Progressismo e modernismo

 

Progressismo e modernismo

Il vero progresso è un passaggio dal bene al meglio

 non dal bene al male

A partire dagli anni del postconcilio si è diffuso nella Chiesa l’uso di distinguere in essa due correnti o tendenze contrapposte: i cosiddetti «conservatori» e i cosiddetti «progressisti». Gli inventori di questa distinzione sono stati in modo speciale, anche se non solo, coloro che abusivamente hanno chiamato se stessi progressisti, considerandosi interpreti, protagonisti e fautori del progresso dottrinale, morale ed ecclesiale promosso dal Concilio, araldi delle aperture, dei cambiamenti, delle riforme e delle novità introdotti dal Concilio.

Come ha potuto verificarsi questa truffa da parte dei modernisti? Come ha potuto risorgere con rinnovata seduzione quel modernismo che sembrava esser stato sconfitto da San Pio X?  Il fatto è che la Pascendi fu sì certamente un’efficace condanna degli errori modernisti, ma Pio X non pensò di accogliere la giusta tesi modernista secondo la quale era giunto il tempo che la Chiesa assumesse i valori del pensiero moderno senza limitarsi a condannare gli errori. Anzi i modernisti pensavano che era la Chiesa che doveva correggere certi suoi giudizi dottrinali sulla modernità. E in ciò erano certamente loro a sbagliare, benché nessuno nega che la Chiesa nei secoli passati abbia commesso errori nel campo della pastorale.

L’istanza tuttavia in se stessa era giusta; ma a San Pio X non venne in mente di fare anche questo recupero di quanto di buono c’è nella modernità. D’altra parte, se l’istanza dei modernisti era giusta, essi però erano infetti dagli errori moderni, soprattutto quelli di Lutero, Cartesio e Kant. Per cui, visto che la Chiesa non faceva quest’opera di assunzione della modernità, pensarono di farla loro, senza rendersi conto di affrontare un’impresa superiore alle loro forze, nella quale solo con l’aiuto della Chiesa si sarebbe potuto riuscire. Ma per il momento quell’aiuto non ci fu. Essi tentarono da soli e quindi l’impresa fallì.

Ma il fallimento fu dovuto soprattutto al fatto che  i modernisti non usarono il metodo giusto, in quanto, invece di usare come criterio di vaglio e di discernimento i princìpi di  San Tommaso raccomandati dalla Chiesa, ricorsero ai princìpi erronei della modernità, per cui restarono intrappolati nella stessa modernità, con la presunzione peraltro di aver fatto un lavoro risolutivo, che tutta la Chiesa avrebbe dovuto assumere, se non voleva restare indietro nella storia ed rimanere isolata dal progresso dell’umanità.

Fu così che per ispirazione divina nacque in di San Giovanni XXIII l’idea di indire il Concilio Vaticano II, un Concilio che, per la prima  volta nella storia dei Concili, non si presentò, come un Concilio restauratore o conservatore o correttivo  o confutatore, ma un Concilio promotore di progresso, di miglioramento e di avanzamento nella verità, nel bene e nella santità, un Concilio che, più che concentrarsi sulla pur sempre valida necessità di far penitenza e del sacrificio della Croce, e correggere vizi ed errori, più che ingiungere di tornare all’osservanza di una norma o di una verità già note, più che proporre il ritorno ad un’austerità alla quale erano seguìti lassismo e decadenza, il Concilio volle farci sentire la presenza gioiosa e consolante del Cristo Risorto e misericordioso per mezzo del  suo Spirito e la pregustazione degli ultimi tempi.

Era logico allora che un Concilio progressista dovesse essere guidato da progressisti. I conservatori, se volevano essere fedeli al Concilio, furono indotti anche loro a diventare progressisti perché ormai la consegna e la parola d’ordine del momento era: bisogna progredire e rinnovarsi, occorre fare un passo avanti.

Il conservare cominciò ad apparire ad alcuni un conservatorismo e uno spirito di arretratezza, una malsana resistenza al Concilio e quindi l’assunzione di una posizione biasimevole ed anticonciliare. Ciò però fu un serio ed infausto equivoco del quale soffriamo tuttora: la preoccupazione di salvaguardare i tesori della Tradizione e di custodire fedelmente il deposto della fede appare ad alcuni una sorta di attaccamento a un passato ormai finito e quindi un pericoloso rigurgito di forze reazionarie contrarie al progresso e alla modernità.

