Il pensare umano e il pensare divino
Quarta Parte (4/4)
Il pensare umano
Diciamo inoltre che il pensiero umano è fallibile. Se il pensiero coincidesse con l’essere, l’errore, il falso, il peccato e la menzogna non esisterebbero e non potrebbero esistere, il che è appunto ciò che avviene in Dio, pensiero ed essere sussistenti e per conseguenza infallibilità, veracità e bontà infinite.
Ma in noi, feriti dal peccato originale, le cose vanno ben diversamente, perchè il nostro pensare è distinto dall’essere e dal reale esterno. Da qui la loro possibile contrapposizione e l’esistenza di tutti quei mali che invece solo noi possiamo compiere. Per noi infatti il reale è presupposto al nostro pensare ed è la regola del nostro pensiero. Ma noi, a causa di questa sciagurata possibilità di disaccordare il pensiero dall’essere, abbiamo la possibilità di non adeguare il pensiero all’essere, di prender per vero ciò che é falso e di dire il falso facendolo passare per vero. Da qui il falso, l’errore e la menzogna con ogni sorta di male morale e di malvagità.
Noi passiamo dalla conoscenza sensibile delle cose alla coscienza del conosciuto e dalla coscienza di questo all’autocoscienza perché il nostro processo conoscitivo deve fare i conti con l’uso dei sensi, cosa che in Dio purissimo Spirito è totalmente assente. Per questo è solo Dio che può essere autocoscienza assoluta, originaria e intrascendibile, struttura anzi del suo stesso essere, senza che essa abbia alcun bisogno di essere preparata come in noi dal contatto iniziale con le cose esterne.
Come è noto, questa è la concezione di Cartesio. Per lui il pensare umano non inizia con la conoscenza diretta delle cose esterne, della cui esistenza egli dubita, per passare al sapere riflesso del proprio sapere e del proprio io, ossia all’autocoscienza, ma per lui, come per Dio stesso, il sapere è originariamente autocoscienza, dalla quale segue la conoscenza delle cose. Ma dovrebbe essere evidente che questo processo conoscitivo è proprio esclusivamente di Dio, pensiero assoluto e sussistente, ideatore e creatore del mondo.
Quando ci poniamo il problema dell’essenza del pensiero, bisogna che partiamo da un concetto generale e non dal pensiero divino, altrimenti, come capita agli idealisti, finiamo per attribuirlo non solo a Dio, ma anche all’uomo, salvo poi a finire dell’ateismo, cosicchè l’uomo crede di essere Dio, per cui il vero Dio, diventato un doppione inutile, viene respinto e sostituito dall’io diventato Dio.
Un esempio di questa elevazione idealistica del pensare umano al pensare divino lo abbiamo nel teologo domenicano, il quale si ispira alla filosofia di Severino con la pretesa di interpretare San Tommaso, il quale invece, come è ben noto, fa la suddetta distinzione.
Egli propone un’analisi della natura del pensiero dove si vede sin dall’inizio che egli confonde il pensiero come tale col pensiero divino. Dice infatti: «il pensiero come atto – pura attività – pensa sé stesso pensante»[1]. Questo vale per Dio, non per l’uomo: Dio, pensiero sussistente, pensa sé stesso. Ma nell’uomo non è il pensiero che pensa ma è l’uomo stesso mediante il suo intelletto.
Prosegue:
«allora si potrebbe distinguere nel puro atto di pensare, un pensiero pensante – cioè il pensiero che pensa – e un pensiero pensato – quel se stesso pensante, che è contenuto nell’atto del pensare»[2].
Siamo daccapo. Non è il pensiero che pensa, ma l’intelletto e questo vale sia per Dio che per l’uomo, precisando che solo Dio è pensiero sussistente.
Prosegue poi:
«Distinguiamo il pensiero pensante, cioè l’attività, dal pensiero pensato, vale a dire l’oggettivazione. … Ciò di cui abbiamo coscienza è la nostra coscienza coscienziata o obiettivata. … Il pensiero che pensa è il pensiero pensante; l’obiettivazione è il pensiero pensato. Allora: il pensare è pensare pensante (=pensiero che pensa); il se stesso è il pensare pensato.
