La concezione idealistica della filosofia - Quarta Parte (4/5)

 

La concezione idealistica della filosofia

Quarta Parte (4/5)

 

Il filosofare hegeliano: costruire l’Assoluto

 Cornelio Fabro definisce il filosofare hegeliano in questi termini:

«L’Assoluto, dichiara Hegel, deve per la coscienza essere costruito e questo è il compito della filosofia; ma poiché tanto il produrre quanto i prodotti della riflessione sono soltanto limitazioni, ecco che sorge qui la contraddizione: L’Assoluto dev‘essere riflesso, posto; ma con questo non è posto, bensì tolto, poiché in quanto è posto, esso sarebbe limitato. La mediazione di questa contraddizione costituisce la riflessione filosofica ed è precisamente la dialettica. La ragione si presenta infatti come forza dell’Assoluto negativo, perciò come negare assoluto e insieme come forza del porre della totalità opposta, oggettiva e soggettiva»[1].

Questa concezione tipicamente idealistica del filosofare non come indagine o ricerca, ma come costruire riapparirà chiara nella filosofia di Severino nello stesso titolo della sua opera programmatica La struttura originaria. Il motore immobile per Severino non è un ente sommo, causa prima delle cose, ma è un congegno costruito dall’uomo: un dio, direbbe la Scrittura, opera delle mani dell’uomo.

La teologia finisce nell’autocontraddizione quando, come avviene nell’idealismo, manca della nozione analogica, uniplurale, polisensa dell’essere, e dispone solo dell’univocità o dell’equivocità. L’idealismo così ha a disposizione solo i predicati dell’affermazione e della negazione, per cui non riesce a fondare le categorie dell’alterità, della diversità e della somiglianza. Per questo, per distinguere è costretto a separare; per unire è condotto a confondere. Invece l’analogia distingue senza opporre, unisce senza confondere, afferma senza negare, non prende per aut-aut l’et-et e non fa dell’aut-aut un et-et.

Hegel rimprovera all’Assoluto di Schelling proprio questa mancanza di determinatezza e differenziazione: Schelling non ha saputo costruire Dio nel concetto, non ne offre la «struttura originaria», ma vaga nell’indeterminato e nella confusione. Hegel rimprovera Schelling di non essere riuscito ad esprimere l’Assoluto nel concetto, nel ragionamento, nel contenuto necessario ed universale, opera della ragione e della scienza, opera propria della filosofia. Diversamente, osserva Hegel, si esce dal campo della logica e della ragione, quindi ci si aggira nella nebbia della sensazione individuale, dell’emotività, dell’immaginazione, del mito, della poesia, non del sapere e della verità[2].

Schelling sostiene che l’esistenza dell‘Assoluto si mostra partendo dall’Assoluto senza preoccuparsi del circolo vizioso e della petizione di principio, perchè per lui porre l’essere scoprire l’essere, come già per Fichte, è la stessa cosa.

Hegel, invece, davanti a queste tesi che chiama ironicamente «oracoli», si mostra contrario, perché egli ha chiaro che la filosofia è opera della ragione, si muove nell’orizzonte del pensiero e dell’universale ed è prodotto del concetto, mentre l’Assoluto di Schelling è estraneo al concetto ed alla ragione ed ha l’aria di librarsi tra le nuvole dell’immaginazione e il soggettivismo dell’emotività.

Ora però bisogna dire che l’assoluto non è necessariamente Dio, salvo che non intendiamo l’assoluto sotto ogni aspetto. Ma assoluto significa semplicemente «sciolto», «libero». La Bibbia non chiama mai Dio l’Assoluto, perché è una proprietà che può riguardare anche altre cose; mentre usa altri attributi che si addicono solo a Lui, come l‘Eterno, l’Altissimo, o l’Onnipotente o il Creatore o Colui Che È. Ma l’assoluto come tale non caratterizza necessariamente la natura divina; quindi non è un vero attributo divino, esclusivamente proprio di Dio.  Esistono tante cose o valori assoluti, che non sono Dio. come per esempio la persona umana o il valore assoluto o il dovere assoluto o la dignità assoluta o il consenso assoluto.

