Il serpente mi ha ingannata
La questione dell’errore in metafisica
Prima Parte (1/2)
Un caso paradigmatico
Secondo il racconto biblico, quando Eva cerca di giustificarsi davanti a Dio per il peccato commesso, dice: «il serpente mi ha ingannata». È vero che l’ha ingannata, ma lei si è lasciata ingannare. E per questo viene punita. Certamente questo episodio chiave di tutta la storia dell’umanità suscita in noi alcune riflessioni e alcune domande.
È innanzitutto sorprendente la grandissima responsabilità di Eva, la quale, perfettamente consapevole della gravità destinale del comando divino e del tutto libera da quella spinta al peccato che sarebbe stata la conseguenza in noi del peccato della coppia primitiva, muta la sua volontà da buona a cattiva dando ascolto al demonio. Non sapeva che era il demonio? Come mai ha preferito credere a lui piuttosto che a Dio?
Altro spunto di riflessione è il ruolo della donna. Come ha fatto Eva ad avere tanto potere su Adamo da convincerlo a peccare? D’altra parte Adamo non è sincero, quando per giustificarsi giunge quasi ad accusare Dio di avergli posto accanto la donna. Nasce il tema della donna tentatrice strumento di Satana, mito destinato ad un enorme sciagurato successo nei millenni e origine ancestrale del disprezzo della donna. Questo pregiudizio sembra rafforzato allorchè Dio rimprovera Adamo di aver ascoltato la donna. Cosa essenziale per non cadere nell’equivoco, sono tuttavia le parole che Dio pronuncia contro il serpente: «io porrò inimicizia tra te e la donna». e se dalla donna può venire la perdizione, da una donna verrà la salvezza e la beatitudine. E questa donna è evidentemente Maria.
Altra cosa che sorprende nel racconto genesiaco è come mai Dio non avverte la coppia del rischio della tentazione diabolica. Probabilmente essa era già in grado da sé di riconoscere e sventare la tentazione diabolica. Dunque è coscientemente e volontariamente che essa disobbedisce a Dio e obbedisce al diavolo. Ma come ha potuto credere al diavolo piuttosto che a Dio? Non lo sappiamo. È il mistero del peccato.
Come ha potuto il demonio essere presente nell’eden? Innanzitutto la sua presenza ci dice che la caduta degli angeli ribelli era già avvenuta. E come mai non appare qualche angelo santo? Chiaramente Dio ha voluto sottoporre la coppia ad una prova di fedeltà, come aveva già fatto con gli angeli.
È strano che il demonio venga presentato sotto l’immagine di una bestia. Forse l’autore sacro vuole ispirarci disprezzo. A tutta prima, da come si esprime il racconto biblico, il demonio sembrerebbe essere una delle creature dell’eden. Tuttavia è presentato come «la più astuta di tutte le bestie selvatiche che Dio aveva fatto» (3,1). La Bibbia tiene a dire che anche il demonio è creato da Dio, ma il fatto che il serpente venga presentato come «astuto» fa capire che il demonio non proviene dall’eden, dove tutto è buono e obbediente a Dio, ma da un mondo estraneo, malvagio e ribelle a Dio, che è l’inferno, residenza dei demòni. L’astuzia infatti è l’arte degli approfittatori, degli impostori e dei seduttori. Di questo inferno parla San Pietro (II Pt 2,4).
È interessante che il frutto proibito si presenti come attraente per il senso e per lo spirito: «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (3,6). Come mai dunque era proibito? Perché era l’albero della conoscenza del bene e del male, ossia di ciò a cui spetta solo a Dio dar fondamento, norma e ragione ultima, mentre a noi, al riguardo, spetta solo prender atto, adeguarci e mettere in pratica applicando nel particolare e nel dettaglio.
Chi invece sbaglia in buona fede, chi pur volendo far bene, non sa di far male, non merita punizione, come dice Gesù riguardo ai suoi uccisori: «perdona loro, Padre, perchè non sanno quello che fanno», ossia non sono consapevoli di commettere un peccato; al contrario, erano convinti di giustiziare un empio e un malfattore. Dunque non hanno peccato volontariamente. E dunque non ne hanno colpa. E dunque ne sono scusati e restano innocenti.
