Da Cartesio a Fichte. La confusione fra l’io umano e l’io divino - Parte Quarta (4/4)

 

Da Cartesio a Fichte

La confusione fra l’io umano e l’io divino

Parte Quarta (4/4) 

 

Non bisogna confondere la gnoseologia con l’autobiografia

Per fondare la scienza non conviene partire dall’io sono, ma bisogna partire dall’esso o dall’egli è, come ha fatto Aristotele, che non si chiede chi sono io, ma che cosa è l’ente.

Del resto, se io parto dall’io, dovrò riconoscere anche il tu. E siccome non sono solo, dovrò riconoscere anche il noi e il voi. Ora Fichte parte dall’io e oppone all’io un non-io. Ma che senso ha? Che cosa è questo non-io? Sono le coe? Sono gli altri? È Dio?

Nulla di tutto questo, ma si tratterebbe di un opposto paritario irreconciliabile eppur necessario che l’io porrebbe essenzialmente contro e all’interno di sé stesso per poter essere sé stesso. Ora io mi domando come si può prender sul serio un simile groviglio di concetti, che sembra essere il frutto di una mente per un verso schizofrenica ed autolesionista e per un altro megalomane ed autodinizzata.

Inoltre nella fondazione teoretica di Fichte, come già in quella di Cartesio, manca la percezione del tu. Questo dipende dal fatto che anche in Fichte come in Cartesio la teoresi si concentra irragionevolmente sull’io, diffidando dalla realtà esterna e circostante, per cui l’altro, il prossimo non è il prossimo reale, ma un prossimo semplicemente pensato e funzionale all’io. Dio stesso non è più un tu reale, ma diventa una mia idea, per cui il parlare con Dio non è più un vero colloquio interpersonale, ma è un confrontarmi con la mia idea di Dio. Scompare ogni forma di preghiera, di culto divino e di liturgia.

C’è da comunque da notare che è chiaro che c’è un’opposizione metafisica e necessaria fra l’essere e il non-essere, fra il vero e il falso, fra il bene e il male.  Ma ciò non autorizza a concepire l’Assoluto come fa Fichte, come reciprocità strutturale di essere e non-essere, vero e falso, male e bene concentrati nell’io, in un io che pone sé stesso negando sé stesso. 

Certo il nostro io umano a causa del peccato originale è diviso in sé stesso e ci troviamo a vivere in una situazione di conflittualità degli uni contro gli altri. Ma porre questo conflitto irresolubile e addirittura sistematico in Dio è assurdo ed è una bestemmia.

In tal modo non è chiaro di quale io parla Fichte quando parla di quell’io che deve costituire «il principio assolutamente primo, che deve fondare l’intero sapere umano e dev’essere comune a tutta la dottrina della scienza»[1].  Infatti comincia con l’affermare che questo io si divide in sé stesso «mediante una contrapposizione i cui termini debbono essere uguali ad un terzo»[2].

Così

 «all’Io, che è il concetto supremo, è contrapposto un non-io» [3]. E precisa: «È chiaro che quest’ultimo non potrebbe essere contrapposto senza essere posto e anzi nel concetto supremo dell’Io»[4]. Tuttavia l’Io e il non-io sono «uguali ad un terzo nell’Io e questo sarebbe il concetto della quantità. Ambedue avrebbero una quantità determinabile mediante ciò che è opposto ad essa»[5].

Ossia l’Io e il non-io si limitano quantitativamente e reciprocamente. Difficile capire come può essere presente la quantità e quindi la materia in un Io assoluto, che, per esser tale, dovrebbe essere puro spirito. Ma questo è il segno che Fichte confonde l’io umano con l’Io divino.

