indubbio che Kant sa bene che cosa è il nostro spirito, altrimenti non avrebbe scritto le tre Critiche, che non sono altro che trattati sullo spirito umano . Ciò che non ha valore è la sua pretesa di dimostrarne l’esistenza in base a Cartesio e non ad Aristotele.

Perché ci sia la risurrezione occorre ammettere

la separabilità di un’anima immortale da un corpo corruttibile.

È chiaro che in tutte le precedenti concezioni la risurrezione del corpo è una cosa impossibile o insensata o viene fraintesa. Se io non sento in me qualcosa di immateriale, da cui ricevo vita, qualcosa di estremamente prezioso, fonte di enorme felicità, a cui tengo assolutamente e che non può morire, qualcosa di distinto da altre forze vitali inferiori e pur preziose, che irreparabilmente col tempo e vari incidenti, si corrompono e delle quali perdo inesorabilmente il possesso anche da un momento all’altro, ciò è segno che non considero la mia dignità di persona.

Se io non rifletto su tutto questo e non mi curo di considerare questa enorme differenza tra quei due piani di esperienza interiore, se io non mi rendo conto che la vera e somma felicità la trovo nell’esercizio del mio pensiero, della mia ragione, dell’intelletto, della coscienza, della volontà relativamente ad oggetti e valori certi, oggettivi, assoluti, infiniti, universali, immortali, incorruttibili, indefettibili ed, immutabili, vuol dire che soffoco un me le esigenze dello spirito.

Se io al contrario sono immerso nel flusso della storia, nelle cose visibili che passano, se sono attratto solo da interessi e prospettive puramente economici, edonistici, materiali, passeggeri, soggettivi, emotivi, passionali, da beni effimeri, caduchi, sensibili, provvisori, casuali, incerti,  contingenti, mutevoli, se tutte le mie prospettive si racchiudono nei confini di questa vita mortale, per cui se anche guardo a un futuro, si tratterà sempre di un futuro terreno di questo  mondo, è chiaro che se per me le cose stanno così, per me la morte, per quanto possa ripugnarmi e cerchi di allontanarla il più possibile, è un evento che segna la mia fine e la fine di tutti i miei possibili godimenti, essenzialmente legati a questa vita fisica mortale.

Ora, la risurrezione del corpo suppone amore per le cose che non passano, attaccamento a quelle eterne, permanenza di un’anima immortale. Ma se l’assoluto è per me la vita presente e se finita questa vita, tutto per me è finito, di cosa dovrei attendere la risurrezione? È dunque evidente che per trattare il nostro tema, dobbiamo premettere alcune parole relative all’immortalità dell’anima. Ma prima di ciò dobbiamo fare un’altra considerazione.

Si tratta del fatto che la natura umana risulta dalla composizione di due princìpi sostanziali, uno spirituale vivificante, l’anima, e l’altro materiale, il corpo, di per sé privo di vita. Ora, mentre l’anima, come forma semplice sussistente, è per sé immortale, il corpo, che risulta dalla composizione di molteplici elementi chimici che di per sé son fatti per appartenere ad un organismo vivente, vive solo se è vivificato dall’anima e solo a questa condizione sta unito all’anima per formare con essa quell’unica sostanza che è l’uomo. 

Per questo, la corporeità per sua essenza non è altro che un insieme studiato dalla chimica, fatto di soluzioni e dissoluzioni, di integrazioni e disintegrazioni, di composizioni e decomposizioni, da qui la naturale corruttibilità del corpo. Esso può stare unito all’anima nella misura e per tutto il tempo in cui essa ha la forza di tenerlo unito a sé e vivificarlo, ma, siccome a un certo punto l’anima perde questa forza o da sé o perché il corpo a causa di processi degenerativi morbosi o traumatici, diventa ingovernabile.

A questo punto succede che la corporeità riprende la sua autonomia e gli elementi chimici che la compongono continuano bensì a seguire le loro leggi, ma senza più stare al servizio della vita di quell’organismo che ormai con la morte si va disintegrando e decomponendo.

Per questo, come è narrato nella Genesi, Adamo ed Eva furono creati immortali non in forza di una natura umana per sé immortale, ma perché Dio conferì loro l’immortalità come dono preternaturale, dono che essi persero col peccato, il quale ebbe come conseguenza la tendenza che purtroppo abbiamo nella vita presente non solo a trascurare i divini precetti che procurano la vita al corpo e all’anima, ma addirittura una tendenza opposta a causare in noi e nel prossimo la morte.

Come sappiamo che l’anima umana è immortale?

Che noi siamo dei corpi sensibili, viventi e materiali, simili agli animali, non occorre dimostrarlo, tanto è evidente.  La questione seria e difficile è il sapere che cosa è che fa sì che il nostro sia un corpo vivo, senziente e conoscente, distinguendolo dai corpi che non vivono.  Che cosa succede in un corpo quando da vivo diventa morto? Che cosa è che viene meno e che lo faceva vivere? Questo principio si annulla, scompare o si separa dal corpo? Semplicemente ritira la sua azione vivificatrice o svanisce nel nulla? Muore anche lui? Perché da un corpo non vivente non viene fuori il vivente, ma solo da un vivente? Perché una macchina non riesce a fare quello che un fa corpo vivo?

Il nostro principio di vita e di azione, l’anima che ci dà vita, è materiale o immateriale, deriva dal corpo o da Dio? È immortale o mortale? È solo sensitiva o è anche spirituale? È di pari dignità del corpo o superiore al corpo? È guida del corpo o è mossa dal corpo?

Agisce o non agisce senza il corpo? Il suo agire è sempre in atto o passa dalla potenza all’atto? È distinta dal corpo o è solo un modo d’essere del corpo? È separabile o è inseparabile dal corpo? Sussiste o non sussiste da sola  senza il corpo? Ciascun individuo ha la sua anima o essa è una sola per tutti? Sorge dal corpo o è causata da un principio superiore?