Aggiungiamo che per Hegel la filosofia, teologia e fede[3] hanno lo stesso contenuto reale, concettuale, ideale e razionale: Dio, con la differenza che la fede assembla ed elenca dei fatti o dati positivi o delle nozioni, narra ciò che è accaduto. Invece la ragione mostra la necessità logica di quanto nella fede è semplicemente creduto. Dio nella fede è oggetto di rappresentazione immaginifica o simbolica (Vorstellung), mentre nella filosofia è oggetto di concetto o del pensiero (denken)[4].

La filosofia per Hegel è la «conoscenza di Dio come Spirito, conoscenza che non può appagarsi delle semplici rappresentazioni della fede, ma oltre al pensiero, prima all’intelletto riflettente e deve progredire fino al pensiero concettuale»[5]. Per Hegel la ragione è superiore alla fede. La ragione trova la necessità logica di ciò che la fede narra o rappresenta mediante simboli, metafore, rappresentazioni, racconti o immagini.

Hegel tuttavia respinge un uso dell’intelletto che pretende di trovare contraddizioni nella fede,

«per preparare trionfi al suo principio dell’identità formale. Se lo spirito cede a codesta riflessone finita, che si è data il nome di ragione e filosofia (=razionalismo) viene a rendere finito il contenuto religioso e così, in effetti lo annienta. La religione ha allora il pieno diritto di difendersi e di dichiararsele nemiche»[6].

È curiosa questa polemica di Hegel contro il razionalismo, quando il razionalista è proprio lui col suo ridurre i dogmi della fede ai concetti della ragione. Da come giudica il pensiero religioso e la religione cattolica si vede bene che egli nella religione attacca il realismo in difesa dell’idealismo. Dice infatti che: «il modo religioso di rappresentare non applica a se stesso la critica del pensiero e non comprende se stesso»[7].

Per Hegel la religione è il campo della fede, dove vale il realismo: Dio è rappresentato come trascendente creatore del mondo:

«Noi abbiamo Dio non solo come puro pensiero, ma abbiamo in pari tempo dinnanzi a noi nel modo della sua rappresentazione, Dio in quanto esistente. Egli rappresenta solo se stesso e pone se stesso nella sua presenza; questo è il lato dell’esserci dell’Assoluto. Nella filosofia della religione noi abbiamo così l’Assoluto per oggetto, ma non semplicemente nella forma del suo pensiero, ma anche in quella della sua manifestazione, come manifestazione dell’Assoluto»[8].

La filosofia è anch’essa teologia, ma in questo caso, il pensiero supera la rappresentazione e la risolve nell’idea e nel concetto:

«La filosofia in generale è in primo luogo l’idea logica, idea come è nel pensiero. L’idea appare qui nella sua purezza logica come pensiero, cosicchè le determinazioni del pensiero sono il suo stesso contenuto e per vero l’intera totalità delle determinazioni del pensiero sviluppantesi attraverso sé e da sé. Ma precisamente, a causa di questo sviluppo, l’Assoluto si mostra come autoproduzione, come attività per essere, ed è il mezzo per divenire, attraverso sé, per sé. L’idea si dà esistenza nella natura; e si trasforma, in quanto così diventa per sé, come spirito, come conoscenza di se stessa. Dio è dunque il risultato della filosofia, del quale viene riconosciuto che non è solo il risultato, bensì l’eterno prodursi, il processo. La unilateralità del risultato, che è di rimanere solo in questa determinazione del risultato, viene superata nel risultato stesso, nel ritornare da sé a sé, nel sapersi come ciò che è assolutamente primo»[9].

La filosofia per Hegel mostra  la ragione o il perché o la necessità logica di quei dati e di quei fatti religiosi che sono semplicemente creduti. La filosofia è l’idealismo come superamento e inveramento della religione, che corrisponde al realismo. In tal modo Hegel crede di rafforzare la fede e invece la distrugge, giacchè se so con la ragione che quel dato rivelato è vero, a che serve la fede?

Dal che noi vediamo come per Hegel non è la ragione ad essere subordinata alla fede, ma è la ragione a mostrare nel concetto la necessità logica di ciò che la fede semplicemente crede senza conoscerne il perchè. Hegel pretende di ridurre ad evidenza una verità inevidente, i cui motivi sono noti solo a Dio. È vero che esiste una scienza, la teologia, il cui compito è quello di far uso della ragione nell’indagare le verità rivelate.