Chi ebbe e ha interesse a fomentare un simile orribile e dannosissimo equivoco? Furono e sono certamente i modernisti, abituati, com’è loro costume, a spingerci ad abbandonare l’essenza della fede e della morale, presentandocela come l’avanzo di una mentalità di altri tempi superato dall’esperienza trascendentale atematica del mistero assoluto.

Fu così che tra i progressisti, sin dall’immediato postconcilio, cominciarono ad apparire due tendenze opposte: una di vero progresso, fedele ai veri insegnamenti del Concilio e alla tradizione e un’altra, che sotto il velo del progresso lasciava passare il modernismo. E questi erano e sono i rahneriani.

Il trucco dei modernisti è ben noto: far apparire buono, vero, giusto, moderno, nuovo, avanzato, progredito ciò che è contrario al buon costume, alla legge morale, alla dignità umana, alla logica, alla sana ragione, alla Scrittura, alla Tradizione, al dogma e alla dottrina della Chiesa.

Ricordo che quando insegnavo teologia a Bologna alcuni miei colleghi in vista giudicarono il mio insegnamento come «inutile, non evolutivo e troppo polemico». Ed infatti dal loro punto di vista era vero: inutile, perché ricordavo valori dimenticati, non evolutivo perché non seguivo Teilhard de Chardin e rifiutavo l’evoluzionismo dogmatico e troppo polemico perchè smascheravo gli errori del modernismo: un giudizio tipicamente modernista.

Un trucco dei modernisti ancor oggi è quello di respingere, ritenendole superate, le categorie metafisiche delle quali fanno uso il dogma e la dottrina della Chiesa, sotto pretesto della necessità certamente indiscutibile di rinnovare il linguaggio teologico e di usare termini e concetti comprensibili dagli uomini d’oggi.

Con questo specioso pretesto i modernisti affermano che è doveroso esprimere la verità cristiana da loro intesa come «esperienza atematica trascendentale»,  o nelle «categorie semitiche» che sarebbero proprie della Bibbia o ancor meglio rinunciando alle «categorie greche», cioè metafisiche e adottando il linguaggio della «filosofia moderna», cioè i concetti e princìpi di Lutero, Cartesio, Spinoza, Locke, Hume, Leibniz, Kant, Fichte, Schleiermacher, Schelling, Hegel, Marx, Comte, Carnap, Bertrand Russell, Gentile, Husserl, Heidegger e Severino e, perché no? Anche Nietzsche.

Pensieri sul progresso

Progresso vuol dire crescere, aumentare, svilupparsi, camminare ed avanzare verso la perfezione o meta finale. Il progresso ha vari aspetti. Abbiamo il progresso tecnologico, scientifico, morale, culturale, storico e spirituale. Sono tutti un passaggio dal bene al meglio.

Il progresso riguarda il mondo della vita, e soprattutto la vita spirituale, perché il vivente cresce fino al pieno sviluppo e, se è spirituale, aumenta il sapere e perfeziona l’agire all’infinito. Viceversa i fenomeni naturali e fisici o comici dei corpi o delle forze o delle energie inanimati evolvono certamente, ma sono ripetitivi secondo le leggi di natura.

L’evoluzione della materia, della quale parla Teilhard de Chardin, dal basso verso l’alto, dalla materia allo spirito, non esiste, perché nega il primato dello spirito sulla materia, di Dio sul mondo e confonde lo spirito con la materia, rendendo impossibile la creazione divina dal nulla, sostituita dall’evoluzione. Dio invece può certamente nel corso del tempo, aver suscitato la vita fisica fino alla creazione della vita umana.

Chi ama il progresso sa che occorre avanzare continuamente; progresso è non star fermi o retrocedere. Chi ama il progresso evita la nostalgia di un passato che è finito. E invece rammemora e rifonda le conoscenze e virtù dimenticate. Il vero progresso è il miglioramento di valori tradizionali ed immutabili, dei quali si suppone la fedele conservazione.

Il progresso spirituale comporta la conoscenza e pratica di valori che sono sempre gli stessi.  Progresso è rompere con un passato sbagliato, ma essere in continuità con i valori che non mutano. Bisogna distinguere nel patrimonio della vita cristiana ciò che cambia da ciò che permane.

Dio comanda il progresso: crescete e moltiplicatevi. Occorre perfezionare ciò che è imperfetto. Occorre migliorare il buono fino a che diventi ottimo. Può esistere un progresso senza fine. Ma il progresso cessa, quando la meta è raggiunta.