Che cosa si intende dire allora quando diciamo che il pensiero pensante o l’atto del pensare è inobiettivabile come sosteneva l’idealismo? Che io obiettivo, rendo oggetto, concettualizzo il pensiero pensante. Quando gli idealisti dicevano che il pensiero pensante è inobiettivabile o che l’io trascendentale è inobiettivabile, non intendevano dire che è inconoscibile. Il pensiero pensante è davvero nella sua realtà il pensiero pensante? No, un conto è il concetto del pensiero e un conto è l’attività del pensiero. … L’attività che presiede a questa concettualizzazione non è un concetto, è il pensiero pensante»[3].
Egli descrive l’atto del pensare con termini che denotano chiaramente che egli non parla del pensare in generale, nozione analogica applicabile a Dio e all’uomo, ma descrive il pensare in termini che fanno chiarante riferimento al pensiero divino, anche se non lo dice. Ma ciò sarebbe poco male, se poi non concludesse assegnando questo pensare all’uomo. Dice:
«Occorre scoprire il senso metafisico della solitudine del pensiero, che chiude in sé tutto. Sì, voglio dire che prima ancora di riflettere sui contenuti precisi, bisogna riflettere sulla stessa capacità di riflettere. Occorre sentirsi avvolti da qualcosa di intrascendibile, come Dio è intrascendibile, perché non ha nulla che gli cada al di fuori: non c’è nulla che cada al di fuori di Dio e quindi lo trascenda! … Nel guardare dentro noi stessi scopriamo la dimensione solitaria e onninclusiva del pensiero. … L’atto del pensare è intrascendibile e dunque onninclusivo … Non si può scappar fuori dal pensiero, perchè non c’è un fuori del pensiero»[4].
Qui vediamo come in ogni caso gli idealisti sono coerenti nel loro confondere il pensare umano col pensare divino. Infatti è chiaro che se il soggetto pensante è il pensiero sussistente, esso non può essere oggetto di concetti empirici. Ma se il soggetto pensante è l’uomo, non si vede perchè il pensante non potrebbe essere concettualizzato.
L’autocoscienza
Altro segno della confusione che Barzaghi fa del pensare umano col pensare divino è il suo concetto di autocoscienza, al quale assegna attributi divini. Egli infatti non distingue un’autocoscienza umana da un’autocoscienza divina. Essa è per sua natura divina. Così infatti la definisce:
«L’autocoscienza … si esprime come apprezzamento di sè come assoluto originario e intrascendibile. Assoluto originario perché … non c’è rinvio ad altro, ma rimanda semplicemente a sé. La coscienza dell’altro implica la coscienza di sé»[5].
Affermazione falsa, se riferita all’autocoscienza umana. L’esperienza dell’altro da me fuori di me è l’esperienza originaria della conoscenza. È solo successivamente che, riflettendo sull’altro da me, presente in me mediante una in rappresentazione, prendo coscienza di me e divengo oggetto di conoscenza a me stesso e sorge la mia autocoscienza. È solo l’autocoscienza divina che ha immanente in sé l’altro da sé, in quanto ne è l’idea creatrice.
«L’autocoscienza è anche originaria. Proviamo a pensare che abbia un’origine. Ebbene, il pensiero pensante pensa anche l’origine: in un boccone l’ha mangiata, l’ha già inglobata! … La stessa origine è pensata. L’autocoscienza apprezza sé stessa come assoluto originario, perché, se dovesse pensare una propria origine diversa da essa, la penserebbe appunto! Allora non è più diversa da essa»[6].
Osservo che l’autocoscienza umana ha certo un’origine: essa è creata da Dio. È l’autocoscienza divina che non ha un’origine a lei esterna, perché è solo lei che è fondata su se stessa e dà origine a tutte le autocoscienze create. Se l’origine è reale, come è reale, giacchè si tratta addirittura del Creatore, il fatto di pensarla non fa sì che essa si risolva in un essere di coscienza. Siamo qui davanti al solito vizio dell’idealismo: quello di negare il reale esterno per il fatto che esso viene interiorizzato nell’atto deal conoscere o in quello della coscienza.