Il teologo tuttavia, nel fare questo lavoro, non adduce ragioni necessitanti, ma solo motivi di convenienza, che non obbligano l’intelletto all’assenso, ma ragioni che persuadono la volontà a muovere l’intelletto ad assentire liberamente, seppur con assoluta certezza, sotto l’influsso della grazia, al dato rivelato.

È paradossale che Hegel, dichiarando di essere luterano, affermi che la sua filosofia vuol dare fondamento alla sua fede luterana. In realtà in Hegel la ragione, come in Lutero, viene contraddetta dalla rivelazione, che però a sua volta non è oggetto di fede, come in Lutero, ma della ragione.

La ragione diventa rivelazione divina, mentre la fede scade nell’immaginazione. Per Lutero la fede è al di sopra della ragione. Invece per Hegel la fede è una figura della ragione. La ragione sostiene la fede non come praeambulum fidei, ma come dimostrazione della fede. Ma che avrebbe detto Lutero?

Gentile: la filosofia come concetto assoluto dello spirito[10]

Gentile parte dall’idealismo di Berkeley[11], il quale riprende Cartesio nel suo famoso assioma, che riassume tutto il senso dell’idealismo, esse est percipi, l’essere è l’essere pensato. Se non c’è il pensiero non c’è l’essere. Quindi abbiamo la negazione di un essere extramentale, fuori del pensiero e indipendente dal pensiero.

Gentile con Berkeley confonde da buon idealista la dipendenza ontologica dell’essere con la dipendenza gnoseologica del pensare. Non si rende conto che la realtà materiale dipende da quella spirituale dal punto di vista ontologico: Dio puro Spirito crea il mondo materiale. Ma per quanto riguarda il nostro pensiero, esso dipende dalla realtà materiale esterna nel senso che la sua verità nel sapere dipende dal fatto che esso si adegua alla cosa materiale esterna e la rappresenta immaterialmente nel suo intimo così come essa è, esistente indipendentemente da lui, perché non la crea lui, ma l’ha creata Dio.

Certamente la cosa materiale nello spirito del pensante o del conoscente diventa a sua volta, in quanto rappresentata, in certo modo spirituale. Ma ciò non vuol dire che la realtà materiale non esista.  Continua ad esistere fuori dello spirito, fuori del pensante come regola di verità del pensiero del pensante.

È interessante come Kant[12] distingue il suo idealismo, che egli chiama «trascendentale» da quello di Cartesio, che egli chiama «materiale» perché dubita circa l’esistenza delle cose esterne o «problematico», perché è la sola certezza dell’io col dubbio su tutto il resto e dall’idealismo di Berkeley, che egli chiama «dogmatico» perchè dichiara impossibile l’esistenza di cose materiali extramentali riducendole a «semplici immaginazioni».

Viceversa Kant col suo idealismo vuol dimostrare che le cose materiali esterne, della cui esistenza non si può assolutamente dubitare (la «cosa in sé»),  non sono affatto semplici immaginazioni, ma esistono veramente, indipendentemente dal nostro pensiero, ma non completamente, come si dà nella concezione pienamente realistica del conoscere, per la quale la cosa è esterna non solo per la materia, ma anche non per la forma (o idea), forma che invece per Kant, come per le idee innate di Cartesio, si trova a priori ed originariamente nell’intelletto.

Infatti, per Kant, l’essenza delle cose, che pur esistono, ci sfugge e ne possediamo solo il fenomeno. E questo suo porre la forma dell’oggetto non nella cosa, ma nell’intelletto costituisce appunto, come sappiamo, l’idealismo kantiano. Il passo ulteriore verso la totale immanentizzazione dell’essere nel pensiero, che finirà per diventare produttore dell’essere, sarà compiuto da Fichte con l’eliminazione della cosa in sé.

Gentile, che ha già alle spalle non solo Fichte, ma anche Schelling ed Hegel, accusa ingiustamente il realismo, di rendere nullo il pensiero per il fatto di farlo dipendere dalla realtà esterna, mentre secondo lui il pensiero come atto del pensare è «la totalità o Realtà assoluta»[13].