Il progresso è progresso verso una meta. Un difetto del progressismo modernista è quello di non chiarire qual è la meta del progresso o di proporre valori caduchi. Se non sappiamo dove stiamo andando, che cosa camminiamo a fare? Non si cammina per camminare, ma per giungere a un luogo. L’agente agisce per un fine; se non è chiaro il fine, supposto stabile e certo, si agisce per che cosa?

Si può sì immaginare un progresso infinito e in certo modo esso esiste nel campo del contingente e del relativo. Ma anche un progresso infinito è impossibile senza il possesso di un bene assoluto e un fine ultimo di fondo. Infatti il finito ripetitivo si fonda sull’infinito perfetto; per questo, anche ammettendo un’infinità di finiti in successione, occorre sempre supporre il raggiungimento dell’infinito perfetto. Altrimenti si distrugge la stessa idea di progresso.

Il progresso tende al futuro. La pienezza della perfezione appartiene al futuro. Da qui vediamo il legame del progresso con la speranza che guarda al futuro. Nel passato troviamo ciò che dobbiamo realizzare nel futuro. Lo stato d’innocenza è inferiore allo stato di gloria. Occorre distinguere il vero dal falso progresso. Il modernismo è un falso progresso, perché’ nasce dall’idolatria della modernità assunta acriticamente come fosse l’assoluto.

Il perfetto non progredisce ma resta quello che è 

Ex ente non fit ens – dicevano gli Antichi – quia iam et ens: il progresso suppone l’imperfezione. Non ha senso supporre un ente perfetto e compiuto che progredisca. Che cosa gli vogliamo aggiungere? Il perfetto semmai proviene dall’imperfetto o al limite proviene dal nulla per creazione divina. Voler cambiare il perfetto vuol dire distruggerlo. Ciò che invece deve progredire è l’imperfetto che non è ancora perfetto. Questa è la giustificazione del progresso.

Nella scala degli enti ci sono certamente gradi di perfezione, fino ad un ente sommo, Dio, ma il perfetto come tale non muta, non progredisce, perché non ne ha bisogno, altrimenti sarebbe imperfetto. La verità conoscitiva è immutabile. Una volta che la verità è accertata, essa rimane sempre, anche se il suo oggetto reale e concreto muta. La definizione dell’essenza di una cosa è immutabile. Gli enti mutano, ma la loro essenza non muta.

Il progredire è legato al divenire, il divenire è legato al tempo e il tempo è legato alla materia. Il progresso non riguarda le cose astratte per opera della mente, come il possibile, l’universale, il concetto, l’idea, l’intellegibile fisico, matematico, metafisico, logico. E ciò perché questi enti prescindono dal tempo e dal divenire. Progredisce invece il reale, il fattuale, l’esistente, il tangibile, lo storico, il concreto, il singolo e l’individuale materiale e spirituale agente ed inserito nel tempo.

La persona come tale, nella sua identità, come essenza o sostanza, non progredisce, ma è sempre identica a se stessa, ma in quanto come persona, agente creata, muta e progredisce mediante le sue potenze e i suoi accidenti. La persona come ente metafisico è immutabile, sovratemporale e immortale.

L’azione fisica evolve, ha una durata, si svolge ed è nel tempo, muta e progredisce. L’azione spirituale è istantanea e sovratemporale quindi come tale non progredisce, ma è immutabile. L’azione spirituale, pur essendo sovratemporale, ha i suoi effetti nel tempo. Progredisce la condotta morale come successione di atti della volontà. L’essenza della persona è sovratemporale e immutabile; la persona che agisce nel tempo ha una storia e progredisce. L’ente matematico, in quanto astratto, è immobile e atemporale, e non progredisce.

La materia è nel tempo e nel divenire: lo spirito è nell’eterno, nell’immutabile, incorruttibile ed immortale. Lo spirito umano nel conoscere e nell’agire muta, progredisce, retrocede, è nel tempo, nel divenire e nella storia non perché è spirito, ma perché governa un corpo.

La verità delle cose materiali e mutevoli muta col mutare delle cose. I valori morali che fondano, giustificano e finalizzano la dignità umana sono universali, assoluti, immutabili, «non negoziabili», insopprimibili, «imperativi categorici», irrinunciabili e inviolabili, benché sempre meglio conoscibili e realizzabili e disposti secondo un ordine gerarchico di maggiore o minore importanza: quelli spirituali prevalgono sui materiali, quelli interiori di coscienza sugli esteriori, quelli personali su quelli sociali, quelli religiosi su quelli umani, quelli soprannaturali su quelli naturali.