L’anima esiste da sempre o ha un inizio temporale? È causata o incausata? È generata o è direttamente creata da Dio?  È finita o è infinita? È tutta in tutto il corpo o solo nel cervello? Il corpo è una sola sostanza insieme con l’anima o anima e corpo sono due modi d’essere della stessa sostanza o persona?

La psicologia tomista ha già risposto in modo dimostrativo e scientifico a questi quesiti, per cui rimando ad essa[1]. Faccio presente peraltro che le Chiesa, dopo aver insegnato dogmaticamente nel Concilio Lateranense IV del 1215 che l’uomo è un’unica sostanza creata da Dio  a sua immagine e somiglianza, composta di spirito e corpo, ha successivamente  riconosciuto dogmaticamente le due tesi fondamentali della psicologia tomista: nel Concilio di Viennes del 1312  la tesi secondo la quale l’anima umana spirituale è forma sostanziale del corpo e nel Concilio Lateranense V del 1513 la tesi dell’immortalità dell’anima spirituale.

Supponendo come acquisite queste verità di ragione e di fede, desidero qui aggiungere alcune considerazioni od osservazioni a conferma di queste verità con particolare riferimento al problema di come concepire il fatto della risurrezione del corpo in relazione alla differenza fra la futura risurrezione finale e le risurrezioni operate da Cristo nel corso della sua vita terrena.

L’esperienza della coscienza

Noi possiamo accorgerci di avere una vita spirituale e addirittura di avere un’anima[2] riflettendo sul nostro io, sulle nostre idee, sui nostri pensieri, i nostri giudizi e ragionamenti, i nostri sentimenti, intuizioni e voleri, le nostre intenzioni, gli affetti, le insopprimibili e indispensabili istanze morali, le sorgenti della poesia e dell’arte, il gusto della bellezza, i richiami, i rimproveri e le approvazioni della coscienza, le aspirazioni religiose, le previsioni e progetti, i dati, gli atti, i ricordi, le esperienze e i prodotti interiori del nostro spirito, dei quali siamo coscienti o che emergono alla coscienza.

Riflettendo su questi contenuti di coscienza mi accorgo della differenza che esiste fra ciò che è fuori di me e raggiungo con i miei sensi e ciò che trovo in me e colgo con una vista immateriale, che è il mio intelletto. Vedo che il mio stesso corpo è qualcosa che sta davanti al mio intelletto come un qualcosa di materiale, che percepisco con i miei sensi.

Mi accorgo che ciò che trovo nella mia coscienza è un insieme di valori molto più importanti di ciò che al di fuori di me e percepiscono i miei sensi, ossia le realtà materiali corporee. Queste realtà le ho davanti a me, in me, attorno a me, prima di me e al di sopra di me. Eppure, pensandole, ecco che tutte me le ritrovo immaterialmente nella mia coscienza.

Mi accorgo della differenza che c’è nella realtà fuori di me, tra il mondo della materia e quello dello spirito: entrambi mi si presentano come una realtà svariatissima, molteplice e sconfinata, dove ciò che riesco a comprendere è infinitamente superato da ciò che non comprendo. La realtà spirituale mi appare nelle altre persone; quella materiale mi appare nei viventi inferiori, nella natura e nel cosmo,

Mi accorgo del mistero sia della materia che dello spirito. Certo, l’una e l’altra appartengono analogicamente all’orizzonte dell’essere, del reale. Eppure quali abissali differenze! La materia mi è troppo poco intellegibile. Lo spirito supera la capacità della mia intelligenza. Non sempre so dire a parole ciò che vedo sia nella materia che nello spirito.

La materia dice impenetrabilità, incompenetrabilità reciproca, molteplicità. Lo spirito dice penetrazione, intus-legere, trasparenza, comunione, comunicazione, unità, compenetrazione reciproca. Lo spirito dice infinità; la materia dice finitezza. La materia dice particolarità; lo spirito dice universalità. La materia dice generazione e corruzione; lo spirito immortalità.

Mi accorgo bene inoltre che il mondo che mi sta davanti non è la realizzazione di una mia idea, per cui non l’ho voluto io e non l’ho creato io, ma lo ha creato Dio. Il mondo e me stesso me li trovo davanti al mio intelletto già esistenti e  costituiti prima che io li pensassi e indipendentemente da me. Il mondo, compreso me stesso, non esiste perché lo penso, ma lo penso perchè esiste. E io stesso non esisto perchè mi penso, ma mi penso perchè esisto. Il mondo e il mio io sono dunque presupposti al mio pensarli, perché se così non fosse, il mio pensiero sarebbe privo del suo soggetto ed oggetto che sono appunto il mondo e il mio io.

Osserviamo inoltre che l’esperienza del dialogo e della conversazione con le altre persone mi fa capire che fuori di me non ci sono solo cose materiali, ma ci sono altri io simili a me. E se io mi scopro come sostanza dotata di spirito e di intelletto, vedo che attorno a me e con me esistono altre sostanze viventi come me, diverse da me, alcune inferiori, altre superiori, comunicando verbalmente con le quali, mi accorgo di un altro aspetto del mondo dello spirito, per il quale esso si distingue dalla materia e dai corpi, dove essi non possono comunicare intenzionalmente gli uni con gli altri, seppur viventi, e cioè il fatto che noi persone umane nel comunicarci i nostri pensieri e nel parlare fra tra noi diventiamo spiritualmente ed immaterialmente una cosa sola, ci identifichiamo tutti immaterialmente con ciò di cui stiamo parlando, diventiamo un unico spirito, pur restando distinti fra noi come persone spiritualcorporee, come individui materiali e sensibili, inseriti nello spaziotempo.

Mi accorgo di poter produrre mediante sensazioni, ricordi, immagini, intuizioni, concetti, giudizi e ragionamenti col mio intelletto e la mia volontà nella mia coscienza un mio mondo interiore che riproduce quello che vedo fuori di  me,  mondo materiale e mondo spirituale, dove trovo le cose, i viventi, gli uomini, gli angeli e Dio.