Gentile distingue una «filosofia antica», che sarebbe il realismo, da lui considerato falso e superato e una «filosofia moderna», che sarebbe l’idealismo fondato da Cartesio, la vera filosofia. Egli nota che per la filosofia antica la realtà materiale è fuori del pensiero, mentre, per quella moderna la materia è materia pensata, quindi è pensiero. Ma così che cosa accade? Che da una parte la materia viene ideologizzata, mentre dall’altra lo spirito viene materializzato e confuso con la sensibilità. E quindi che cosa si risolve?

Così Gentile definisce la filosofia:

«La filosofia è il concetto assoluto dello spirito o il concetto dello spirito assoluto; è lo stesso oggetto che la filosofia vedrà in una forma assoluta, guardato da un punto di vista relativo; sicchè la vera assolutezza, dovendo essere la risoluzione della relatività, non potrà ammettere una relatività accanto a sè»[14].

Questo è ancora il concetto hegeliano della filosofia. Con Heidegger, Husserl e Bontadini la filosofia diventa esperienza. Con Husserl diventa fenomenologia. Partendo da Parmenide abbiamo un rinnovato interesse per l’essere, ma sempre in chiave idealistica, ossia dell’identità del pensare con l’essere o dell’autocoscienza cartesiana.

Dopo Gentile, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso l’idealismo assume una nuova veste: abbandona il concetto hegeliano del filosofare come Concetto assoluto o Idea assoluta e per opera di Husserl ed Heidegger, l’idealismo cambia veste ed impostazione. Si congiunge in Jaspers con l’esistenzialismo. Senza abbandonare il suo assunto di fondo dell’identità del pensiero con l’essere, esso sposta la sua attenzione dal pensiero all’essere, ma si tratta sempre dell’essere-pensato-da-me, dell’essere-che-sono-io di origine cartesiana.

Ma il ritrovamento heideggeriano dell’essere non ha nulla a che vedere con l’esse di San Tommaso. È l’essere parmenideo. Per questo Heidegger inventa la distinzione fra «ontico» o «esistentivo» ed «ontologico» o «esistenziale», che ribadisce il primato dell’idealismo (ontologico) sul realismo (ontico) e parla di un «superamento della metafisica», che però non ha nulla a che vedere col superamento della filosofia nella teologia, o della ragione nella fede, ma al contrario si tratta di una ripresa della gnosi hegeliana della superiorità della filosofia sulla religione.

Il nuovo idealismo, dunque, accantonando se non proprio affettando disprezzo per il concetto e per l’idea, mette in primo piano e pone come prima istanza del filosofare la prestigiosa categoria dell’esperienza. Cartesio resta sempre nello sfondo, ma è rivisitato alla luce dell’esperienza: il cogito che cosa è, se non l’esperienza del mio io o del mio esistere? Dunque ecco l’esperienza del sé, proveniente dall’induismo, l’esperienza religiosa di William James, l’esperienza o intuizione dell’essenza (wesenschau) in Husserl (il «vissuto», erlebnis), l’esperienza atematica trascendentale dell’essere in Heidegger, Schillebeeckx, Rahner, Lotz, Severino e Barzaghi.

Questa esperienza è chiamata «pensiero», ma pensiero atematico e preconcettuale, che si esprime o traduce nei concetti, i quali però interpretano l’esperienza non in maniera riproduttiva o rappresentativa, ma solo simbolica o indicativa o metaforica.

Appaiono quindi di nuovo i due piani del filosofare relativi alla polemica contro il realismo. Solo che questa volta gli idealisti dichiarano la loro superiorità sui realisti non vantando il possesso del Concetto assoluto come faceva Hegel ma il possesso di un’esperienza originaria preconcettuale dell’Assoluto, che si esprime bensì concettualmente sul piano del realismo, ma togliendo al realismo ogni pretesa di conoscere Dio mediante i concetti e quindi i dogmi del cristianesimo.

Nell’ambito di queste considerazioni dobbiamo quindi distinguere tre tipi di rapporto del concetto con l’esperienza: esiste un’esperienza sensibile dalla quale ricaviamo il concetto. Esiste un concettualizzare Dio che conduce all’esperienza mistica ed esiste un’esperienza mistica che si esprime in concetti.

