Chiunque è dalla verità ascolta la mia parola (Gv 18,37) - Prima Parte (1/3)

 

Chiunque è dalla verità ascolta la mia parola (Gv 18,37)

Prima Parte (1/3)

Ringraziamento a Dio per lo scampato pericolo

Giunto alla mia età di 84 anni mi accorgo di aver speso tutta la mia vita nella volontà di conoscere la verità e di metterla in pratica. Quando ero al liceo, nel lontano 1957, ricordo che il mio insegnante di italiano, un certo Franco Mollia un giorno in classe enunciò solennemente che «la verità non esiste» e che non ci sono verità definitive, ma che esiste solo il vero, secondo l’insegnamento di Gianbattista Vico, verum ipsum factum, il vero è ciò che ha fatto l’uomo, ciò che noi stessi facciamo. Non esistono verità sovrastoriche, ma soltanto la verità dei fatti storici.

Ricordo che queste tesi mi turbarono profondamente, sentii una profonda ripugnanza ad accettarle, rimasi sconcertato e scandalizzato, anche perchè mi venne il dubbio terribile che Mollia potesse aver ragione. Seppi poi che queste erano anche le tesi di Benedetto Croce, che allora aveva fama di grande maestro e filosofo.

Queste tesi apparvero in profondo contrasto col modo di pensare che mi era abituale, e che fino ad allora vivevo nel mio ambiente familiare e parrocchiale e nella scuola che avevo frequentato fino ad allora. Nessun dubbio che esistesse la verità. Il problema era solo quello di conoscerla, di metterla in pratica e di non mentire, di non sbagliarsi, di essere modesti nei giudizi, di sapere chi aveva ragione nelle discussioni.

Mi accorsi subito però che Mollia si contraddiceva, giacchè se sosteneva che la verità non esiste, era obbligato a dar per vero che la verità non esiste. Si confutava da solo, giacchè era costretto a negare la verità in nome della verità. Mi piaceva il fatto che almeno ammettesse l’esistenza del vero, della verità concreta.

Tuttavia, mi domandavo, come facciamo a dire: questo è vero se non in nome della verità? Ragionavo come Socrate e Platone: se c’è il vero è perché c’è la verità. Se non esistesse la verità, non esisterebbe neppure il vero, perché il vero ne è una partecipazione o applicazione. La verità astrae da tutti i veri e li include tutti. Se essi non fossero nell’orizzonte della verità, neppure essi esisterebbero. Quindi Mollia non era capace di dar ragione della sua ammissione dell’esistenza del vero, negando ciò che gli serviva per sostenere la verità della sua tesi.

Inoltre, se una cosa è vera, lo è per sempre. Non è possibile che ciò che ieri era giudicato vero, oggi possa essere giudicato falso. O ci si sbagliava ieri o ci si sbaglia oggi. Ma la verità in se stessa, è sempre quella. La verità è al di sopra del tempo, del divenire e della mutevolezza. Nessun dubbio che esistano cose mutevoli. Solo che in questo caso il nostro giudizio, proprio per essere vero, deve mutare per seguire e riflettere il mutare della cosa. Ma anche questo giudizio, se è vero, lo è per sempre.

Il mio dramma interiore aumentò quando mi imbattei in Cartesio presentato come il fondatore della filosofia moderna e mi accorsi invece di tutte le sue assurdità: dubitare della veracità dei sensi e dell’esistenza delle cose esterne, confondere il mio io col mio atto di pensare, dubitare dell’indubitabile, dire che io penso senza precisare a che cosa penso, confondere il mio pensare col mio essere, risolvere il dubbio non con l’intelligenza ma con la volontà, sostituire l’intelletto con la volontà,  prendere ad oggetto della metafisica l’autocoscienza anziché l’ente, far precedere l’autocoscienza alla conoscenza delle cose, anziché il contrario, far precedere la conoscenza di Dio a quella delle cose, anziché l’inverso, pretendere di possedere un’idea innata di Dio, anziché dimostrare l’esistenza di Dio partendo dalle cose, far dipendere la verità non dall’adeguazione dell’intelletto alla realtà, ma dalla decisione della volontà.

Dio volle che in quel medesimo liceo, nel quale il diavolo mi aveva posto sulla graticola, ricevessi luce, chiarezza, conforto, consolazione e forza immensa da un santo sacerdote, la cui memoria è in benedizione, lo stesso insegnante di religione, Don Giovanni Buzzoni, tomista maritainiano. Che sollievo! Che consolazione! Quale certezza! Quale senso della mia fallibilità, modestia nelle opinioni e coraggio nel diffondere e difendere la verità! Era il germe della vocazione domenicana che avrei realizzato quindici anni dopo nel 1971, entrando nel convento domenicano di Bologna.