«L’autocoscienza apprezza sé come intrascendibile. Se cerco di trascendere la coscienza, sono sempre nella coscienza: se penso che c’è qualcosa fuori del pensiero, lo sto pensando: quindi non è fuori. Nulla cade fuori dal pensiero; ma, proprio per questo, non posso dire che tutto sia dentro il pensiero; se non c’è il fuori non c’è neppure il dentro. Il pensiero è pura trasparenza assoluta del tutto»[7].
Siamo sempre allo stesso punto. Solo l’autocoscienza divina è intrascendibile, perché non solo non ha come la nostra un reale esterno davanti a sé e presupposto a sé, e tanto meno al di sopra di sé, ma essa è creatrice dell’essere e di ogni essere. Essa infatti è lo stesso essere sussistente, al vertice dell’essere e al di sopra di ogni essere, che virtualmente contiene e supera nel suo intimo ogni essere e tutto il creato ad essa esterno.
Non così la nostra autocoscienza. Essa è originata e non è affatto origine a sé stessa. Se non siamo accecati dalla superbia e dalla presunzione, siamo ben consapevoli della sua finitezza, dei suoi limiti e dei suoi difetti, della sua origine temporale, di quante cose impariamo che prima non sapevamo, di quante cose che non conosciamo e non conosceremo mai. Per quanto numerose siano le cose che sappiamo, il reale ci supera sempre. E se anche possediamo il concetto del tutto, non possiamo dire di sapere tutto.
È chiaro che se non c’è un fuori del pensiero non c’è neanche un dentro. Ma siccome Barzaghi sbaglia dicendo che non c’è un fuori, sbaglia anche a dire che non c’è un dentro. L’idealismo è ancora più falso dell’immanentismo. Almeno questo sostiene che ciò che sembra fuori è dentro e si limita a dire che Dio è essenzialmente nel mondo. Ma l’idealismo identifica sic et simpliciter l’essere col pensato e riduce tutto nel pensato.
Non si tratta di una presa di coscienza di qualcosa – Dio - che è già originariamente nella coscienza e oggetto inconscio o preconscio della coscienza, ma di arrivare a conoscere e a vedere il sommo ente extracoscienziale, Dio, come causa e creatore delle cose e del proprio io partendo, dalla conoscenza delle cose esterne e di se stessi.
Egli crede di poter far corrispondere a questa dualità di pensiero pensante atematico-preconcettuale e pensiero pensato oggettivato nel concetto, che ricava da Severino, che a sua volta la prende da Heidegger[8], la dualità tomistica di intelletto agente e intelletto possibile.
Una impossibile interpretazione idealistica di San Tommaso
Barzaghi accosta la sua concezione del pensiero all’intelletto agente di San Tommaso. Egli dice:
«Il pensiero è l’intelletto agente. … E come l’intelletto agente è il suo stesso atto di intelligere, così il pensiero è il suo stesso pensare»[9].
«L’intelletto agente è il puro atto di pensare»[10]. «Nell’intelletto agente l’ente o l’essere è preso nella sua dimensione metaconcettuale»[11]. «Questa attività dell’intelletto di intendere l’Assoluto positivo preconcettualmente è la base della concettualizzazione perché in funzione fondativa dei concetti»[12].
Ora per San Tommaso, in realtà, l’intelletto agente non ha affatto per oggetto né l’essere né l’Assoluto e neanche il «puro pensiero». Esso non ha alcun oggetto, ma è solo la luce intellettuale che illumina i fantasmi rendendoli intellegibili e consentendo all’intelletto possibile di intuire e concepire l’essenza della cosa astratta dagli stessi fantasmi[13].
L’intellezione dell’essere o dell’Assoluto per San Tommaso è opera dell’intelletto possibile, perché è questo il soggetto del conoscere e del pensare. Esso non ha bisogno del concetto solo quando l’anima volge la sua attenzione ai dati di coscienza o a sé stessa, nel qual caso essa si conosce o si intuisce per essenza[14].