Invece l’idealismo che oggi pretenderebbe di presentarsi come esperienza mistica, rovescia l’ordine del sapere: parte da un’inesistente esperienza mistica di Dio preconcettuale, volentieri da lui chiamata «esperienza trascendentale». Questa esperienza verrebbe poi espressa nei concetti. E questo sarebbe il conoscere. Tuttavia questi concetti non sono vere rappresentazioni del reale, ma semplici simboli convenzionali, che non rappresentano il reale ma solo lo indicano.

Oggi questo nuovo tipo di idealismo sostiene che quando tentiamo di far uso dei concetti per definire la natura di Dio, essi cadono in contraddizione fra di loro, per cui siamo posti davanti ad una scelta: o parliamo di Dio in modo contradditorio, come fanno Dionigi l’Areopagita, Cusano, Lutero, Böhme, Hegel. Oppure tacciamo del tutto come suggeriscono Heidegger e Rahner.

Mentre Lutero. Hegel e Gentile mostrano disprezzo per la mistica, l’attuale idealismo esistenzialista e fenomenologico si presenta addirittura come mistica e quasi abbandona il concetto di filosofia, ma è chiaro che si tratta di una falsa mistica, di un’esperienza puramente psicoemotiva, dal momento che non è un’illuminazione basata su concetti di fede, ma la pretesa di un’autocoscienza originaria, sempre in linea col cogito di Cartesio.

Il realismo marxista

All’apparire dell’idealismo cartesiano, i tomisti non mancarono di confutarlo, tanto che nel 1663 la Congregazione dell’Indice mise all’indice le opere di Cartesio. Il più importante avversario tomista di Cartesio del sec. XVII fu il Domenicano spagnolo Giovanni di San Tommaso, che non affrontò direttamente Cartesio, ma ci ha lasciato una ragionata esposizione del realismo gnoseologico, in particolare della dottrina del concetto, di una tale lucidità e rigore scientifico, che bastava per avere in mano il criterio sufficiente per confutare gli errori di Cartesio.

Ma è molto interessante il poderoso richiamo al realismo fatto nel sec. XIX contro Hegel da un pensatore vigoroso, che aveva conosciuto a fondo il pensiero di Hegel e che volle confutarne l’idealismo appunto in base al realismo. Questo pensatore è Karl Marx. È rimasto famoso il suo programma filosofico: Hegel aveva esposto la realtà in modo rovesciato, con i piedi in alto e la testa in basso. Marx la volle riportare con i piedi in basso e la testa in alto. Che cosa intese dire? Volle ricordare che non è la realtà che dipende dalla coscienza, ma è la coscienza che nel conoscere, dipende dalla realtà e deve rispecchiare la realtà. La frase in sé aveva tutto il sapore di un ritorno al realismo ed effettivamente lo fu.

Senonchè però questo «dipendere» Marx non lo intese solo in senso gnoseologico, ma anche ontologico ed inoltre per «realtà» intendeva la realtà materiale. Così la conclusione a cui giunse è che non è la materia a dipendere dallo spirito, ma è lo spirito a dipendere dalla materia.

Inoltre Marx non riuscì a sganciarsi del tutto dall’idealismo cartesiano che era presente in Hegel. La differenza da Cartesio è che Marx all’io cartesiano sostituisce il noi. Cioè, se Cartesio parte da un’autocosienza singola o individuale (il suo io), Marx parte da un’autocoscienza collettiva (la «coscienza di classe»).

L’individuo per Marx esaurisce il suo essere nell’essere sociale e quindi non vale per se stesso come persona o sostanza, ma vale solo in quanto in lui c’è l’uomo o l’umanità, il genere umano o l’essere del genere, il Gattungswesen, come lo chiama Marx, che ha coscienza di sé stesso, e – si badi bene - sempre come essere assoluto, giacchè per Marx «l’uomo è Dio per l’uomo».

Seguendo lo schema della dialettica hegeliana, Marx concepisce l’uomo come autoposizione (tesi), che nega o aliena se stessa (antitesi) e per questo suo autonegarsi in quanto negazione di sé, si ricostituisce e torna a se stessa (sintesi). È lo stesso schema di Fichte: io, non-io, non-non-io.

Come si sa, Marx applica poi questo schema al divenire storico-sociale: l’essere umano, il Gattungwesen, alienato nella classe operaia dalla sua essenza umana a causa dell’oppressione capitalistica – l’antitesi, il non-io fichtiano - recupera la sua essenza mediante la lotta di classe («negazione della negazione»), che, abbattendo la società borghese, fa tornare così l’umanità a sé stessa. 