Potrei definire il mio incontro con Don Buzzoni come esperienza battesimale; dalle tenebre e dalla frode di Mollia e di Cartesio alla luce di San Tommaso, di Maritain e del Vangelo, dalla tentazione alla superbia e all’ipocrisia al richiamo all’umiltà e all’onestà, dal ripiegamento sul mio io all’incontro con Dio, dal nichilismo al gusto per l’esistenza, dalla chiusura su me stesso all’apertura verso la realtà, dalla disperazione alla speranza, dalla perdita di me stesso alla coscienza della mia dignità, dalla soggezione a Satana alla libertà del figlio di Dio.

Compresi che il problema della verità è una questione di limpidezza d’animo, di umiltà, di fedeltà, di sincerità, di obbiettività, di prudenza, di onestà e di coerenza, rifiutando la superbia, l’arroganza, la passionalità, la protervia, la faziosità, la menzogna, l’astuzia, la doppiezza e l’ipocrisia.

Il problema adesso, tale da occupare tutta una vita, non era più se esiste la verità, ma cosa è la verità, come la si trova, dove e da chi la si impara, come la si esprime, come la si conserva, come la si approfondisce, come la si comunica, come la si annuncia, come la si difende, come la si dimostra, come la si mette in pratica.

La domanda di Pilato

Gesù spiega a Pilato in che senso egli è re: re di un regno che non è di questo mondo, per cui non è venuto a contrastare il suo, anche se precisa che la sua autorità gli è stata data dall’alto. Ma qual è quel re o sovrano che dichiara che il suo ufficio è quello di rendere testimonianza alla verità (cf Gv 18,37)?

Che cosa capisce Pilato? Egli, nel sentire queste parole di Gesù, rimane certamente stupito e chiede a Gesù che cosa è la verità. Ma con che tono lo fa? Probabilmente non con sincerità d’intenzione, perché diversamente Gesù, nonostante la drammaticità della circostanza, si sarebbe fermato a dargli spiegazioni.

Ma il fatto che Gesù taccia è una lezione per noi e ci fa comprendere che la domanda di Pilato, benché in se stessa importantissima, non era quella di chi desidera sapere, ma quella ironica di uno scettico, il quale pensa che non abbia risposta, come a dire: la verità non esiste.

Ma allora un simil modo di domandare non merita risposta, perché chi domanda ha già pronta la risposta. La domanda di Pilato sa quindi di rimprovero a Gesù, come a dire: sei così ingenuo da credere ancora nella verità? Pilato è un precursore del prof. Mollia. È la domanda di chi è in malafede e non ama la verità o dispera di trovarla. A una persona simile non conviene rispondere. Anche mettendolo con le spalle al muro, il suo orgoglio rifiuterebbe l’evidenza, gl’impedirebbe di riconoscere il suo torto e di ascoltare ed accettare la risposta.

Ma ci sorprende il commento di Pilato: «non trovo in lui nessuna colpa» (ibid.). Che cosa intende dire? Probabilmente Pilato non vuole esprimere ammirazione per l’innocenza di Gesù. Altrimenti non gli avrebbe fatto quella domanda ironica, ma lo considera un povero minorato mentale o un visionario o un esaltato, per nulla pericoloso per il suo potere. O al massimo lo considera un povero buon uomo, un bunòm, come dicono i piemontesi, ma non gli viene assolutamente in mente l’idea o il sospetto di trovarsi davanti ad un uomo mediatore del divino, come tanti invece lo consideravano. Né Gesù in quella circostanza compie qualche miracolo.

Che cosa è la verità?

Se consultiamo certi dizionari biblici sotto la voce VERITA’, proviamo una penosissima impressione per l’attenzione assolutamente insufficiente e il miserevole spazio di due o tre pagine dato al fondamentale e gigantesco tema biblico della verità, attorno al quale gira tutta la divina rivelazione, tutto il destino del popolo ebraico, delle religioni e dell’umanità, tutto il senso e lo scopo della Sacra Scrittura, della storia della salvezza e la storia della Chiesa, tutta la predicazione, la formazione, l’etica, la filosofia, la teologia, la letteratura, l’arte, la vita, la santità e la mistica cristiane.