Cielo e terra passano; la parola di Dio non passa. I dogmi, le formule, gli articoli e i concetti di fede non cambiano di significato[1], ma mantengono sempre lo stesso significato per tutto il corso della storia, benché possano essere espressi meglio con termini diversi e sempre meglio chiariti, approfonditi, esplicitati e spiegati.

Non sempre il nuovo è buono. L’aggiornamento è un dovere, per non perdere i contatti col presente. Tra le cose o idee nuove o moderne occorre operare un discernimento e dare una valutazione alla luce della sana, fondata e viva tradizione, dei dogmi della fede e della sana ragione.

Non sempre il moderno è buono e progredito rispetto al passato. Il moderno è buono se è un valore più avanzato dell’antico. L’antico è da conservare se è ancora buono o se è assolutamente buono. Infatti, certi valori che provengono dal passato o dalla tradizione sono incorruttibili, immutabili e perenni e come tali sono sempre attuali, non invecchiano mai. L’abbandonarli sarebbe stoltezza e sciagura.

Attenzione al conservatorismo.  Bisogna conservare ciò che è ancora buono o che si sa essere assolutamente buono. Ma anche questo va presentato o attuato in un modo nuovo, tale da poter essere recepibile oggi. Dev’essere abbandonata quella maniera di presentarlo o attuarlo che era adatta agli uomini di ieri. Oppure va presentato o attuato meglio di un tempo. Bisogna saper cambiare il linguaggio pur mantenendo intatti i contenuti. Oppure bisogna saper esprimere meglio le stesse cose, cioè con concetti più espressivi e termini più adatti. Occorre essere più precisi e più chiari, per quanto è possibile.

Bisogna abbandonare ciò che non serve più o che ha esaurito la sua funzione storica o svolto il suo compito o soddisfatto a bisogni che oggi non ci sono più o era errato, ma noi non ce ne accorgevamo. Il tradizionalismo è sano se è aperto al progresso. Non dobbiamo restare attaccati o voler tornare a ciò che è superato. La fermezza non è rigidezza e il rigore morale non è rigorismo. Il rispetto della legge non è legalismo e il rispetto del diritto non è giuridismo.

Progressismo e tradizionalismo si completano a vicenda

La questione del progresso e della conservazione si riduce ad essere un problema metafisico, che se non riusciamo a risolvere, non potremo mai capire né che cosa è il progresso né che cosa è la conservazione, né il mutabile nè l’immutabile, né l’essere né il divenire, né la materia né lo spirito, né il tempo né l’eternità, né la storia né la metafisica.

Su questa questione anche grandi filosofi si sono ingannati perché qui l’intelligenza è tratta in inganno dall’immaginazione. Essi sanno che la realtà più alta è lo spirito e la vita, ma credono che ad essi sia congiunto il movimento e il divenire e non la stabilità e l’immutabilità. Eppure la Bibbia lo dice chiaramente: «Io sono Dio e non muto» (Mal 3,6). Il vertice della vita è dato proprio dall’immutabilità.  Hanno davanti gli occhi l’immagine della rigidità del cadavere, la fissità dell’ente matematico, il sasso o la statua che stanno fermi e non si muovono. Viceversa vediamo l’uomo, gli uccelli e i pesci che si muovono. E non sono capaci di capire che l’atto d’essere è superiore all’ente che passa dalla potenza all’atto.

Dunque, concludono, il segno della vita non è l’immutabile, ciò che è sempre lo stesso e non cambia mai, ma ciò che muta, cambia e diviene. Non si accorgono di quali pericolosissime conseguenze sorgono da questo equivoco: allora Dio, muta, la verità muta, il bene muta, i concetti mutano, il dogma muta, il significato muta, la natura umana muta, la morale muta. Ed eccoci in pieno modernismo. 

Come fanno ad essere incorruttibile e immortale ciò che non sa mantenere se stesso in ciò che è per essenza? Come non capiscono che se una cosa cambia essenza non è più lei? Come fanno a non capire che se io cambio il concetto di una cosa non vedo più la stessa cosa, ma ne vedo un’altra?