L’Io infatti si presenta come

 

«soggetto assoluto» [6], «concetto supremo»[7], «io assoluto»[8]. «l’io pone se stesso in forza del suo puro essere»[9]. È «pura attività»[10]; è «la totalità della realtà»[11]; «la realtà assoluta»[12]; «la totalità assoluta»[13], «l’agente e il prodotto dell’azione»[14], «l’io esiste per se stesso»[15]; «l’io è per l’io»[16]; «io sono soltanto per me; per me io necessariamente sono»[17]; «tutto ciò che è in tanto è, in quanto è posto nell’Io e fuori dell’Io è nulla»[18].

Io e non-io si urtano tra di loro, ma a questo urto rimedia la parte pratica del sapere con la forza dell’immaginazione. Dice Fichte:

«Il problema è quello di unificare gli opposti, Io e non-io. Essi possono essere unificati perfettamente dall’immaginazione che unifica i contrari. Il non-io è esso stesso un prodotto dell’Io che determina se stesso e non è nulla di assoluto e posto fuori dell’Io. Un Io che si pone come ponente se stesso o un oggetto non è possibile senza un oggetto prodotto come determinazione dell’Io, la sua riflessione su se stesso, come determinato, è possibile solo a condizione che l’Io limiti se stesso con un opposto.  Soltanto che non è il luogo qui di rispondere alla domanda: come e perché accade nell’Io quell’urto che bisogna pur ammettere per spiegare la rappresentazione? Infatti essa si trova fuori dei confini della parte teorica della dottrina della scienza»[19].

Fichte vuol dire che l’intelletto o la speculazione davanti alla contraddizione dell’io che nega o che è contro sé stesso, non è capace di risolvere né la contraddizione né la divisione né la contrapposizione né il conflitto per riottenere l’unità originaria. Davanti alla contraddizione l’intelletto si arresta e dichiara che l’unità è impossibile. Per Fichte l’unità e la conciliazione degli opposti sono ottenuti solo con l’intervento della volontà, che per Fichte è l’essere stesso che ritrova l’unità assoluta iniziale. Solo che non si accorge che una conciliazione al di fuori della verità non può essere vera, ma è un atto di forza e di violenza, come la soluzione del dubbio cartesiano.

È lo stesso errore di Nicolò Cusano, che riappare in Lutero, il quale credeva che Dio sia al di sopra del principio di non contraddizione, così da rendere possibile ciò che per la ragione è impossibile. Da qui l’insanabile conflitto luterano fra ragione e fede.

Dopo Lutero sorge allora questa alternativa: per essere coerenti bisogna scegliere: o fede senza la ragione o la ragione senza la fede. I luterani fanno la prima scelta. Cartesio farà la seconda. Da qui verranno fuori l’idealismo tedesco e il marxismo. Oppure la ragione diventa fede e abbiamo Kant (la «fede razionale»); oppure la fede diventa ragione e abbiamo Fichte, Schelling ed Hegel (la ragione come rivelazione).

Invece Dio non fa alcuna violenza alla nostra ragione, ma ben al contrario la soddisfa nelle sue più profonde esigenze. Dio è leale, non cambia le carte in tavola, è fedele e mantiene le promesse. Non ci riserva brutte sorprese, ma mantiene quello che ha promesso e rispetta il patto con noi stipulato.

Ora, quale Io può avere le caratteristiche che Fichte assegna all’Io assoluto? Non certo l’io umano, ma potrà essere solo l’Io divino. E invece vediamo come questo Io assoluto è diviso in sé stesso e come in esso coesistono due posizioni o vite contrapposte l’una contro l’altra e nel contempo l’una relativa all’altra e necessitante dell’altra: l’Io e il non-io.

Esse per loro essenza si respingono e si attraggono ad un tempo, si vogliono e si rifiutano, si includono e si escludono a vicenda, si uniscono e si dividono, si odiano e si amano perché l’una non può esistere senza l’altra e l’una è necessaria all’altra proprio per consentire l’essenza e la costituzione dell’Io.  

Allora come non vedere qui in questa «aiuola che ci fa tanto feroci», per dirla con Dante, la conflittualità umana portata all’esasperazione? L’odio e la guerra come princìpi della convivenza umana? È questo l’ambiente divino o non piuttosto il regno di Satana?

