Le attività delle anime dei beati
Seconda Parte (2/2)
Allucinazione, malattia, sonno, delirio, stato comatoso
Si danno degli stati psichici nei quali noi non possiamo esercitare in tutto o in parte le attività dello spirito perché o per motivi naturali o per motivi morbosi le funzioni psichiche non sono in grado di mettersi al servizio dello spirito. In queste condizioni è impossibile sperimentare la vita dello spirito. Essa tuttavia continua in una forma implicita o inconscia. Anche in queste condizioni la vita spirituale continua, benché non ne abbiamo esperienza o coscienza.
Nel sonno, nell’allucinazione e nello stato di delirio o comatoso manca la coscienza e lo spirito è inattivo non perchè la sua attività dipenda qualitativamente dalla veglia o dalla lucidità mentale o dal contatto con le cose esterne o col proprio corpo, ma perché manca il funzionamento pieno o quanto meno regolare dell’attività sensitiva che sola consente l’esercizio delle attività spirituali.
Infatti, le nostre attività dipendono dal corpo nel secondo senso, non nel primo. È vero dunque che se la vita neuropsichica non è in salute, lo spirito umano non funziona - mens sana in corpore sano -; ma si danno casi nei quali lo spirito funziona senz’alcun condizionamento corporeo, puramente a priori, in forza di se stesso, come nelle forme più alte del sapere, nella meditazione o nella metafisica e nell’estasi. Qui il soggetto, in forza di una speciale grazia divina, può perdere addirittura la percezione della realtà esterna e funzionare benissimo anzi al massimo senza il suo apporto. Questi vissuti, per chi li può sperimentare, illustrano benissimo quella che può essere l’esperienza dell’anima separata.
Quanto ai fenomeni pseudocognitivi nei quali il soggetto manca del contatto o perde il contatto con la realtà, fenomeni dove l’apparenza inganna e ci sembra essere quello che non è, sembrerebbero dimostrare la necessità in ogni caso del senso per la conoscenza intellettiva e quindi dar ragione al materialismo, che nega l’immortalità dell’anima, quasi a significare che senza il senso l’intelletto non può contattare il reale e cogliere il vero.
Quanto al fenomeno del sonno, lo spirito non è in funzione non perchè la veglia è la causa dell’attività spirituale, ma perchè il sonno impedisce di funzionare alle forze sensitive, che sono la condizione di possibilità dell’attività spirituale. Questa non è del tutto assente nei sogni, a parte quelli che sono sogni profetici, dono dello Spirito Santo.
Anche gli stati deliranti, che spesso precedono la morte, per i quali il soggetto pronuncia parole o frasi sconnesse e senza senso, o compie gesti inadeguati o inconsulti, possono insinuare l’idea che il suo spirito si stia sconnettendo, indebolendo ed estinguendo.
Negli stati comatosi l’attività intellettuale sembrerebbe totalmente bloccata, se non si dessero casi nei quali il soggetto mostra per esempio di gradire musiche a lui note e particolarmente care o sperimenta visioni dilettevoli, che vengono classificate da alcuni come esperienze dell’al di là, ma senza alcun fondamento, giacchè qui l’anima è ancora unita al corpo, mentre l’accesso vero all’al di là è possibile solo all’anima separata.
Piero non è più tra noi ma ci ha lasciato il meglio di sé
Il cadavere di Piero non è più Piero, ma quel che resta di Piero, il materiale corporeo che organizzava e che non gli serve più, ciò che era di materiale della sua persona, ormai inutilizzabile. Egli ci ha lasciato fisicamente, mentre restano incorruttibili la sua memoria, restano i suoi messaggi, i suoi piani, le intenzioni, i suoi insegnamenti, i suoi esempi, i suoi voleri, i suoi eredi, la sua realtà spirituale, la testimonianza e le tracce del lavoro che ha compiuto su questa terra, dove egli vive ancora nei nostri cuori e in quelli delle generazioni future - dopo che se n’è andato. In queste cose egli vive ancora ed è ancora tra noi.
Così, mentre per il materialista, della persona morta non resta più nulla, perché oltre a corpo che si disfa, l’anima si è estinta, perché essa non era altro che l’attività e l’ordine delle parti del corpo, in realtà resta ancora qualcosa di Piero, il nucleo migliore del suo essere, la sua forma sostanziale (l’anima).