Ma d’altra parte c’è chi scambia l’immutabile col rigido, chi scambia la fedeltà con la mancanza di aggiornamento,  chi rifiuta il nuovo perché è nuovo, chi non vuol progredire o cambiare perchè si ritiene già perfetto, chi ritiene di non dover imparare perchè sa già tutto, chi è attaccato a cose che non servono più e sono diventate dannose, chi per pigrizia preferisce mantenere le vecchie abitudini, chi si accontenta di dire: da duemila anni si è fatto sempre così: che bisogno c’è di cambiare? E siamo in pieno conservatorismo.

Occorre dunque finirla con un progressismo, che in realtà è modernismo, il quale col richiamarsi al Concilio sostiene il progresso contro l’immutabile, il dogma, la tradizione, la conservazione, l’astratto, l’universale, l’essenziale. Conservare e far crescere, mantenere e rinnovare, fermezza ed elasticità, intransigenza e duttilità, cambiamento e fedeltà, concretezza e universalità sono tutti atti dello spirito necessari, ciascuno al suo posto, nella giusta misura, nel suo momento e nel dovuto modo, per la vita prosperosa e feconda dello spirito, la perfezione morale e la beatitudine dell’uomo.

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 24 maggio 2025

 

Ricordo che quando insegnavo teologia a Bologna alcuni miei colleghi in vista giudicarono il mio insegnamento come «inutile, non evolutivo e troppo polemico». Ed infatti dal loro punto di vista era vero: inutile, perché ricordavo valori dimenticati, non evolutivo, perché non seguivo Teilhard de Chardin e rifiutavo l’evoluzionismo dogmatico, e troppo polemico, perchè smascheravo gli errori del modernismo: un giudizio tipicamente modernista. 

Un trucco dei modernisti ancor oggi è quello di respingere, ritenendole superate, le categorie metafisiche delle quali fanno uso il dogma e la dottrina della Chiesa, sotto pretesto della necessità certamente indiscutibile di rinnovare il linguaggio teologico e di usare termini e concetti comprensibili dagli uomini d’oggi.

Cielo e terra passano; la parola di Dio non passa. I dogmi, le formule, gli articoli e i concetti di fede non cambiano di significato, ma mantengono sempre lo stesso significato per tutto il corso della storia, benché possano essere espressi meglio con termini diversi e sempre meglio chiariti, approfonditi, esplicitati e spiegati.

Non sempre il nuovo è buono. L’aggiornamento è un dovere, per non perdere i contatti col presente. Tra le cose o idee nuove o moderne occorre operare un discernimento e dare una valutazione alla luce della sana, fondata e viva tradizione, dei dogmi della fede e della sana ragione.


Immagine da Internet: Ascensione di Gesù con Apostoli, Chiesa San Frediano, Lucca


[1] Un trattato importante sull’immutabilità e l’evoluzione o del dogma è quello del domenicano Francisco Marin-Sola, La evolución homogenea del dogma católico, Valencia-Madrid 1963.

4 commenti:

  1. Reverendo Padre, grazie per il suo articolo. Le parole, i termini, i vocaboli, hanno importanza secondaria. Ciò che conta sono i concetti che trasmettono quelle parole. Tuttavia, a volte le parole, in certi gruppi della Chiesa, hanno il valore di armi, e sono così nocive da causare crepe, divisioni, e persino scismi nel corpo ecclesiale.
    In linea di principio, le parole progresismo e modernismo non avrebbero più importanza di quella di essere veicoli di qualcosa di più importante i concetti. È chiaro che la parola "progressismo" si riferisce all'atteggiamento del cristiano impegnato nel compito di far progredire la sua fede e la fede della Chiesa, verso una maggiore comprensione della Parola di Cristo e della sua applicazione alla nostra vita, la vita della grazia. Ed è molto chiaro che la parola "modernismo" si differenzia da quella precedente, facendo riferimento ad un'ideologia antica, che continua ad avere le note dell'eresia. Teologi come lei, prestano un grande servizio ecclesiale, distinguendo una e altra volta entrambi i concetti, e ripetendo il discorso senza stancarsi, come deve essere, soprattutto in tempi come questo, di inizio di un pontificato che dovrebbe parlare chiaro sul tema che lei tratta in questo articolo.
    Tuttavia, conosco degli indietristi (come diceva papa Francesco) che sapendo che questa chiara distinzione rivela e rende chiaro che il loro odio per il progresso ecclesiale è un vizio, sanno identificare progressismo e modernismo, e considerano il progressismo un'ideologia. Purtroppo oggi in molte comunità cristiane il "progressismo" è una parola con cattiva fama, proprio a causa di quegli indietristi, che l'hanno usata per lanciare su di essa tutti i loro odi, confondendo progressismo con modernismo.