La contraddizione nel pensiero e nella volontà

L’opposizione dell’Io e del non-io richiama l’idea di una unità che si scinde in due metà o in una molteplicità che poi si riuniscono per ricostituire l’unità. Ora è chiaro che l’Io assoluto, cioè Dio è assolutamente indivisibile. Per questo non ha senso immaginare un Dio che si oppone a sé stesso e si riconcilia con se stesso.

Bisogna invece riconoscere che esiste una duplice opposizione: l’opposizione speculativa fra il vero e il falso, corrispondente a quella fra l’essere e il non-essere, che si esprime nell’affermazione e nella negazione e nell’opposizione del bene a male per cui si deve scegliere tra il sì e il no, il vero e il falso. Ed esiste l’opposizione pratica fra il volere e il non volere o anche tra due volontà contrarie. In questo caso la conciliazione è possibile e doverosa, salvo l’opposizione di Cristo a Beliar, che ci è rivelata dalla fede.  

La prima opposizione non può essere tolta o risolta, proprio per evitare la contraddizione: il vero è inconciliabile ed opposto al falso e così è contradditorio che l’essere sia il non-essere. Il contradditorio non può esistere.

Se si tratta invece della seconda opposizione che prevede il conflitto delle volontà, ci sono due possibilità: o il conflitto è sanabile o è insanabile. Il primo conflitto può essere tolto dalla riconciliazione e dalla redenzione: l’uomo che ha peccato, può riconciliarsi con Dio. I fratelli in discordia possono riconciliarsi fra di loro. Se invece il conflitto è previsto dallo stesso piano divino, allora è insanabile: non esiste comunanza tra Cristo e Beliar. Il paradiso è inconciliabile con l’inferno, benché l’uno e l’altro siano sotto la provvidenza di Dio.

Il guaio di Fichte è che egli con la sua dialettica dell’Io e del non-io confonde l’essere col non-essere e col volere, e quindi il vero col falso e il bene col male, per cui la conciliazione comporta un’offesa al principio di non-contraddizione e legalizza il conflitto delle volontà, ed anzi ne fa la legge della conciliazione. In questo errore cadrà anche Hegel. Inoltre, avendo posto il bene e il male in Dio, ammette che Dio possa odiare sé stesso.

Inoltre, un concetto fondamentale della filosofia di Fichte è quello del «porre» (setzen), strettamente collegato con quello del fare (tun). Tale concetto dovrebbe spiegare l’origine del finito e sostituire quello della creazione dal nulla, che richiama all’odiata cosa in sé.

Si tratta di un’esplicitazione della potenzialità idealistica del cogito cartesiano. Cartesio mantiene il concetto del Dio creatore, benché il suo cogito ponga le basi per escluderlo. In Kant il Dio creatore è un attributo di Dio non come esistente, ma come possibilmente esistente, in forza del suo ben noto agnosticismo per il quale la ragione speculativa non può dimostrare che Dio esiste, ma non può neppure dimostrare che non esiste.

Cartesio dice: io pongo il mio essere col mio pensare. Il porre cartesiano è un atto del giudizio. Ma Fichte capisce che si potrebbe intendere come un porre l’essere così da rendere superflua l’opera creatrice divina. E di fatti per Fichte l’Io pone il non-io, ossia pone l’essere del non-io. In Fichte dunque il Dio creatore scompare e al suo posto compare l’Io che determina e finitizza sé stesso ponendo il non-io.

Per Fichte dunque non sono più una cosa in sé, una creatura di Dio creata dal nulla, ma sono l’Io assoluto che pongo me stesso e il non-io all’interno del mio io in eterna lotta col mio Io. Squallida e tragica conclusione di una teoresi iniziata col dubbio sull’esistenza del mondo esterno e del mio stesso corpo che testimoniano eloquentemente della sapienza e della potenza infinite del Dio della giustizia e della misericordia.