Continua:
«Il pensare corrisponde all’attività dell’intelletto agente, così come viene descritta nella filosofia aristotelico-tomista. L’intelletto agente ha la funzione di rendere intellegibile l’oggetto della conoscenza, che è l’attività dell’intelletto possibile. La facoltà conoscitiva è l’intelletto possibile, non l’intelletto agente[15]. … L’intelletto agente intende l’essere[16]. … L’intendere è un sapere non ancora concettuale[17]. … L’intelletto agente è lo stesso essere. Questo vuol dire che pensiero ed essere si identificano»[18].
Ma poi egli, dopo aver fatto dire a San Tommaso che il pensiero s’identifica con l’essere, si oppone all’Aquinate in nome dell’idealismo laddove Tommaso distingue il soggetto pensante dall’atto del pensare. Infatti a proposito della conoscenza angelica Tommaso osserva che nell’angelo la sostanza dello stesso angelo è identica al suo pensare per concomitanza e non per essenza[19].
Tuttavia si accorge che per Tommaso nell’angelo[20], e per conseguenza nell’uomo, il pensiero creaturale non è sussistente come in Dio, per cui non s’identifica col suo atto, ma la sostanza angelica è solo concomitante il suo atto del pensare.
Invece Barzaghi respinge senza alcuna ragione l’inoppugnabile deduzione o inferenza tomista che garantisce la differenza fra il pensare divino e quello creaturale, e invocando un’osservazione fenomenologica a sproposito, sostiene l’identità pura e semplice nell’angelo della sua sostanza con la sua attività conoscitiva, dando un ulteriore prova di confondere il pensare creaturale con quello divino. Chiamando «pensiero» la sostanza dell’angelo egli infatti afferma:
«… Non consta descrittivamente la concomitanza di pensiero e di pensare. Non consta che pensiero e pensare siano per concomitanza e non essenzialmente identici. Descrittivamente consta l’identità punto e basta! … Ciò che consta è l’attività del pensare. Dunque, fenomenologicamente, essa è l’Assoluto»[21].
Bisogna osservare con franchezza che egli fraintende gravemente il concetto tomista di intelletto agente. Esso non ha niente a che vedere con la concezione idealista del pensiero. L’intelletto agente per l’Aquinate è quella funzione dell’intelletto per la quale esso illumina i fantasmi e consente all’intelletto di astrarre l’essenza intellegibile dalle immagini ricavate dai sensi[22].
La gnoseologia idealista deriva dalla metafisica idealista.
Perché per l’idealista il pensare coincide con l’essere? Perchè per lui l’essere è l’essere pensato, quindi è l’essere che appare alla coscienza, nella coscienza. L’idealista confonde l’essere con l’apparire. Non esiste per lui un essere nascosto o ignorato o non pensato perché per lui anche quello è essere pensato. Egli non ammette un essere che non appaia a qualcuno. Come dice Hegel: «l’essere deve apparire». Infatti per Hegel l’essere che è l’essere divino è essenzialmente relazionato al mondo e per questo deve apparire al mondo.
È vero che l’idealista cartesianamente fonda l’essere sull’autocoscienza, che non suppone una dualità di soggetto e oggetto, ma solo il soggetto che riflette su se stesso. Sembrerebbe trattarsi in Hegel di un monismo assoluto: esiste solo l’essere, che è Dio. Tutto è uno. Eppure per lui il soggetto non può essere oggettivato, non può diventare oggetto, mentre nel contempo davanti alle insopprimibili dualità dell’essere e del non-essere, del vero e del falso, del bene e del male, dell’affermazione e della negazione, del sì e del no, non riesce a mantenerli tali nella loro opposizione, ma per un intemperante bisogno di unità, finisce per introdurre la dualità nello stesso Assoluto, l’Intero, che così appare composto di infinito e finito, di essere e non-essere, di affermazione e di negazione. Per questo secondo Hegel in Dio c’è l’essere, ma anche il non-essere, l’infinito, ma anche il finito, il vero, ma anche il falso, il bene ma anche il male, l’uno ma anche i molti, il sì, ma anche il no.
L’essere, l’Assoluto in Hegel è uno solo, ma nel contempo non è un semplice, ma un composto, è un intero, composto di Dio e mondo. Quindi nell’idealismo Dio non può non creare il mondo, perchè sennò non sarebbe Dio. Dio peraltro non crea, ma extrapone sé nell’altro come altro da sé.