Prendiamo ad esempio l’autorevole Enciclopedia della Bibbia, edita in sei grossi volumi da Elle Di Ci e Torino Leumann nel 1971, opera eruditissima e ricchissima di dati storici e positivi geografici, toponomastici, sociologici, religiosi, etnici, cosmologici, archeologici, biografici, artistici, filologici e giuridici, ma carente per quanto riguarda l’informazione circa i concetti antropologici, psicologici, morali, sapienziali e teologici.

Alla voce VERITA’ troviamo le seguenti parole:

«Secondo i Greci, la cui concezione è da noi condivisa, la verità consiste nella conformità del pensiero o della parola con la realtà; e anche l’essere stesso in quanto si rivela allo spirito (a-lethès), “non occulto”; per questo l’Essere supremo è la suprema verità. La concezione ebraica della verità invece è molto diversa; è esistenziale, in quanto si basa fondamentalmente sull’esperienza».

Osserviamo che la nozione di verità è una nozione spontanea della mente. Pertanto tale nozione è presente nella sacra Scrittura. Non esiste uno specifico concetto biblico di verità. La Scrittura semplicemente suppone questa nozione universale, propria della ragione naturale, greca o ebraica o semitica che sia.

È vero che il termine ebraico emet esprime etimologicamente l’idea di fermezza, saldezza, stabilità, fedeltà, mentre è il termine greco alétheia che suggerisce l’idea della non-latenza e quindi del manifestarsi, dell’apparizione e del rivelarsi. Ma anche la Scrittura concepisce la verità come rivelazione, apokàlypsis, da cui apocalisse, mentre il vero può essere anche il nascosto, il mistero, il segreto.

L’etimologia ebraica di verità suggerisce l’idea di verità come ciò che dà sicurezza, ciò di cui ti puoi fidare, ciò che non t’inganna, ciò che ti rende stabile, ciò su cui ti puoi appoggiare, ciò che non crolla, che non si corrompe, ma permane in eterno. Possiamo pensare all’immagine della roccia, della luce o del cielo stellato. È un’idea di verità chiaramente legata all’essere, alla realtà, alla persona, più che l’idea greca della svelatezza, che indica un rapporto a noi. Sono tutti attributi divini e c’è anche un interesse nostro, anche se nobile, qual è quello del vedere e sapere.

Quanto alla tesi secondo cui la «concezione ebraica della verità è esistenziale e si basa fondamentalmente sull’esperienza», possiamo dire che è giusta, ma che è insufficiente, perché la verità è anche connessa con la questione dell’essenza e non si basa solo sull’esperienza, ma anche sul ragionamento.

Dobbiamo dire allora che qui il redattore della voce dell’Enciclopedia lavora di fantasia. Basta leggere la Scrittura e rendersi conto della parzialità della sua tesi. La mente dell’agiografo funziona come la mente di qualunque persona ragionevole, ebrea o non ebrea che sia, per la quale la verità non ha a che fare solo con l’esistenza, ma anche con l’essenza, non solo con l’esperienza, ma anche con la ragione, non solo con le cose umane, ma anche con la realtà divina.

L’errore di questi dizionari è dato dal fatto che non si rendono conto dell’universalità della nozione di verità. Trattano di questa nozione basilare della mente come se fosse una particolarità etnica o linguistica. Ora bisogna dire che non esiste un modo proprio, greco o ebraico o semitico di concepire l’essenza della verità, diverso l’uno dall’altro, così come esistono vocaboli diversi per esprimere il concetto di verità, così come non esiste un modo greco o ebraico o semitico di fare i conti della spesa o di calcolare l’altezza di una montagna.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 21 aprile 2025


 

Gesù spiega a Pilato in che senso egli è re: re di un regno che non è di questo mondo, per cui non è venuto a contrastare il suo, anche se precisa che la sua autorità gli è stata data dall’alto. Ma qual è quel re o sovrano che dichiara che il suo ufficio è quello di rendere testimonianza alla verità (cf Gv 18,37)?

Che cosa capisce Pilato? Egli, nel sentire queste parole di Gesù, rimane certamente stupito e chiede a Gesù che cosa è la verità. Ma con che tono lo fa? Probabilmente non con sincerità d’intenzione, perché diversamente Gesù, nonostante la drammaticità della circostanza, si sarebbe fermato a dargli spiegazioni.


Immagine da Internet:
- "Che cos'è la verità", Gesù e Pilato, Nikolaj Ge, Mosca

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