Certezza oggettiva e certezza soggettiva
La certezza è uno stato di sicurezza o fermezza del potere cognitivo sensitivo o intellettivo, per il quale l‘oggetto conosciuto sta davanti al soggetto in modo verace o veritiero, innegabile o irrefutabile o perché è mediatamente o immediatamente evidente o perché è dimostrato o perché è testimoniato da un teste credibile.
Vi sono tanti tipi di certezza quanti sono i possibili oggetti di ogni forma di conoscenza. Esiste dunque la certezza sensibile: sono certo di aver davanti il computer, quella scientifica: sono certo che l’acqua bolle a 100°, quella matematica: sono certo che 2+2=4; quella metafisica: sono certo che ogni agente agisce per un fine, quella morale, sono certo che i miei Superiori mi stimano, quella memorativa: sono certo che ieri ho consumato il pranzo, quella storica, sono certo che Garibaldi è esistito, quella di fede: sono certo che in Dio ci sono tre Persone.
Ci sono bensì altre certezze, ma queste sono soggettive, che non mi costringono all’assenso, non mi vincolano in modo assoluto, non sono irrefutabili, come per esempio, quelle per le quali il bastone nell’acqua mi sembra spezzato, o all’orizzonte del deserto mi sembra di vedere un lago, o riguardo ad una certa azione compiuta mi pare di aver peccato, o mi pare che il sole giri attorno alla terra, ma, ad un’indagine più accurata mi accorgo di sbagliarmi. Si tratta di certezze in buona fede, per le quali, se io credo in buona fede e per ignoranza invincibile che una data azione sia in se stessa ed oggettivamente peccaminosa, mentre in realtà è lecita e io la compio, pecco.
È con un atto di evidente stoltezza o protervia che Cartesio, per fondare la metafisica, ha voluto gratuitamente e forzatamente mettere in dubbio tutte queste certezze incontrovertibili. Posso invece dubitare di ciò che bisognerebbe dimostrare e non è dimostrato, di ciò di cui non sono oggettivamente certo, di ciò che non è sufficientemente provato.
Gnoseologia idealista e fenomenologia dell’allucinazione
Col termine allucinazione intendo non solo quel fenomeno psicopatologico per il quale il malato di mente a causa di un disturbo della sensibilità o dell’immaginazione o delle funzioni cerebrali crede di vedere o sentire ciò che in realtà non esiste, ma in generale intendo il fatto di prendere per vero e reale ciò che non esiste, lo scambiare il sentito o l’immaginario o la rappresentazione o l’ideale col reale. Questo scambio può essere involontario o volontario.
Infatti ad alcuni di noi interessa sapere le cose come stanno, essere oggettivi e spassionati nei giudizi, cioè a loro interessa conoscere la verità, anche dovessero riceverne danno, odiano l’essere ingannati o l’ingannarsi, sono cauti nel ritenere vero ciò che semplicemente sembra tale o appare tale, non vogliono sbagliare o cadere nell’errore, preferiscono la verità certa alla loro semplice opinione, desiderano che i loro concetti e giudizi corrispondano alla realtà, accettano la verità quale che sia, non sono attaccati alle loro idee, ma sono pronti a correggersi se si accorgono di essere nell’errore, non danno per vero solo quello che interessa a loro, ma riconoscono la verità anche di ciò che loro non piace, sono prudenti e cauti nel prender per vero ciò che a loro viene raccontato.
A questi tali, come a tutti noi, quale che sia il loro concetto della conoscenza, realisti o idealisti, o per demenza senile o a causa di una malattia mentale o per distrazione o nel sognare capita di essere ingannati nel senso, nell’immaginazione o nell’intelletto. Con tutto ciò mantengono l’amore per la verità e certo in quei casi non s’accorgono di sbagliare, perché, se lo sapessero, si correggerebbero certamente.
Ad altri, invece, ciò che interessa non è la verità, ma l’affermazione della propria volontà. È mettere al centro, all’inizio, al principio e alla fine di tutto il proprio io. Essi, pertanto, sono pronti ad opporsi anche all’evidenza e a dubitare dell’indubitabile, pur di accontentare le proprie voglie, salvo a dar per certo quello che non esiste, sempre a questo scopo di accontentare l’egoismo del proprio io.
Sul piano della sensibilità e dell’immaginazione, costoro, come tutti, possono benissimo essere sani di mente; tengono, come i realisti, a evitare l’errore, sono pronti a riconoscere se hanno sbagliato e a correggersi, sono perfetti realisti, attenti alla realtà, ed amanti sinceri della verità.