È chiaro che in questa visione dell’uomo come essere sussistente (come ipsun esse, direbbe San Tommaso) non c’è spazio per Dio, ma l’uomo prende il posto di Dio. La liberazione dell’uomo non è effetto della grazia divina, ma di un semplice processo logico e necessario, anche se Marx lo vedeva ad un tempo libero e volontario. Ma questa visione dell’uomo è esattamente quella che deriva dall’io cartesiano attraverso gli sviluppi dell’idealismo hegeliano.

Come per Hegel, al fine di conoscere la verità assoluta non è necessaria né sufficiente la religione, ma occorre e basta la filosofia, così similmente per Marx, ai fini della liberazione dell’uomo non è necessaria la religione, ma è dannosa, ma occorre ed è sufficiente la politica.

Per questo, bisogna dire che in fin dei conti il realismo marxista non è un vero, coerente e compiuto realismo, ma un atteggiamento astuto ed opportunistico col quale ora si afferma la verità, ora si fa dire alla realtà quello che si vuole a seconda delle convenienze.

Da qui noi vediamo come il realismo marxista comporta solo una veracità di comodo o di circostanza, perché si risolve ad essere niente più che la riproposizione dell’idealismo prassistico fichtiano, con la sola differenza che Marx sostituisce all’io fichtiano il noi come coscienza di classe, liberatrice nel Partito Comunista dell’essenza umana ingannata dalla religione ed alienata da dall’oppressione capitalistico-borghese. Si tratta di quella classe lavoratrice che come essere del genere rappresenta l’umanità intera che libera se stessa dall’alienazione che essa ha posto nell’autoaffermazione di sè (non-io fichtiano) e che successivamente toglie recuperando la propria essenza originaria mediante l’instaurazione rivoluzionaria della società comunista.

Per capire allora veramente che cosa è il realismo marxista bisogna tener presente che esso intende il rapporto della coscienza alla realtà secondo due direzioni reciprocamente o dialetticamente opposte, che dipendono dal fatto che Marx non abbandona del tutto la concezione idealistica del pensiero, che, come abbiamo già visto in Kant, è inteso come un fare. L’identificazione dell’intelletto con la volontà è già presente nel cogito cartesiano, il quale, come ha notato acutamente Fabro, è sostanzialmente un volo, perché Cartesio non intende la certezza come un arrendersi alla verità, ma come effetto di una decisione della volontà: il dubbio resta, ma decido di non dubitare.

Fichte accoglie questa gnoseologia volontarista, sicchè questa impostazione pragmatica appare chiaramente nel suo idealismo, per il quale la verità non emerge dall’intelletto, ma dalla prassi[15]. Marx, nella sua famosa Tesi XI su Feuerbach si ispira evidentemente a Fichte quando afferma che «i filosofi finora hanno contemplato il mondo. Ma quello che conta è trasformarlo». Così il concetto marxista del lavoro non ha un senso solo economico, ma anche metafisico: è l’atto col quale l’uomo pone fichtianamente il proprio essere.

Ponendosi contro di sé nel momento dell’alienazione, l’uomo torna a sé, ossia restituisce la propria essenza alienata alla propria esistenza e riconcilia sé con sé. È lo schema hegeliano applicato alla liberazione sociale dell’uomo. Questa concezione dell’uomo come volontà di potenza la ritroveremo poi in Nietzsche.

Per questo il realismo marxista non è relazionista come quello aristotelico, ma dialettico come quello hegeliano; cioè non si dà una relazione del pensiero all’essere, ma un rapporto reciproco, appunto dialettico. La verità è la sintesi di queste due direzioni opposte: la relazione del pensiero all’essere e dell’essere al pensiero. Ora è vero che San Tommaso sembra avere una definizione simile della verità quando egli afferma che è l’adaequatio intellectus et rei, ma Tommaso distingue la verità speculativa come dipendenza del pensiero dall’essere dalla verità pratica come dipendenza dell’essere dal pensiero, mentre Marx con Fichte fa dipendere la stessa verità speculativa dalla prassi. La verità non è un dato di fatto, ma ciò che il Partito Comunista decide essere la verità per gli interessi del Partito.