Mi accorgo che con un dovuto metodo di indagine e di riflessione, di intuizione e di comprensione, di induzione e di deduzione, posso arricchire, aumentare perfezionare continuamente questo mondo interiore, attingendo alla realtà esterna con i sensi o imparando dai miei simili.

Un valore della modernità

Un nuovo modo di scoprire l’esistenza dello spirito è venuto con una rinnovata indagine sul mondo della coscienza, che appare il grande centro d’interesse del pensiero moderno a partire da Lutero e Cartesio, uno sviluppo dell’interiorismo agostiniano dell’invito ad entrare in se stessi, fino a risalire alle aperture d’animo del Salmista, dove si trova la verità.

Parallelo a questa attenzione all’io è lo sbocciare nel sec. XVI dell’autobiografismo mistico femminile con Santa Teresa d’Avila. È nella coscienza che io trovo, con Sant’Anselmo, «ciò di cui nulla posso pensare di più grande», l’idea dell’infinito, dell’assoluto, dell’eterno, della totalità, della perfezione, dell’essere, di Dio.

Considerando questo mondo interiore invisibile ai sensi, vasto, profondo, insondabile, saldo, grandioso e misterioso, indipendente dalla sensibilità e quindi dalla materialità, un mondo capace di dominarla e di metterla al servizio dello spirito, non ho difficoltà ad accorgermi subito, al semplice atto di riflessione, nella semplice presa di coscienza, facendo attenzione ai suoi atti e ai suoi contenuti, senza passare dall’effetto alla causa, mi accorgo immediatamente e con assoluta chiarezza e certezza delle caratteristiche proprie, nonché del valore sublime e della potenza superiore del mondo dello spirito e arrivo a comprendere facilmente il perchè dell’immortalità dell’anima.

Certamente da condannare è la piega idealistico-panteista che poi questo spiritualismo produrrà a partire dal sec. XIX, ma non c’è dubbio che esso costituisce un arricchimento del patrimonio filosofico dell’umanità, dopo l’orientamento realista del pensiero greco, che ha il suo vertice in Aristotele con l’intelletto volto verso la realtà esterna, dove trova le tracce e le prove sensibili dell’esistenza dello spirito, dell’anima e di Dio, che giunge a scoprire mediante l’applicazione del principio di causalità.

Occorre inoltre distinguere la coscienza spirituale dalla coscienza sensibile o psicologica. Mentre gli animali non posseggono la prima, che suppone l’immortalità dell’anima, noi possediamo la seconda come gli animali. La vita psichica, come quella vegetativa sono potenze dell’anima, che mediano tra la spiritualità dell’anima e la materialità del corpo. Così si può dire che in noi esiste la distinzione tra spirito e corpo, distinzione che del resto è addirittura dogma di fede definito dal Concilio Lateranense IV nel 1215.

Tuttavia, a guardar le cose con esattezza, bisogna precisare che in noi esistono due livelli vitali, espressioni dell’anima spirituale, non così elevati da raggiungere lo spirito e non così bassi da stare al semplice livello del corpo. Trascendono la pura materia ma non del tutto, perché l’anima li educe dalla materia del corpo e quando hanno esaurito il loro ciclo vitale, ritornano nella materia. Ma anche quando raggiungono il vertice della loro potenza, la loro immaterialità è ben lontana da elevarsi al livello dell’immaterialità dello spirito.

La potenza dell’immaginazione è ben al di sotto di quanto può raggiungere il pensiero; la coscienza sensibile ha un’ampiezza assai più ristretta di quella che può essere raggiunta nella coscienza spirituale; il giudizio razionale è ben più saldo ed importante del giudizio del senso; il sentimento spirituale è cosa assai più elevata dell’emozione sensibile; l’amore spirituale è assai più elevato dell’amore passionale; la memoria sensitiva è molto meno incisiva e significativa di quella spirituale; l’istinto o l’impulso psicoaffettivo è un’inclinazione assai meno potente della forza della volontà; la gioia spirituale è immensamente superiore al piacere fisico. Tuttavia, anche l’esperienza psichica, benchè non sia al livello dello spirito, aiuta ad apprezzare l’immaterialità dello spirito.

Platone, al seguito di Socrate, ha scoperto l’esistenza dello spirito mediante il dialogo con l’altro e quindi l’uso della seconda persona del verbo essere: «tu sei». Aristotele ha scoperto l’esistenza dello spirito mediante la scienza, la psicologia e la metafisica, le quali usano la terza persona del verbo essere: «esso è». La filosofia moderna ha approfondito la conoscenza dello spirito mediante la coscienza, con l’uso del verbo essere alla prima persona: «io sono».

La scienza dello spirito ha il suo vertice e culmine nella teologia, dato che Dio è purissimo infinito Spirito.  Lo Spirito Santo, dono del Figlio e del Padre, abita nei nostri cuori e nelle nostre coscienze, e ci fa gridare: «Abbà! Padre!».

Il pensiero moderno ha raggiunto una eminente chiarezza e certezza circa il fatto che se io in coscienza ritengo esser vero ciò che in realtà è sbagliato senza che io me ne renda conto, devo seguire la mia coscienza. Resta il mio dovere del quale già si è accorto il pensiero antico di informare la mia coscienza, la quale è fallibile e può prende per vero ciò che è falso.

Aristotele sa già, contro il soggettivismo protagoreo, che esiste una realtà al di fuori della mia coscienza. Non la mia coscienza, ma il reale esterno è la regola di verità per la mia coscienza. Tuttavia, fatte le opportune indagini, ascoltato chi devo ascoltare, attento alla realtà esterna, io devo regolare la mia condotta morale ascoltando la voce della mia coscienza. Dio mi giudicherà in base a quanto la mia coscienza mi aveva prescritto o proibito di fare.