Fichte e il Vangelo di Giovanni

Si capisce allora a questo punto come Fichte, dopo la pubblicazione della Dottrina della scienza del 1794, fu accusato di ateismo. Se l’io umano con le sue contraddizioni interne di io e non-io, è l’assoluto, è chiaro che non c’è più spazio per Dio. Fichte non fu insensibile a questa accusa e tentò di controbattere rielaborando più volte il suo sistema fino al 1812[20].   

Egli  si impegnò decisamente nella tematica teologica, andando ad attingere alla concezione giovannea di Dio come Essere sussistente («Io Sono»), Luce, Vita, Amore.  Ma purtroppo non seppe ritrovare il realismo biblico-aristotelico e restò attaccato al cogito cartesiano, la cui esplicitazione era appunto data dal concetto dell’io umano accresciuto fino alle dimensioni dell’Io assoluto.

Questa volta Fichte parla bensì di Dio, ma è un Dio che è pur sempre lo sviluppo dell’io cartesiano, per cui passa dall’ateismo al panteismo.  Ma se il panteista nomina Dio, questo Dio che è l’assolutizzazione dell’uomo, non potrà essere il vero Dio, il Dio trascendente creatore dell’uomo e dell’universo.

Questo Dio posso sentirlo anche come un tu. Posso anche sentirmi un nulla davanti a questo Dio, come fa Fichte, che crede con ciò di riallacciarsi alla mistica tedesca medioevale. Ma questo Dio posto da me in me non potrà che essere un io finito come sono io, giacchè l’effetto di una causa non può essere superiore alla causa: dunque un dio, come dice la Bibbia, «prodotto dalle nostre mani», inventato da noi, una semplice creatura, un idolo, anche se rivestito di tutti gli attributi divini, che Fichte ben conosce. Ma resta sempre uno spirito finito.

Chi potrà essere, allora, se non quello spirito di menzogna e di superbia che spinge l’uomo a ribellarsi a Dio e a volersi sostituire a Lui in nome di una falsa libertà, assolutizzando il proprio io? Non può essere altro che il demonio. Fichte, che alla fine della sua vita, nella volontà di scagionarsi dall’accusa di ateismo, si dedicò con tanto impegno a meditare il Vangelo di Giovanni, mancò di fermarsi sull’importantissimo c.8, dove Gesù accusa i giudei di avere per padre il diavolo e di fare le opere del diavolo (8, 38.44). Dunque il panteismo, sotto le apparenze della mistica e della più sublime e permanente unione con Dio, si risolve ad essere un culto di Satana.

Dal che noi vediamo come ateismo e panteismo si richiamano a vicenda. Cambia solo il fatto che mentre l’ateo non nomina Dio, il panteista lo nomina. Ma la sostanza del loro pensiero non cambia: l’assolutizzazione dell’uomo. Se l’ateo non nomina Dio in forza dell’assolutizzazione dell’uomo, il panteista nomina bensì Dio, ma perchè chiama Dio l’assolutizzazione dell’uomo.

La questione del realismo gnoseologico è una questione di umiltà. Il realismo è effetto dell’umiltà. Il realismo è obbedienza alla realtà. L’idealismo cartesiano nasce dalla superbia. Il realista riconosce l’esistenza di Dio. L’idealista fa Dio di se stesso. Il realismo conduce al teismo. L’idealismo porta al panteismo e all’ateismo. Il realismo porta all’altruismo e al culto di Dio; l’idealismo porta all’egocentrismo e al culto di sé stessi.  Coloro che si abbassano e saranno esaltati sono i realisti; chi invece esaltandosi viene abbassato, è l’idealista. Il realismo è ascensione al cielo. L’idealismo è il volo di Icaro. Il realista è colui che dimentico di sé, volge lo sguardo a Dio e lì trova se stesso figlio di Dio. L’idealista è Narciso che, invaghitosi della propria immagine nell’acqua, cade nell’acqua e annega.