Fine Quarta Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 ottobre 2025

 

Hegel rimprovera all’Assoluto di Schelling proprio questa mancanza di determinatezza e differenziazione… rimprovera Schelling di non essere riuscito ad esprimere l’Assoluto nel concetto, nel ragionamento, nel contenuto necessario ed universale, opera della ragione e della scienza, opera propria della filosofia. Diversamente, osserva Hegel, si esce dal campo della logica e della ragione, quindi ci si aggira nella nebbia della sensazione individuale, dell’emotività, dell’immaginazione, del mito, della poesia, non del sapere e della verità.

Gentile con Berkeley confonde da buon idealista la dipendenza ontologica dell’essere con la dipendenza gnoseologica del pensare. Dopo Gentile, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso l’idealismo assume una nuova veste: abbandona il concetto hegeliano del filosofare come Concetto assoluto o Idea assoluta e per opera di Husserl ed Heidegger, l’idealismo cambia veste ed impostazione. Si congiunge in Jaspers con l’esistenzialismo. Senza abbandonare il suo assunto di fondo dell’identità del pensiero con l’essere, esso sposta la sua attenzione dal pensiero all’essere, ma si tratta sempre dell’essere-pensato-da-me, dell’essere-che-sono-io di origine cartesiana. Ma il ritrovamento heideggeriano dell’essere non ha nulla a che vedere con l’esse di San Tommaso. È l’essere parmenideo.

Ecco l’esperienza del sé, proveniente dall’induismo, l’esperienza religiosa di William James, l’esperienza o intuizione dell’essenza (wesenschau) in Husserl (il «vissuto», erlebnis), l’esperienza atematica trascendentale dell’essere in Heidegger, Schillebeeckx, Rahner, Lotz, Severino e Barzaghi.

E’ molto interessante il poderoso richiamo al realismo fatto nel sec. XIX contro Hegel da Karl Marx. È rimasto famoso il suo programma filosofico: Hegel aveva esposto la realtà in modo rovesciato, con i piedi in alto e la testa in basso. Marx la volle riportare con i piedi in basso e la testa in alto. Però questo «dipendere» Marx non lo intese solo in senso gnoseologico, ma anche ontologico ed inoltre per «realtà» intendeva la realtà materiale. Così la conclusione a cui giunse è che non è la materia a dipendere dallo spirito, ma è lo spirito a dipendere dalla materia.

Immagine da Internet: D' iniziale in un salterio francese. John Paul Getty Museum, Los Angeles



[1] La dialettica, Editrice La Scuola, Brescia 1960, pp. LXXXII-LXXXIII.

[2] Lezioni sulla storia della filosofia, op.cit.,vol.I, pp.384-385.

[3] Una buona critica ad Hegel si trova in Maritain in La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Editrice Morcelliana, Brescia 1971, pp.149-248.

[4]Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, pp.515-516.

[5]Ibid., p.511.

[6] Ibid., p.517.

[7] Ibid.,p.518.

[8] Lezioni sulla filosofia della religione, p.88-89.

[9] Ibid., p.89.

[10] Una buona critica all’idealismo gentiliano è contenuta nel libro del Domenicano Mariano Cordovani, che fu teologo personale del Papa («Maestro del Sacro Palazzo») all’epoca di Pio XI e Pio XII: Cattolicesimo e idealismo, Società Editrice Vita e Pensiero, Milano 1928. Altra buona critica è quella del Domenicano Angelo Zacchi: ll nuovo idealismo italiano di B. Croce e G. Gentile, Francesco Ferrari Editore, Roma 1925. Il prestigio che l’idealismo tedesco si acquistò in Italia in quegli anni per mezzo dell’opera di Gentile favorì certamente la sciagurata alleanza dell’Italia col nazismo, che si sarebbe verificata negli anni successivi.

[11] Teoria generale dello spirito come atto puro, Edizioni Bompiani, Milano 2015, pp.77-80.

[12] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.234.

[13] Teoria generale dello spirito, op.cit., p.80.

[14] La religione, Sansoni Editore, Firenze 1965, p.259.

[15] Vedi Marco Ivaldo, Libertà e ragione. L’etica di Fichte, Edizioni Mursia, Milano 1992.

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