Anche oggi resta il mio dovere realistico avvertito da Aristotele di adeguare il mio giudizio o la mia coscienza alla realtà esterna così com’è. E tuttavia, se sbagliando in buona fede, sono soggettivamente certo in coscienza che una cosa è vera mentre in realtà è falsa, devo seguire la mia coscienza, senza escludere che successivamente io mi accorga di avere sbagliato.

Solo allora ho l’obbligo di correggermi. Peraltro, perché io sia autorizzato ad agire non è necessaria sempre una certezza oggettiva assoluta, spesso impossibile, ma è sufficiente quella soggettiva, purchè in buona fede e non causata dalla mia volontà, cosa che sarebbe una falsa certezza, che non mi scuserebbe dalla colpa. Se invece sbaglio in buona fede resto innocente, ho diritto ad essere tollerato e non posso essere punito. Questo è il principio della libertà di coscienza o della libertà religiosa, introdotto nei codici civili nel sec. XVIII a seguito dell’approfondimento moderno della dignità della coscienza morale,

Il chiarimento moderno del valore spirituale della coscienza teoretica e cognitiva ha portato come conseguenza un chiarimento dell’obbligo morale che sorge dalla coscienza morale individuale, non per una forma di individualismo liberale, che è una storpiatura di tale concezione, non per la messa in dubbio o la negazione empirista dell’universalità ed assolutezza del dovere morale, la cui universalità ed assolutezza sono conservate dal pensiero antico, ma per il fatto che il pensiero moderno, sollecitato dall’etica liberatrice ed interiorista del Vangelo, esplicitata da Sant’Agostino e San Tommaso, ha compreso meglio le implicanze già presenti nell’etica di Aristotele, ossia il fatto che il giudizio morale sul proprio agire è devoluto alla responsabilità di ognuno, se è vero che ognuno dispone, nel rispetto della legge morale, senza con ciò essere infallibile, della virtù della prudenza (fronesis) e di quel libero arbitrio, mediante i quali determina il contenuto e il valore dei suoi atti nel corso del suo agire morale.

Fine Prima Parte (1/2)

Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 aprile 2024


Il chiarimento moderno del valore spirituale della coscienza teoretica e cognitiva ha portato come conseguenza un chiarimento dell’obbligo morale che sorge dalla coscienza morale individuale, non per una forma di individualismo liberale, che è una storpiatura di tale concezione, non per la messa in dubbio o la negazione empirista dell’universalità ed assolutezza del dovere morale, la cui universalità ed assolutezza sono conservate dal pensiero antico, ma per il fatto che il pensiero moderno, sollecitato dall’etica liberatrice ed interiorista del Vangelo, esplicitata da Sant’Agostino e San Tommaso, ha compreso meglio le implicanze già presenti nell’etica di Aristotele, ossia il fatto che il giudizio morale sul proprio agire è devoluto alla responsabilità di ognuno, se è vero che ognuno dispone, nel rispetto della legge morale, senza con ciò essere infallibile, della virtù della prudenza (fronesis) e di quel libero arbitrio, mediante i quali determina il contenuto e il valore dei suoi atti nel corso del suo agire morale.

Immagine da Internet: Cena di Emmaus, Caravaggio



[1] T.M.Zigliara, De mente Concilii Viennensis in definiendo dogmate unionis animae humanae cum corpore iuxta doctrinam S.Tomae, Romae 1878; J.Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, vol I- Philosophia naturalis specialis – Pars III, Edizioni Herder, Friburgi Brisgoviae 1937; Paul Siwek, Psychologia metaphysica, Università Gregoriana, Roma1956; A.Zacchi, L’uomo. La natura. L’origine. I destini, Libreria Editrice Ferrari, Roma 1954; J.Maritain, L’immortalité du Soi, in De Bergson à Thomas d’Aquin. Essais de métaphysique et de morale, Paul Hartmann Éditeur, Paris 1947, c.III; L’immortalità dell’anima in Ragione e ragioni,  Vita e Pensiero, Milano 1982, 81-101; .Tresmontant, Le priblème de l’âme, Aux Éditions du Seuil,Paris 1971; G.Carbone, L’uomo immagine e somiglianza di Dio nello Scritto sulle Sentenze di S.Tommaso d’Aquino, Edizioni ESD,Bologna 2003; L’anima nell’antropologia di S.Tommaso d’Aquino, Atti del Congresso della Società Internazionale S.Tommaso d’Aquino (SITA), a cura di A.Lobato, Editrice Massimo, Milano 1987.

[2] S.Tommaso nella Quaestio disputata De veritate, q.10, a,8  riconosce che l’anima esperimenta se stessa spontaneamente, anche prima di esercitare l’attività astrattiva per la quale conosce la cose esterne. Un chiarimento di questo fatto si tr8uva nell’opera di A.Gardeil La structure de l’âme et l’expérience mystique, Lecoffre Éditeur-Gabalda,Paris 1927, 2 voll.

16 commenti:

  1. Caro padre Cavalcoli,
    in riferimento al passaggio in cui affermi:

    "...perché io sia autorizzato ad agire non è necessaria sempre una certezza oggettiva assoluta, spesso impossibile, ma è sufficiente quella soggettiva, purchè in buona fede e non causata dalla mia volontà, cosa che sarebbe una falsa certezza, che non mi scuserebbe dalla colpa. Se invece sbaglio in buona fede resto innocente, ho diritto ad essere tollerato e non posso essere punito. Questo è il principio della libertà di coscienza o della libertà religiosa, introdotto nei codici civili nel sec. XVIII a seguito dell’approfondimento moderno della dignità della coscienza morale".