È strano che San Tommaso non abbia pensato di fondare il realismo sulla virtù dell’umiltà.  Infatti l’umiltà originaria, prima di essere umiltà del volere che obbedisce al superiore, è umiltà dell’intelletto che accetta la cosa in sé così com’è.

Questo lo sapeva bene e lo raccomanda Santa Caterina da Siena, la quale odiava sinceramente l’autocompiacimento e l’amor di sé, l’amor sui agostiniano, e predicava incessantemente il nostro dovere di proiettarci in Dio e nel prossimo. E ripete che l’umiltà, ossia l’accettare le cose come sono, anche se spiacevoli, è il buon terreno sul quale cresce l’albero della carità.

Che cosa è infatti la famosa adaequatio tomista dell’intelletto alla cosa, se non un atto di umiltà? E che cosa è invece la pretesa di far uscire l’essere dal proprio io, di essere dominatori e produttori dell’essere se non superbia?

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 31 agosto 2025

Per Fichte l’unità e la conciliazione degli opposti sono ottenuti solo con l’intervento della volontà, che per Fichte è l’essere stesso che ritrova l’unità assoluta iniziale. 

Ora, quale Io può avere le caratteristiche che Fichte assegna all’Io assoluto? Non certo l’io umano, ma potrà essere solo l’Io divino. E invece vediamo come questo Io assoluto è diviso in sé stesso e come in esso coesistono due posizioni o vite contrapposte l’una contro l’altra e nel contempo l’una relativa all’altra e necessitante dell’altra: l’Io e il non-io.

Esse per loro essenza si respingono e si attraggono ad un tempo, si vogliono e si rifiutano, si includono e si escludono a vicenda, si uniscono e si dividono, si odiano e si amano perché l’una non può esistere senza l’altra e l’una è necessaria all’altra proprio per consentire l’essenza e la costituzione dell’Io.  

Allora come non vedere qui in questa «aiuola che ci fa tanto feroci», per dirla con Dante, la conflittualità umana portata all’esasperazione? L’odio e la guerra come princìpi della convivenza umana? È questo l’ambiente divino o non piuttosto il regno di Satana?

Per Fichte dunque non sono più una cosa in sé, una creatura di Dio creata dal nulla, ma sono l’Io assoluto che pongo me stesso e il non-io all’interno del mio io in eterna lotta col mio Io. Squallida e tragica conclusione di una teoresi iniziata col dubbio sull’esistenza del mondo esterno e del mio stesso corpo che testimoniano eloquentemente della sapienza e della potenza infinite del Dio della giustizia e della misericordia.

Immagine da Internet: I lottatori, Courbet 



[1] La dottrina della scienza, op.cit., p.51.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] p.41,77.

[7] p.51

[8] Ibid.

[9] P.77.

[10] Ibid.

[11] P.104

[12] Ibid.                |

[13] p.159.                                             

[14] p.77.

[15] Ibid.

[16] p.78.

[17] Ibid.

[18] P.79.

[19] Ibid., p.17.

[20] Si trattò di un periodo tormentato della vita interiore di Fichte, il quale rimase molto scosso ed anche offeso da quell’accusa, che probabilmente non si aspettava. Egli volle dimostrare di non esser ateo, ma nel contempo non volle rinunciare alla sua dottrina dell’Io, che pur obbiettivamente conduceva all’ateismo.  Volle però mostrarsi attento alla tematica teologica e religiosa. La via da lui scelta fu quella di un panteismo che egli tirò fuori dal Vangelo di Giovanni naturalmente forzando i testi. La storia è narrata con ricca documentazione da Giovanni Moretto nella sua Introduzione a La dottrina della religione di Fichte, Guida Editore, Napoli 1989. Il Fichte che comunque ha agito nella storia della filosofia non è questo ma quello dell’edizione del 1794, ripreso e sviluppato da Schelling ed Hegel, le cui idee confermano la tendenza fichtiana all’ateismo e al panteismo, che sono le due facce della stessa medaglia.

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