Il materialista ci suggerisce il paragone del defunto con un computer che non funziona più. Ha perduto l’anima? No, è semplicemente da abbandonare. Eppure le cose non stanno così. Le cose non sono così semplici, perché la vita non è una semplice azione esterna, come quella fisica o di un macchina, ma è automozione del soggetto, cosa che un agente fisico o macchina non sono assolutamente capaci di fare.
Anche se il vivente è composto di organi ed ha qualcosa di meccanico, tuttavia esso ha un potere di autoriparazione, autoriproduzione e autogestione, che un agente puramente chimico o fisico non ha. La vita è un’attività superiore, le cui attività sono tali, che nessun agente inferiore può imitare o riprodurre.
Come non accorgersi inoltre che il nostro vivere viene dal nostro spirito e non vedere per infinite esperienze che un corpo di per sé non è vivo, ma, se è vivo, un uomo, un animale o una o pianta, è perché è animato da uno spirito o da un’anima? Come non accorgersi che coloro che sostengono che ogni ente è vivente lavorano di pura fantasia?
Evidentemente non si tratta di un luogo spaziale ad una certa distanza dalla terra, come il sole o la luna, ma di un luogo in senso analogico, trascendente, sempre creato, ma posto su di una alta o bassa dimensione dell’essere, per noi misteriosa e raffigurabile solo con le immagini che ci fornisce la Scrittura, che sa quello che dice.
E infatti, quando preghiamo, solleviamo lo sguardo al cielo, dove Dio abita insieme con i beati. Colui che muore in grazia sale al cielo per ricongiungersi con i suoi cari che sono già in cielo. Ecco perché, quando guardiamo l’immenso limpido azzurro del cielo cosparso di nubi di immacolata bianchezza, ci sembra di vedere o intravvedere lassù, immensamente ampliata, serena, limpida, gloriosa e felice, operosa e materna, protettrice e mediatrice, rassicurante e maestosa, l’anima dei nostri cari che ci attendono, vegliano su di noi e ci proteggono.
I beati lavorano per noi e ci guidano al cielo
Imple, Pater, quod dixisti, nos tuis iuvans precibus
Si narra che San Domenico, in procinto di lasciare questa terra, ai suoi frati afflitti che gli stavano attorno assicurò che sarebbe stato loro di utilità più dal cielo di quanto non era stato loro utile in terra. E di fatti la protezione del Santo Patriarca si è fatta sentire in molti e vari modi nella storia di questi otto secoli, che ci separano dalla sua morte.
La fede ci dice che tra la Chiesa della terra e quella del cielo esiste una comunione attiva e feconda, perché si tratta dell’unica Chiesa, governata da Cristo direttamente per la parte celeste in cielo e indirettamente, per la parte terrena, dal Papa suo Vicario in terra.
Difficile immaginare come comunichino tra di loro le anime beate, perché è faticoso immaginare come possano comunicare delle anime separate, che non possono far uso dei sensi. Si tratta della cosiddetta «comunione dei santi», che, come sappiamo, è un articolo del Simbolo della fede.
Dobbiamo allora dire che essi comunicano solo per mezzo dell’intelletto e della volontà. E come esprimono e comunicano i loro pensieri? Dobbiamo ammettere che esiste una trasmissione del pensiero dal parlante a chi ascolta. Dobbiamo supporre un atto di buona volontà o di carità sia in chi parla e sia in chi ascolta. Ebbene, il parlante trasmette la sua nozione all’ascoltatore in forza del semplice atto della volontà, facendo a meno degli organi e dei mezzi fisici della comunicazione, che sono assenti. La comunicazione fra le anime beate assomiglia dunque a quella degli angeli, anche se esse sono in attesa di riassumere il loro corpo al momento della Parusia di Cristo.
Dunque fra i beati del cielo fra di loro e verso i santi della terra esiste un succedersi continuo di comunicazioni, di scambi, di interventi, di iniziative, di operazioni, di preghiere, suppliche, lodi, onori, benedizioni, devozioni, ringraziamenti, obbedienza, disponibilità, docilità, ascolto, effusioni di affetto e venerazione; intercessione, iniziative provvidenziali o di soccorso, protezioni, difese, illuminazioni, informazioni, suggerimenti, consigli, orientamenti, facilitazioni, incoraggiamenti, conforti, consolazioni, richiami, correzioni, svariati e diversi e di varia entità a seconda dei doni o mansioni o missioni o funzioni o uffici propri di ciascun beato e del grado della sua potenza di intercessione, assegnati a loro dalla provvidenza e corrispondenti per lo più a quanto esercitavano già sulla terra, salvo che non si tratti di compiti limitati alla vita presente, ma con maggiore efficacia, potere benefico e docilità ai divini comandi e prontezza alle nostre richieste, di quanto potevano attuare sulla terra, perchè liberi da ogni difetto e miseria e basati su quella maggiore vicinanza a Dio, che è fonte di ogni bene e di ogni grazia.