    Capisco perfettamente che il principio della libertà di coscienza o libertà religiosa è un principio che l'umanità ha scoperto fin dall'antichità e che oggi, negli ultimi decenni, l'ordinamento giuridico internazionale ha sancito negli ordinamenti concreti e attuali, almeno tra le nazioni democratiche civili (esclusi i paesi comunisti e islamici).
    Mi riferisco qui a qualcosa che va oltre l'ambito del fondamento razionale di quel principio.
    Come è avvenuto per altre conquiste della ragione umana, la Sacra Scrittura ha aiutato l'uomo a scoprire la verità di principi che l'uomo, se la sua ragione non fosse stata indebolita dalle conseguenze del peccato originale, avrebbe potuto scoprire con il solo uso della sua ragione.
    In questo senso, lei ha ricordato in alcune occasioni che il principio della libertà di coscienza o libertà religiosa è un principio che trova il suo fondamento nella Rivelazione divina, sancito finalmente nei testi del Concilio Vaticano II.
    Nelle mie conversazioni con altri che hanno difficoltà a comunicare pienamente con l’attuale insegnamento della Chiesa, mi è stato aspramente discusso se tale principio avesse un fondamento biblico. E non ho avuto ulteriori argomenti per mantenere la mia posizione.
    Penso che sia un argomento che meriti di essere maggiormente sviluppato, esposto e promosso.
    Grazie.

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    1. Caro Silvano,
      se lei rilegge i nn. 9-12 del decreto Dignitatis Humanae, lei trova la risposta decisiva alle difficoltà dei suoi obiettori, salvo restando che essi siano cattolici fedeli al Magistero della Chiesa.
      Infatti in quei brani si fa riferimento sei volte alla Rivelazione, segno evidente che si tratta di un insegnamento dogmatico, anche se non in forma solenne o definitoria. A mio parere questa dottrina potrebbe anche essere insegnata ex cathedra.
      https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651207_dignitatis-humanae_it.html

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    2. Non è vero che l'ignoranza, anche invincibile, e la conseguente coscienza soggettiva erronea, facciano bene un atto. Un atto cattivo per il suo oggetto è cattivo. Punto. Ciò che lei chiama conquista dei codici del XVIII secolo non è altro che l'intronizzazione del relativismo morale e giuridico. Una coscienza sbagliata, anche se in buona fede, rimane una coscienza sbagliata e non ha diritto all'errore. Un'altra cosa è l'inimputabilità che deriva dall'errore, che persone come lei confondono con la moralità o l'illegalità dell'atto volontario.
      Ma ciò che prima è il realismo: l'obiettività dell'atto morale, che deve essere buono per i suoi tre elementi integrativi: oggetto, intenzione e circostanze,
      Questo è tomismo. L'altro è, in termini del grande Cardinale Newman, liberalismo religioso.

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    3. Caro Davide,
      rispondo seguendo i punti che lei tratta.

      1.
      Non è vero che l'ignoranza, anche invincibile, e la conseguente coscienza soggettiva erronea, facciano bene un atto. Un atto cattivo per il suo oggetto è cattivo. Punto.

      R.
      Lei, che ritiene di interpretare correttamente San Tommaso, vedrà che, se va’ a guardare gli articoli 5 e 6 della q.19 della I-II della Somma Teologica, San Tommaso dà ragione a me, sostenendo che se uno in buona fede crede che ciò che è oggettivamente peccato sia bene, resta innocente, e se in buona fede ritiene essere peccato un atto oggettivamente buono, è colpevole.
      Del resto lo stesso Beato Pio IX ha sostenuto che, se qualcuno in buona fede non sa che il Cristo è il Salvatore, riceve comunque la grazia della salvezza.

      2.
      Ciò che lei chiama conquista dei codici del XVIII secolo non è altro che l'intronizzazione del relativismo morale e giuridico. Una coscienza sbagliata, anche se in buona fede, rimane una coscienza sbagliata e non ha diritto all'errore.

      R.
      Per quanto riguarda le Dichiarazioni dei Diritti Umani, formulate nel secolo XVIII, mi riferivo al recente intervento del card. Fernandez a proposito della dignità umana.
      Che queste dichiarazioni fossero legate alla massoneria e all’illuminismo, la cosa è nota, ma ciò non toglie che il card. Fernandez abbia saputo ricuperare in esse la consapevolezza della universalità dei diritti umani.
      Qui il relativismo non c’entra per niente. Si trova invece in certe concezioni etiche, come quella di Rahner, che nega l’universalità e l’immutabilità della natura umana.
      Per quanto riguarda un supposto diritto all’errore, è chiaro che questa è una cosa che non ha senso. Ma quando si tratta di libertà religiosa, non si tratta di questo, ma del rispetto dovuto a chi in buona fede sbaglia senza rendersi conto di sbagliare.

      3.
      Un'altra cosa è l'inimputabilità che deriva dall'errore, che persone come lei confondono con la moralità o l'illegalità dell'atto volontario.

      R.
      Quello che io sostengo è esattamente la inimputabilità che deriva dall’errore.
      Per questo riconosco senza difficoltà che invece, quando l’atto cattivo o illegale è cosciente e volontario, esso è colpevole.

      4.
      Ma ciò che prima è il realismo: l'obiettività dell'atto morale, che deve essere buono per i suoi tre elementi integrativi: oggetto, intenzione e circostanze,
      Questo è tomismo. L'altro è, in termini del grande Cardinale Newman, liberalismo religioso.

      R.
      Sono d’accordo sui tre principi che determinano la qualifica morale dell’atto umano, ma nella nostra discussione non ci sono in gioco questi principi, ma c’è la circostanza nella quale il soggetto compie ciò che è oggettivamente male senza una piena avvertenza e quindi senza un deliberato consenso. In questo caso non lo si può incolpare di nulla.
      Per quanto riguarda Newman, le dirò che anch’io ho qualche perplessità, almeno per una sua famosa dichiarazione nella quale mi sembra dia troppa importanza alla sua coscienza privata, tanto da affermare di preferirla a quanto può insegnare il Papa. Tuttavia occorrerebbe chiarire che cosa esattamente intendeva dire, perché Newman ha una fama di santità.