Per quanto l’idealista abbia una forte esigenza di unità, non può evitare la dualità e non sa come risolverla. Per questo egli non riesce a concepire Dio senza il mondo, un mondo, peraltro, non creato da Dio dal nulla, ma un mondo che è l’autoposizione di Dio fuori di sé. Tuttavia, siccome per lui esiste solo Dio, ecco che pone l’altro da sé come negazione di sé, nella propria autocoscienza.
Questa operazione è chiarissima in Fichte. Nell’idealismo come nello gnosticismo e nella filosofia indiana, l’uomo è Dio, ma all’inizio del suo cammino spirituale non sa di esserlo. Compito del filosofo o del maestro spirituale è quello di condurlo alla consapevolezza di essere Dio. Inizialmente, quando è ancora immerso nell’illusione, l’uomo è realista, cioè crede che quelle cose che stanno davanti a lui non le ha fatte lui, ma una causa prima creatrice che chiama «Dio». Non sa che invece esse sono prodotto del suo pensiero.
Ora però questa falsa gnoseologia dipende da una falsa metafisica che capovolge la normale applicazione del principio di causalità. Infatti tale principio dice che l’effetto dipende dalla causa, per cui la causa produce l’effetto e l’effetto suppone la causa.
Tra il finito e l’infinito, tra la natura umana e la natura divina, tra la creatura e il creatore c’è una discontinuità, non un passaggio graduale come tra il bianco e il nero, il buio e la luce, il caldo e il freddo. Uomo e Dio dono due enti, due sostanze, due persone distinte, benchè convenienti. L’uomo non è un Dio in potenza e Dio non è l’attuazione dell’uomo.
L’uomo non è un Dio inconsapevole di sé e Dio non è l’uomo che ha preso coscienza del proprio essere. Dio può stare senza l’uomo, ma l’uomo non può esistere senza Dio. L’essere può essere senza pensiero, essere cioè materiale. Ma il pensiero non può essere senza l’essere, perché il suo oggetto è l’essere.
Invece per l’idealista tra l’uomo e Dio c’è la differenza che può correre fra il fanciullo e l’adulto, il soggetto inconscio e il soggetto conscio e ciò peraltro infrange il principio di causalità, perché qui abbiamo un effetto che si eleva da sè alla dignità di causa e una causa, un Dio che non produce l’effetto dal nulla, ma si abbassa o degrada al livello dell’effetto.
L’idealismo fa immaginare all’uomo di essere e di potere infinitamente di più di quello che egli è e può; lo gonfia di superbia e gli fa credere di esser libero da ogni legge che non sia la sua volontà, esentandolo dai doveri della morale e rendendolo refrattario ad ogni obbligo della legge morale: una vera sciagura per sé e per il prossimo, un vero castigo di Dio.
Come sappiamo, nell’idealismo il pensiero coincide con l’essere. L’essere è Dio. È il panteismo, che in generale è quella visione del reale, per la quale le cose non sono causate o create da Dio, Pensiero identico all’Essere, ma esiste solo Dio, tutto è Uno e tutto è Dio, tutte le cose procedono o emanano da Dio o sono l’attuazione di Dio, quindi sono divine, sono il risultato o del divenire o dell’apparire di Dio. Dio è Tutto o l’Intero, nel senso che Dio è Dio-mondo, s’identifica col mondo, per cui Dio è nel mondo, il mondo è in Dio, Dio è il mondo e il mondo è Dio.
Se Dio è l’Eterno e l’Uno, ossia il solo ente, e il mondo è l’apparire e scomparire di Dio, abbiamo il panteismo eternalista, come quello di Parmenide, Plotino, Spinoza, Husserl e Severino. Se invece Dio è il Divenire, allora il mondo è il risultato dell’autosapersi e dell’autoporsi, del divenire o della storia di Dio. Qui abbiamo Eraclito, Proclo, Böhme, Bruno, Fichte, Schelling, Spencer, Hegel, Bergson, Loisy, Gentile, Heidegger, Teilhard de Chardin, Kasper. Barzaghi appartiene al primo gruppo di panteisti.