Noi sappiamo che operano per noi cose meravigliose, ma difficilmente possiamo sapere che cosa fanno, dato il mistero di vita divina nel quale essi sono immersi, mistero che è chiaro per loro che lo vivono o lo sperimentano nella luce celeste, ma è oscuro e impenetrabile per noi qui sulla terra che, per quanto illuminati dalla fede e beneficiari in alcuni casi straordinari di loro apparizioni e rivelazioni o speciali interventi miracolosi, viviamo fra le apparenze, immersi nelle ombre e nelle vanità della vita mortale presente.
Una particolare difficoltà concernente l’anima separata, seppur beata, è quella di sapere come essa esercita le attività spirituali dell’apprendimento e della comunicazione, dell’appetitività, dell’affettività, della volontà e del libero arbitrio, priva com’è delle potenze sensitive ed emotive, che costituiscono per la nostra natura, le condizioni e la base materiali normali per la nostra vita di conoscenza e di relazione.
Come faremo ad esprimerci, conoscere, apprendere, imparare e comunicare senza i sensi? A volere senza le passioni? Ad agire e muoverci senza le membra corporee? Saremo simili agli angeli. Conosceremo le cose materiali di questa terra, i viventi corporei vegetali, animali e umani direttamente con l’intelletto nei concetti senza bisogno di ricavarli dall’esperienza sensibile, non possedendo più il nostro corpo.
Ognuno soddisferà in modo intuitivo e perfetto i propri interessi scientifici, morali, estetici e religiosi nei campi che preferisce e secondo le sue attitudini. Gli sarà svelato in pienezza il mistero dell’uomo nel suo rapporto col prossimo, col mondo e con Dio.
Nella visione beatifica di Dio Trinità l’anima vedrà tutto il creato in essa virtualmente secondo la sua capacità intellettuale. Gli atti di adorazione divina e comunione fraterna non si conteranno. Qui si pone l’attività di soccorso ai fratelli nella prova rimasti su questa terra. Saremo in attesa di riavere il nostro corpo, ma in una situazione spirituale perfettamente tranquilla, fruendo della scienza delle cose semplicemente con l’esercizio dell’intelletto a somiglianza degli angeli.
È possibile immaginare fin da adesso come potrà essere la condizione della nostra anima separata? Occorre che noi separiamo nettamente l’esperienza del nostro corpo da quella della nostra anima e ci concentriamo in questa seconda esperienza. San Tommaso dice che la nostra anima può avere esperienza di sé stessa in forza della sua spiritualità, per la quale trascende l’esperienza sensibile e quindi può riflettere su sé stessa e cogliersi immediatamente anche senza far uso dei sensi[1].
Egli parte da questa sentenza di Sant’Agostino, che probabilmente si ispira a Platone: «Mens seipsam per seipsam novit quoniam est incorporea»[2]. San Tommaso spiega che si tratta di una conoscenza abituale ed implicita. Ecco le sue parole:
«Quanto alla conoscenza abituale, dico che l’anima vede se stessa per essenza, cioè per il fatto stesso che la sua essenza le è presente, può uscire in atto di conoscenza di se stessa; così uno che possiede l’abito di una scienza per la stessa presenza dell’abito può percepire ciò che è soggetto allo stesso abito. Affinchè invece l’anima si accorga (percipiat) di essere e faccia attenzione a ciò che in essa avviene (agatur), non occorre un abito, ma a tal fine è sufficiente la sola essenza dell’anima, la quale è presente alla mente: da lei infatti procedono gli atti, nei quali attualmente essa è percepita»[3].
Che nel mio atto di prender coscienza del mio pensare o di altre attività della mia anima io compia degli atti immateriali, me ne rendo conto già da solo in base a questa esperienza. Per cui già questo è sufficiente a farmi capire che io, benché possegga un corpo mortale, tuttavia vivo di una vita immateriale spirituale, superiore nelle sue attività a quanto il corpo è capace di fare.