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    4. San John Henry Newman non ha solo fama di santità, è santo, caro padre Cavalcoli.
      D'altra parte, vedo che non si fa carico della distinzione atto cattivo inculpable/atto buono simpliciter. Quest'ultimo è l'unico che ha moralità e legalità. Il primo è solo sostentamento di inimputabilità nel soggetto, non legittima le azioni fondate su di esso. Questo è l'errore del liberalismo, che valorizza l'autenticità dell'azione, sia Madre Teresa che Che Guevara. È facile immaginare persone in buona fede che compiono azioni cattive che possono essere immensamente dannose. È elementare.

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    5. Caro Davide,
      il fatto è che l’atto cattivo non consapevole e l’atto buono consapevole consentono al soggetto di essere innocente e di restare in grazia di Dio, anche se riconosco che il primo atto può recare un grave danno, mentre il secondo produce un beneficio.
      Quali uccisori hanno commesso un omicidio più grave di coloro che hanno messo in croce Nostro Signore? Eppure Gesù li ha perdonati, “perché non sapevano quello che facevano”. Anche se oggettivamente hanno commesso un omicidio innominabile, essi hanno fruito ugualmente della grazia divina.
      Quindi in fin dei conti ciò che importa è poter essere in grazia di Dio, sia che facciamo il male senza accorgercene, sia che facciamo il bene consapevolmente.
      L’errore del liberalismo consiste nel negare l’universalità della legge morale e il diritto di ognuno di fissare liberamente la propria condotta morale secondo norme inventate da lui. Invece, nel caso suddetto, si suppone che la norma morale sia oggettiva ed universale.
      Resta sempre quindi la distinzione tra atto oggettivamente buono ed atto oggettivamente cattivo, anche se si deve ammettere che uno, che compie il male senza saperlo, cioè in buona fede, riceve la grazia di Dio come colui che fa il bene consapevolmente.

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    6. Di nuovo. Non stiamo parlando dell'ignoranza invincibile come fattore di inimputabilità. Stiamo parlando del diritto di sbagliare e di agire di conseguenza, che è ciò che la dottrina cattolica ha sempre chiamato "libertà di perdizione". Non c'è nessun diritto.
      Quanto al passo del Vangelo, non credo che coloro che crocifissero Gesù non sapessero che uccidevano un giusto, ma che non sapessero -almeno i soldati- che commettevano deicidio, perché se fossero stati innocenti non avrebbe chiesto perdono Gesù per loro. Questa è l'interpretazione tradizionale della Chiesa.
      Insomma: la coscienza sbagliata non colpevole non legittima nulla. In ogni caso scagiona l'errante. E attenzione, perché parlare di coscienza erronea incolpevole rispetto a determinazioni basilari della moralità è una cosa molto scivolosa. Uccidere, adulterare, mentire, non sono atti che possono giustificarsi semplicemente con una coscienza sbagliata.
      Insomma, è una materia complessa.

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    7. Caro Davide,
      rispondo, come al solito, per punti.

      1)
      Non stiamo parlando dell'ignoranza invincibile come fattore di inimputabilità. Stiamo parlando del diritto di sbagliare e di agire di conseguenza, che è ciò che la dottrina cattolica ha sempre chiamato "libertà di perdizione". Non c'è nessun diritto.

      R.
      Io non ho mai sostenuto nessun diritto di sbagliare, e me ne guardo bene. Non capisco da quali mie parole lei ricava questa accusa.

      2)
      Quanto al passo del Vangelo, non credo che coloro che crocifissero Gesù non sapessero che uccidevano un giusto, ma che non sapessero -almeno i soldati- che commettevano deicidio, perché se fossero stati innocenti non avrebbe chiesto perdono Gesù per loro. Questa è l'interpretazione tradizionale della Chiesa.

      R.
      Quando Gesù dice “perdona loro”, questa parola del Signore non va intesa in un senso formale, ma è un modo di dire per scusarli del loro peccato. Gesù invece con quella parola suppone che essi non si rendevano conto del peccato che stavano commettendo. Per questo dice “non sanno quello che fanno”. Quindi si tratta di ignoranza invincibile. L’accusarli di deicidio contrasta con le parole di Gesù e con quelle di San Paolo (1 Cor 2,8).

      3)
      Insomma: la coscienza sbagliata non colpevole non legittima nulla. In ogni caso scagiona l'errante. E attenzione, perché parlare di coscienza erronea incolpevole rispetto a determinazioni basilari della moralità è una cosa molto scivolosa. Uccidere, adulterare, mentire, non sono atti che possono giustificarsi semplicemente con una coscienza sbagliata.
      Insomma, è una materia complessa.

      R.
      Non è vero che “la coscienza sbagliata non colpevole non legittima nulla”. Se è non colpevole, è evidente che essa viene legittimata davanti a Dio, anche se può restare incompresa agli occhi degli uomini.
      Le ho già citato al riguardo i passi di San Tommaso, il quale giustifica la coscienza erronea, supponendo naturalmente che essa sia erronea in buona fede e non volontariamente.
      Indubbiamente questa materia è molto complessa e piena di situazioni che ci lasciano perplessi ed incerti. Tuttavia non dobbiamo sottrarci alle nostre responsabilità con uno scetticismo esagerato e dobbiamo fare anche attenzione alla possibilità della buona fede. È qui che troviamo il diritto alla libertà religiosa.
      Tuttavia sono d’accordo con lei, se ho ben capito la sua argomentazione, che oggi come oggi esistono diritti o peccati, che assai difficilmente possono essere scusati soprattutto tra noi cattolici, quando si tratta di persone con titoli accademici, che quindi dovrebbero essere ben informate circa la verità.