Ma sul piano intellettuale e delle idee di fondo o riguardo del senso dell’esistenza, elaborano, per loro comodo e per giustificare la loro disonestà, una gnoseologia ovvero una concezione della conoscenza, della verità e della realtà, per la quale oggetto del pensiero non è più la realtà esterna, ma l’apparire e il pensare sostituisce l’essere. Il pensante e il pensato sostituiscono il pensabile. Il pensiero non ha più per oggetto l’essere ma il proprio io.
Il pensiero non contatta più il reale mediante una rappresentazione concettuale; l’idea non è più un semplice progetto mentale di realtà, ma diventa la realtà; la verità del conoscere non è più adeguazione del pensiero all’essere, ma coerenza del pensiero con sé stesso; la realtà o l’essere non trascendono più il pensiero, ma sono immanenti e relativi al pensiero, al soggetto, all’io, alla coscienza. Tutto il reale diventa immanente all’autocoscienza. Che cosa è questo se non l’uomo che si fà Dio?
Sono gli idealisti. Per loro, quindi, quell’allucinazione che per i realisti è lo scambiare l’apparenza per la realtà, diventa il funzionamento normale dell’intelligenza umana. Riconoscono l’allucinazione a livello psichico, ma sono incapaci di riconoscere l’allucinazione a livello dello spirito. In questo senso Cristo li chiamerebbe «ciechi, guide di ciechi». Essi credono di vedere, ma in realtà non vedono o potremmo dire che vedono solo se stessi e tutto il resto, compreso Dio stesso, in relazione al proprio io e come proiezione del loro io.
Occorre dunque distinguere due modi fondamentali di confondere l’apparenza con la realtà: uno è quello proprio della demenza, di competenza dello psichiatra, e l’altro è quello proprio degli idealisti, di competenza del critico della conoscenza o dell’epistemologo. Nel primo caso abbiamo un semplice disturbo psichico involontario, che si cura con un adeguato e corretto uso critico del senso oppure con cure psicoterapeutico.
Nel secondo caso, invece, abbiamo l’idealista, che può essere perfettamente sano di mente, ossia distinguere benissimo sul piano delle realtà sensibili, l’apparenza o l’illusione dalla realtà, può essere un perfetto realista. Il suo errore non è psichico, ma spirituale.
La causa non è un difetto involontario del dinamismo dell’apprensione sensitiva, ma una decisione della volontà dettata dalla superbia e dall’ipocrisia - esempio tipico i farisei del Vangelo o i sofisti dei tempi di Aristotele - , decisione per la quale la volontà, dubitando dell’evidenza o del credibile, decide e dichiara esser vero non ciò che oggettivamente è vero, ma ciò che la volontà soggettivamente ed arbitrariamente decide e dichiara esser vero per accontentare se stessa e affermare assolutamente se stessa in opposizione alla volontà divina e alla verità oggettiva fondata sulla realtà creata da Dio.
Fine Prima Parte (1/2)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 1 giugno 2025
Il racconto biblico narra che il demonio avvicinò anzitutto la donna. Per quale motivo? La donna è più suggestionabile? È più capace di contattare gli angeli? Qui è difficile distinguere ciò che è rivelazione da quanto dipende dalla mentalità dell’agiografo. Oggi sappiamo con certezza che uomo e donna sono di pari dignità nell’intelletto e nella volontà, nella coscienza e nella responsabilità.
La questione che ci poniamo qui è quella di sapere se è possibile sbagliarsi in buona fede, ossia senza volere, in metafisica e nel giudizio morale. Gli errori in metafisica sono sempre colpevoli o possono essere scusati? È possibile in metafisica o nell’agire morale confondere la certezza oggettiva con quella soggettiva? Pare di sì, altrimenti come potremmo commettere un’azione oggettivamente cattiva, ma scusabile perché soggettivamente ritenuta o creduta buona e quindi commessa in buona fede?
Col termine allucinazione intendo non solo quel fenomeno psicopatologico per il quale il malato di mente a causa di un disturbo della sensibilità o dell’immaginazione o delle funzioni cerebrali crede di vedere o sentire ciò che in realtà non esiste, ma in generale intendo il fatto di prendere per vero e reale ciò che non esiste, lo scambiare il sentito o l’immaginario o la rappresentazione o l’ideale col reale. Questo scambio può essere involontario o volontario.
Immagine da Internet: illusione ottica, Fata Morgana
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