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    1. Caro Humberto,
      le osservazioni che lei fa sul rapporto della parola col concetto sono molto sagge e mi trovano pienamente d’accordo. Lo so che il termine progressista è generalmente usato sia da modernisti che da passatisti: i primi come titolo di vanto, per nascondere il loro modernismo; i secondi perché, non sapendo apprezzare il progresso causato dal Concilio, confondono il rinnovamento col modernismo.
      Secondo me invece bisognerebbe insistere nel presentare il progressismo semplicemente come indica la parola, ossia come amore per il progresso, cosa doverosa su tutti i piani delle attività umane da quello tecnologico a quello scientifico, a quello morale e a quello teologico.
      A proposito del significato delle parole, vorrei dire il mio pensiero anche per quanto riguarda il termine tradizionalista. Anche qui abbiamo un fenomeno simile alla parola progressista. Questo appellativo è usato in senso negativo o derisorio dai modernisti ed applicato sia ai cattolici normali che ai filolefevriani.
      Ora questa cosa non va bene, perché sottende nei modernisti il loro caratteristico disprezzo per la tradizione. Per questo io proporrei di usare il termine tradizionalista in un senso positivo, semplicemente come amante della tradizione. Invece io chiamerei passatismo il falso rispetto per la tradizione, proprio dei filolefevriani. Lo so che questi si considerano i paladini e i custodi della tradizione, anche contro il Papa, ma è evidente che essi abusano di questo appellativo, giacchè dovrebbe essere evidente per ogni buon cattolico che il vero custode ed interprete della Tradizione è il Pontefice.

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  2. Il Concilio Vaticano Secondo purtroppo non e' riuscito nel far progredire "La Santa Chiesa" (progresso) , bensi' ha operato per un regresso, innanzitutto con la nuova liturgia messa a punto anche del massone (?) card. Bugnini: celebrante con spalle rivolte al Santissimo, coinvolgimento dei laici in alcune fasi delle celebrazioni, ecc. ecc. , ciliegina sulla torta arrivo' pure la Comunione in mano come regola quasi imposta, non esagero: risultato dopo pochi decenni chiese semivuote.
    Questo si chiama regresso: ovviamente le cause delle Chiese vuote non dipendono solo da questo, magari ! Penso per esempio a quanti pastori sprovveduti e poco dotati sia in mano il servizio missione pastorale e di conseguenza a quanta devianza / ignoranza serpeggi tra le pecore. Confidiamo in papa Leone XIV , ha un lavoro enorme da sobbarcarsi nello sbrogliare questa situazione cancrenosa, invece di sparare sugli indietristi di bergogliana memoria come mi sono sentito etichettare, oltre ad altri epiteti (ed alla faccia dei ponti) pensiamo (pensate anche voi due pero') per esempio a dare una mano alla soluzione della mina vagante costituita della chiesa germanica ! E a disinnescare tutti quei serpenti che dopo l'elezione del nuovo papa si sono rintanati nelle fessure e sotto i mobili da dove spuntarono; preghiamo per questo e anche per il Franciscvs, come faccio io tutti i giorni, che' mi raccontano non abiti tuttora in un buon posto, ma speriamo siano solo voci cattive e basta. LJC

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    1. Caro Fedele,
      io credo che tutto sommato la Liturgia uscita dal Concilio sia un progresso per il fatto che ha un carattere ecumenico, valorizza i carismi femminili, favorisce la partecipazione del Popolo di Dio, è più ricca di dati scritturistici, offre diverse forme di attuazione in rapporto a diverse categorie di persone o a diverse culture, è più comprensibile dalla gente comune per l’uso del vernacolo.
      Tuttavia posso ammettere che un certo regresso ci sia stato e mi riferisco ad una certa diminuzione dell’elemento di sacralità, che era indubbiamente un pregio del Vetus Ordo.
      Stando così le cose, dobbiamo dire con franchezza che la diminuzione della partecipazione dei fedeli alla Messa non dipende dalla riforma conciliare, ma da una sua falsa interpretazione.
      Quanto al rimedio proposto dai filolefevriani, esso ha il difetto di ignorare i nuovi valori elencati sopra della riforma conciliare.

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