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    8. Vediamo, riformulo
      1. l'ignoranza è un vizio del l'atto volontario, che non toglie malvagità al l'atto e, in materia sociale, se l'atto è ingiusto, non cessa di essere ingiusto, perché danneggia gli altri. Quindi non c'è diritto di diffondere l'errore o l'ingiustizia, anche se chi la propaga è in buona fede e agisce in coscienza, perché l'oggetto del diritto è la giustizia come dice l'Aquinate.
      2. Il tema dell'ignoranza inculpabile interessa al confessore o in definitiva a Dio, per giudicare il soggetto. Ma in questo mondo sublunare ciò che conta sono le manifestazioni concrete della coscienza sbagliata che possono essere devastanti. Notiamo inoltre che persone convintissime del loro errore hanno fatto disastri. Nessuno dubita che il Che Guevara erano super convinti in coscienza che quello che stavano facendo era sbagliato. Come dice il proverbio inglese, la strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni. L'errore ha anche radici morali e bisognerebbe vedere se è innocente come volentieri crediamo nel XXI secolo.
      Saluti

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    9. Caro Davide,
      rispondo, come al solito, per punti.

      1. l'ignoranza è un vizio dell'atto volontario, che non toglie malvagità al l'atto e, in materia sociale, se l'atto è ingiusto, non cessa di essere ingiusto, perché danneggia gli altri. Quindi non c'è diritto di diffondere l'errore o l'ingiustizia, anche se chi la propaga è in buona fede e agisce in coscienza, perché l'oggetto del diritto è la giustizia come dice l'Aquinate.

      R.
      Bisogna distinguere l’ignoranza invincibile dall’ignoranza colpevole. Soltanto in questo caso l’atto è malvagio, mentre nel primo caso il soggetto resta innocente davanti a Dio, anche se di fatto senza volere provoca un grave danno sociale.
      Certamente si può parlare di un atto ingiusto, però solamente dal punto di vista oggettivo, non in relazione alla condizione del soggetto, nel quale si suppone che manchi l’avvertenza e quindi il deliberato consenso.

      2. Il tema dell'ignoranza inculpabile interessa al confessore o in definitiva a Dio, per giudicare il soggetto. Ma in questo mondo sublunare ciò che conta sono le manifestazioni concrete della coscienza sbagliata che possono essere devastanti. Notiamo inoltre che persone convintissime del loro errore hanno fatto disastri. Nessuno dubita che il Che Guevara erano super convinti in coscienza che quello che stavano facendo era sbagliato. Come dice il proverbio inglese, la strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni. L'errore ha anche radici morali e bisognerebbe vedere se è innocente come volentieri crediamo nel XXI secolo.
      Saluti

      R.
      Il tema dell’ignoranza invincibile non è solo di competenza del confessore, ma riguarda anche i nostri rapporti quotidiani. Quante volte infatti ci capita di richiamare qualcuno, credendolo colpevole, mentre egli ci spiega come abbia agito in buona fede. Oppure può capitare anche a noi di essere incolpati, mentre in realtà abbiamo agito con retta intenzione.
      Che poi capiti che qualcuno, senza accorgersene o senza volere, combini dei grossi guai, questo lo sappiamo tutti. E riconosco che l’autorità pubblica, sia civile che ecclesiale, quando qualcuno reca un grave danno al bene comune, è particolarmente interessata ad una giusta punizione.
      Tuttavia lei saprà bene come oggi la psicologia moderna e un senso di umanità ci rendono più capaci di un tempo di trovare delle attenuanti o addirittura delle scusanti, che liberano l’autore di un delitto dalla imputabilità dell’azione compiuta.
      Per quanto riguarda la coscienza di Che Guevara, credo che sia prudente astenersi dal giudicare se era in buona o cattiva fede, fermo restando che la sua azione rivoluzionaria non ha certamente arrecato beneficio ai popoli dell’America Latina.
      Per quanto riguarda il proverbio inglese, sono d’accordo nel riconoscere che la qualifica dell’atto buono non è data soltanto dalla buona intenzione, ma anche dalla bontà oggettiva dell’atto morale. Tuttavia si può pur sempre dire che chi agisce con retta intenzione opera supponendo la bontà dell’atto che compie. Con tutto questo riconosco che il proverbio inglese, ben inteso, è certamente saggio nell’indicarci il rischio dell’ipocrisia, quando si pretende di agire con retta intenzione, mentre l’oggetto dell’azione è moralmente cattivo.

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    10. Il mio punto, caro e per concludere la questione, è che l'ignoranza invincibile non dà diritti. Credo di averlo spiegato abbastanza. Non spetta a noi giudicare se c'è tale ignoranza, ma contrastare gli effetti sociali dell'errore. Non c'è tale libertà di coscienza erronea.
      Gli faccio un esempio: papa Bergoglio sta facendo un male immenso promuovendo la persona e gli scritti del pro LGBT James Martin s.j., apostolo dell'omosessualità "cattolica" e che sta facendo un male immenso. Ha nominato Martin in una congregazione vaticana e gli ha appena prologato un libro. Lo fa perché si sbaglia in buona fede, credendo di promuovere così l'immagine di un papato inclusivo? Lo fa per motivi subalterni e politici, perché allo stesso tempo dà "segnali a destra" contraddittori parlando di "frocio"? Non lo so e non mi importa, quello che so è che bisogna condannare questo atteggiamento e resistere al papa, legittimo sì, ma sbagliato, in tutto ciò che comporta la promozione dell'agenda LGBT.
      Cordiali saluti

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    11. Caro Davide,
      rispondo a punti.

      1)
      Il mio punto, caro e per concludere la questione, è che l'ignoranza invincibile non dà diritti. Credo di averlo spiegato abbastanza. Non spetta a noi giudicare se c'è tale ignoranza, ma contrastare gli effetti sociali dell'errore. Non c'è tale libertà di coscienza erronea.