San Tommaso nota poi come invece la questione dell’essenza dell’anima è molto difficile e richiede una «diligente e sottile ricerca»[4]. La via per arrivare a chiedersi qual è l’essenza dell’anima non è la coscienza di sé, che è puramente esistenziale e non speculativa, ma è quella che parte dalla considerazione delle manifestazioni sensibili dell’anima, come per esempio il linguaggio[5] e applicando induttivamente il principio di causalità, per cui si scopre l’immaterialità degli atti del pensiero e per conseguenza l’immaterialità della facoltà di pensare e quindi del soggetto pensante, soggetto che, non essendo composto di materia e forma, ma essendo pura forma sussistente, cioè l’anima, è un soggetto semplice. Ma, dato che la morte è la dissoluzione del composto, ecco che l’anima è immortale.
L’ambiguità dell’«esperienza del Sé»
Nei primi decenni del secolo scorso due grandi conoscitori delle mistiche non cristiane, Louis Gardet e Olivier Lacombe pubblicarono un trattato dal titolo «L’esperienza del Sé. Studio di mistica comparata», uscito in traduzione italiana nel 1988 per la Casa Editrice Massimo di Milano.
Ora non è chiaro che cosa gli Autori intendano col concetto del «Sé» con la maiuscola. Essi vorrebbero tradurre il termine sanscrito atmàn, però non è il «sé», ma l’anima. Ora è indubbio che l’uomo è capace di attuare e possedere una coscienza intellettuale di sé stesso. È questa la sua dignità di persona e di sostanza materiale animata da un’anima spirituale.
Ma che cosa sarebbe questa coscienza o esperienza del Sé? Che cosa è questo Sé? Gli Autori non lo definiscono mai e lo danno come cosa nota a tutti. Il che non è affatto vero. La questione del sé – sia il sé umano o sia il Sé divino - è delicatissima ed importantissima perchè mette in gioco tutta la questione della conoscenza e tutto il senso dell’esistenza e quindi in fin dei conti il problema dell’esistenza di Dio.
Una questione gigantesca del genere, che – direbbe Dante - «fa tremare le vene e i polsi», se non siamo degli incoscienti, non può essere sbrigata con la disinvoltura della quale danno prova gli Autori. Non mi riferisco certo alla quantità di dati storici e positivi, alla citazione di testi, alle loro sottili analisi, puntuali informazioni, profonde riflessioni, delle quali è ricco il libro, ma, come ho detto e ripeto, alla questione preliminare gnoseologico-metafisica di dare una definizione filosofica del sé.
La questione del sé è molto profonda e perciò stesso assai oscura, irta di equivoci da dissipare, e tale da impegnare più che mai l’intelligenza filosofica e la nostra capacità riflessiva. Invece è proprio questo il nodo centrale di tutto il complesso argomento trattato dagli Autori, un tema che – non è difficile immaginarlo – conduce ad affrontare la questione del rapporto dell’uomo con Dio.
Per questo, gli Autori avrebbero dovuto premettere alla loro pur interessante e ricca trattazione un’introduzione gnoseologico-metafisica della questione del sé. A ben poco serve una dottissima esposizione della mistica naturale, cristiana, islamica, buddista o brahmanica, se non si è previamente chiarito che cosa sia questo «Sè», del quale continuamente si parla.
Il fatto è che questo Sé, che l’asceta trova in se stesso al termine dell’ascesa o presa di coscienza mistica, ossia l’essere originario ed assoluto (sat), è ciò che l’asceta prende coscienza di essere («Tu sei Quello, tat tvam asi»). Ma non è, questo, panteismo? Meraviglia che gli Autori non se ne siano accorti.
La Presentazione dell’opera scritta da Vittorio Possenti ci dà un aiuto, ma non è sufficiente. Egli, per farci comprendere il pensiero degli Autori, ci rimanda ad un importante scritto di Maritain, citato dagli stessi Autori, L’esperienza mistica naturale e il vuoto, in Quattro saggi sullo spirito umano nella condizione d’incarnazione[6].