Il bisogno dello spirito umano di unificarsi, di semplificarsi, di ingrandirsi, di aumentare, di salire, di trascendersi, di elevarsi, di andar oltre e di superarsi, di per sé non è sbagliato, ma anzi è un bisogno naturale dello spirito finito, che aspirerebbe se fosse possibile, a diventare infinito e ha voglia di sentirsi non creato dal nulla, ma come finitizzazione dello Spirito infinito.
Ma qui pretende troppo, perchè il finito non può diventare infinito. La creatura non può diventare il creatore, l’effetto non può diventare la causa. E questa produce l’effetto, ma non può diventare l’effetto. È vero però che l’Infinito può innalzare in qualche maniera a Sé il finito e renderlo partecipe della sua infinità. È questo il dono divino della grazia. Questa è l’unica autentica possibilità che ha l’uomo al livello del divino, dell’Assoluto, dell’Originario. Viceversa la pretesa gnostica ed idealista di arrivarci da sé è come il volo di Icaro, destinato a finire nella tragedia.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 28 luglio 2025
L’inganno fondamentale dell’idealismo consiste quindi nel dare all’uomo l’illusione che il suo pensare sia come quello di Dio, ossia un pensare che non è atto di una facoltà di pensare, ma che costituisce il nostro stesso essere, per cui io mi concepisco come pensante in atto, come res cogitans, quindi non come una natura o sostanza che può pensare o ha la facoltà di pensare, ma come soggetto pensante ed anzi autocosciente in atto.
Dire che nulla cade fuori del pensiero vale solo per il pensiero divino, non per il nostro. In Dio infatti il pensiero coincide con l’essere, per cui è chiaro che in lui c’è tutto. Ma noi non siamo i creatori delle cose. Noi le troviamo già create da Dio e quindi fuori di noi.
Ricordiamo allora che la nostra autocoscienza è creata e non è creatrice. E se vogliamo trovare il suo fondamento, la sua origine e la sua causa, dobbiamo trascenderla, andare e guardare oltre i suoi confini, come ci esorta Sant’Agostino. Essa è finita e quindi trascendibile. Se vuol trovare la sua origine, che è Dio, essa deve trascendersi per tendere e giungere là dove «ipsum lumen rationis accenditur».
Non si tratta di una presa di coscienza di qualcosa - Dio - che è già originariamente nella coscienza e oggetto inconscio o preconscio della coscienza, ma di arrivare a conoscere e a vedere il sommo ente extracoscienziale, Dio, come causa e creatore delle cose e del proprio io, partendo dalla conoscenza delle cose esterne e di se stessi.
Immagine da Internet: Sant'Agostino, Pavia[1] Oltre Dio, op.cit., p.53.
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] Soliloqui sul divino, op.cit., p.45-46.
[5] Oltre Dio, op.cit., p.57.
[6] Ibid., p.56.
[7] Soliloqui sul divino, op.cit., p.46.
[8] È la distinzione heideggeriana fra Vorverständnis e Verständnis. La stessa distinzione ricompare in Rahner con termini leggermente diversi: Vorgriff e Begriff. Ed anche Schillebeeckx ha una distinzione simile. Cf il mio articolo Il criterio della verità in Schillebeeckx, in Sacra Doctrina, 1984, pp.188-205.
[9] Philosophia, op.cit., p.12.
[10] La potenza obbedienziale dell’intelletto agente, op.cit. p.276.
[11] Ibid., p.280.
[12] Ibid., p.284.
[13] Sum. Theol., I, q.79. a.3.
[14] Opusc. De Veritate, q.10, a.8.
[15] Oltre Dio, op.cit., pp. 94-95.
[16] Ibid., p.95.
[17] Ibid., p.96.
[18] Ibid., p.97.
[19] Sum. Theol., I, q.54, a.1, 1m.
[20] Ibid.
[21] Oltre Dio, op.cit., p.99.
[22] Vedi Sum. Theol., I, q.79, a.3; q.54, a.4; Contra Gentes, libro II, c.77.
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