      R.
      Sono d’accordo con lei che la pubblica autorità, sia civile che religiosa, deve intervenire per difendere il bene comune contro l’azione di persone che oggettivamente recano danno.
      Lei sa bene che noi domenicani, in questo campo, abbiamo una esperienza secolare. Di recente Papa Francesco, nella lettera con la quale ha nominato il card. Fernandez a Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, si è raccomandato con lui di fare attenzione ad evitare certe eccessive severità del passato.
      Effettivamente nei secoli passati il Sant’Offizio teneva conto quasi esclusivamente del danno sociale fatto dagli eretici. Ma la psicologia di allora, ed un costume morale arretrato rispetto a quello di oggi, spingevano questo ufficio a non considerare a sufficienza la possibilità della buona fede o della ignoranza invincibile del criminale.
      Oggi, grazie ai progressi della psicologia e ad una migliore applicazione della misericordia evangelica, la Chiesa oggi è capace più di un tempo di distinguere in un eretico il significato oggettivo di quello che dice dalle intenzioni che lo hanno mosso, le quali potrebbero anche essere buone, se non davanti alla società, davanti a Dio.
      Cos’ per esempio nel secolo scorso è stato beatificato Antonio Rosmini, del quale in precedenza erano state condannate 40 proposizioni.

      Per quanto riguarda il problema del diritto, se lei si riferisce al diritto di libertà religiosa, chi sbaglia è lei, che non accetta il Magistero del Concilio Vaticano II.

      2)
      Gli faccio un esempio: papa Bergoglio sta facendo un male immenso promuovendo la persona e gli scritti del pro LGBT James Martin s.j., apostolo dell'omosessualità "cattolica" e che sta facendo un male immenso. Ha nominato Martin in una congregazione vaticana e gli ha appena prologato un libro. Lo fa perché si sbaglia in buona fede, credendo di promuovere così l'immagine di un papato inclusivo? Lo fa per motivi subalterni e politici, perché allo stesso tempo dà "segnali a destra" contraddittori parlando di "frocio"? Non lo so e non mi importa, quello che so è che bisogna condannare questo atteggiamento e resistere al papa, legittimo sì, ma sbagliato, in tutto ciò che comporta la promozione dell'agenda LGBT.
      Cordiali saluti

      R.
      Per quanto riguarda il comportamento del P. Martin, io credo che, se il Papa lo lascia fare, dobbiamo supporre che questo gesuita faccia anche del bene.
      Quello che come teologo non posso assolutamente approvare, è la tesi di Martin, secondo la quale la pratica omosessuale non è peccaminosa, ma esprime semplicemente “un orientamento sessuale diverso”.
      Lei mi domanderà: come mai il Papa non lo redarguisce? Ovviamente il Papa condanna il peccato di sodomia. Tuttavia la grande preoccupazione del Papa e, credo, anche di Martin è di trattare gli omosessuali come si conviene alla loro dignità umana.
      Riguardo all’assenza di condanne dottrinali, questa è una questione pastorale, dove il Pastore può essere negligente o condizionato dal rispetto umano. D’altra parte non è facile giudicare le scelte pastorali di un Papa.
      Un’altra cosa che dobbiamo tenere presente è che Papa Francesco si trova oggi in una situazione nella quale i modernisti hanno assunto un enorme potere, per cui, dato che anche tra di loro ci sono uomini di valore, li utilizza e sopporta secondo quell’opera di misericordia della quale parla il Catechismo di San Pio X: “sopportare pazientemente le persone moleste”.

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  2. Caro padre Cavalcoli, se ho ben capito, il dibattito che lei sta conducendo con il signor Davide si colloca su un piano apologetico, perché mi risulta che l'argomento non possa essere discusso tra cattolici: la libertà di coscienza o libertà di religione è dottrina di fede cattolica. Mi sbaglio o cosa?

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    1. Caro Silvano,
      indubbiamente la mia discussione con Davide riguarda l’apologetica per il fatto che abbiamo affrontato il problema di una convivenza attuale in Europa e nel mondo con una situazione di accentuato pluralismo culturale e religioso e una serie numerosa di conflitti anche all’interno della Chiesa Cattolica.
      Per questo io ho sostenuto l’importanza del diritto alla libertà religiosa, come base necessaria per una convivenza pacifica nell’attuale situazione ecclesiale, europea e mondiale.

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    2. Parla ad Elia della libertà religiosa e poi seguila.

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    3. Caro Davide,
      l’episodio di Elia ha certamente un valore di attualità; però questo valore va collocato nel suo tempo e corrisponde alla coscienza morale di quel tempo.
      Infatti le ricordo che la civiltà umana va soggetta ad un continuo progresso morale, le cui testimonianze possiamo ritrovarle nei racconti della Sacra Scrittura. In sostanza si tratta di un cammino per il quale l’umanità abbandona un clima di violenza, seppure per affermare la giustizia, per raggiungere un clima di confronto tra posizioni umane contrastanti, dove la severità si concilia col rispetto della libertà.
      Questo cammino storico non è altro che il passaggio biblico dall’Antico al Nuovo Testamento, ma anche con l’inizio del Nuovo Testamento la storia continua il suo progresso fino a che giungiamo al Concilio Vaticano II.
      Tornando all’episodio di Elia, bisogna che diamo una valutazione che tenga conto di questo progresso. Elia suppone che i sacerdoti di Baal siano in mala fede. Viceversa Gesù Cristo ci insegna chiaramente ad avere maggiore comprensione per le debolezze umane, senza per questo rinunciare alla severità della giustizia.
      Il principio della libertà religiosa è basato su questa comprensione, che si realizza nella misericordia. In questo contesto Gesù ci insegna l’amore del nemico, il dialogo, la mitezza, la comprensione, il rispetto della coscienza altrui. In sostanza si tratta di una progressiva liberazione dell’umanità dal peccato, un recupero dell’innocenza edenica e una anticipazione del Regno escatologico.
      Questo mutamento storico è dovuto, come dice San Giovanni, al fatto che con Gesù Cristo scende sull’umanità quella grazia, che lenisce la durezza dei cuori, favorisce la fratellanza, muove alla conversione, illumina gli intelletti e porta alla paziente accoglienza di coloro che ci sono contrari.
      Resta sempre la lotta contro le potenze sataniche, ma la presenza dello Spirito Santo fa sì che la carità sconfigga le potenze dell’odio e diffonda nel mondo la pace di Cristo.

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