Ora dobbiamo far presente che l’oggetto di ciò che Maritain chiama «esperienza mistica naturale» non è per nulla il «Sé» del quale parlano gli Autori, ma è quanto ho riferito del pensiero di San Tommaso circa l’esperienza che l’anima ha di sé stessa, ossia si tratta dell’esperienza dell’«essere sostanziale dell’anima» (pp.119, 121); si tratta del proprio sé umano e non del Sé divino, come sembrano lasciar intendere gli Autori a causa dell’indeterminatezza con la quale parlano del sé.
Secondo Maritain si potrebbe semmai pensare che il mistico indiano grazie all’esperienza dell’esistere della propria anima possa oscuramente intuire che essa riceve il suo essere da Dio in quanto Egli infonde l’essere nella sua anima (pp.126-127).
Comunque, un conto è credere di prender coscienza di essere Dio stesso, al di là dell’effimero sé umano («tu sei Dio»), e un conto è accorgersi, mediante l’esperienza del proprio sé, di ricevere il proprio essere da Dio (tu sei da Dio). Maritain è molto benevolo nell’interpretare il misticismo indiano, ma non è detto, a mio giudizio, che l’eventualità prospettata da Maritain non possa effettivamente verificarsi.
Quanto agli Autori invece, insistendo su questo ambiguo «Sé» che essi identificano sic et simpliciter, senza cautele o riserve con l’esperienza del Sé, bisogna dire che mancano di quella prudenza che invece mostra il Maritain nella sua preoccupazione di scagionare, per quanto possibile, il misticismo indiano dalla taccia di panteismo. Chi può scandagliare quanto avviene nel fondo delle anime?
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 22 settembre 2025
È possibile immaginare fin da adesso come potrà essere la condizione della nostra anima separata? Occorre che noi separiamo nettamente l’esperienza del nostro corpo da quella della nostra anima e ci concentriamo in questa seconda esperienza. San Tommaso dice che la nostra anima può avere esperienza di sé stessa in forza della sua spiritualità, per la quale trascende l’esperienza sensibile e quindi può riflettere su sé stessa e cogliersi immediatamente anche senza far uso dei sensi.
Egli parte da questa sentenza di Sant’Agostino, che probabilmente si ispira a Platone: «Mens seipsam per seipsam novit quoniam est incorporea». San Tommaso spiega che si tratta di una conoscenza abituale ed implicita.
Tommaso poi distingue la conoscenza che l’anima ha di sé stessa in quanto la mia anima in particolare, cioè dal punto di vista dell’esistere o dell’essere, dalla conoscenza di che cosa è l’anima in universale, cioè la conoscenza dell’essenza o quiddità dell’anima.
Che nel mio atto di prender coscienza del mio pensare o di altre attività della mia anima io compia degli atti immateriali, me ne rendo conto già da solo in base a questa esperienza. Per cui già questo è sufficiente a farmi capire che io, benché possegga un corpo mortale, tuttavia vivo di una vita immateriale spirituale, superiore nelle sue attività a quanto il corpo è capace di fare.
San Tommaso nota poi come invece la questione dell’essenza dell’anima è molto difficile e richiede una «diligente e sottile ricerca». La via per arrivare a chiedersi qual è l’essenza dell’anima non è la coscienza di sé, che è puramente esistenziale e non speculativa, ma è quella che parte dalla considerazione delle manifestazioni sensibili dell’anima, come per esempio il linguaggio, e applicando induttivamente il principio di causalità, per cui si scopre l’immaterialità degli atti del pensiero e per conseguenza l’immaterialità della facoltà di pensare e quindi del soggetto pensante, soggetto che, non essendo composto di materia e forma, ma essendo pura forma sussistente, cioè l’anima, è un soggetto semplice. Ma, dato che la morte è la dissoluzione del composto, ecco che l’anima è immortale.
Immagine da Internet: Beato Angelico[1] Quaestio disputata De Veritate, a.10,a.8. Il Padre Ambroise Gardeil commentò a lungo ed acutamente in un suo dotto ed interessante trattato questa sentenza ardita e difficile tesi din Tommaso, che credo però che possa trovare riscontro nella nostra esperienza personale, quando attuiamo una profonda e attenta riflessione sul nostro io. L’opera del Padre Gardeil è la seguente: La structure de l’âme et l’expérience mystique, Gabalda Éditeur, Paris 1927.
[2] De Trinitate, libro IX,c.3.
[3] Quaestio disputata De Veritate, q.10, a.8.
[4] Sum. Theol., I, q.87, q.1.
[5] Morcelliana Editrice, Brescia 1978, pp.103-136.
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