Dalla ragione alla fede e dalla fede alla ragione
In margine ad alcuni Discorsi del Papa
Prima Parte (1/2)
La via di Sant’Agostino e la via di San Tommaso
Il Santo Padre dall’inizio del suo Pontificato ha già indirizzato tre Discorsi[1] a partecipanti a Convegni internazionali di filosofia o teologia trattando del rapporto tra fede e ragione con particolare riferimento alla differenza fra la teologia di Sant’Agostino e quella di San Tommaso.
Ma chiediamoci anzitutto che cosa hanno essi in comune: l’ identica stima per la verità, la certezza, la ragione, la ricerca, la discussione, la scienza, la filosofia, il progresso del sapere, la libertà di pensiero, la sapienza; entrambi distinguono l’idea umana, rappresentazione della realtà dall’idea divina, modello della realtà; entrambi accolgono il realismo gnoseologico, l’identica fede cattolica, l’identica soggezione al Magistero della Chiesa cattolica, l’ identico odio per lo scetticismo, l’agnosticismo, la protervia, il relativismo , il dubbio sistematico, la presunzione, lo spirito di contraddizione, la doppiezza, la finzione, la simulazione, la sofistica, l’ipocrisia, il fideismo, il razionalismo, lo gnosticismo, l’idealismo.
Diversamente invece Tommaso ed Agostino impostano il problema della verità. Entrambi sono dei grandi innamorati della verità, non hanno dubbi circa l’esistenza della verità e la possibilità di conoscerla. Entrambi sanno che la beatitudine dell’uomo dipende dalla conoscenza della verità. Tuttavia differente è il loro modo di concepirla: per Tommaso la verità è relazione fra due termini: l’intellectus e la res. Per Agostino la verità è innanzitutto la stessa realtà: la verità dell’essere. Tommaso vede la verità anzitutto nel giudizio, nel pensiero. Per Agostino la verità è la cosa vera, intellegibile. Ad Agostino interessa conoscere la verità; a Tommaso, conoscere la realtà. Per Agostino la verità è criterio di giudizio; per Tommaso è atto del giudizio.
Il Papa ci ha mostrato come i due grandi Dottori della Chiesa costituiscono il paradigma delle due possibili impostazioni del rapporto tra fede e ragione, le quali impostazioni corrispondono al diverso metodo di Agostino e Tommaso.
Mentre infatti la sapienza agostiniana esalta il valore della fede come luce che illumina e guida la ragione (credo ut intelligam, come dice lo stesso Agostino) ed eccelle nella teologia sapienziale ed affettiva, frutto della carità, orientata dal dono della sapienza, la sapienza tomista eccelle nella teologia speculativa ed argomentativa orientata dal dono dell’intelletto.
Mentre nella sapienza speculativa è sufficiente la virtù dell’intelletto educato dalla filosofia, l’esercizio della sapienza mistico-pastorale, come ha sottolineato il Papa, è impossibile se essa non è effetto della carità[2]. Invece Tommaso è Dottore Comune della Chiesa nel campo della sapienza speculativa, giacchè egli è stato un semplice maestro di teologia, per cui Tommaso primeggia in quella sapienza teologica che è la teologia scolastica, funzionale alla formazione del clero e dei dottori in teologia.
Per quanto riguarda l’esistenza cristiana, i due Dottori fanno un cammino inverso l’uno rispetto all’altro: l’uno parte da dove l’altro è arrivato e viceversa. Facciamo tre esempi. La concezione dell’uomo, della morale e della libertà. Per quanto riguarda la questione della natura umana, Tommaso la considera in se stessa universalmente come animalità ragionevole (fondando il concetto di fratellanza universale o uguaglianza umana) e vi aggiunge la considerazione cristiana della condizione di fatto della natura in grazia, peccatrice e redenta.
Agostino invece, parte dalla considerazione della natura come si trova di fatto, storicamente, in grazia o senza grazia e alla luce di questa visuale di fede illumina il concetto della natura umana, animalità ragionevole.
Nella morale Tommaso parte dalle virtù naturali e vi aggiunge la carità. Agostino parte dalla considerazione della carità e considera le virtù umane come diversi modi di praticare la carità. Da qui il suo motto famoso: «ama et fac quod vis».
Tommaso parte dalla considerazione del libero arbitrio come libertà di fare il bene e aggiunge ad esso la libertà cristiana come liberazione dal peccato e libertà dei figli di Dio, mossi dallo Spirito Santo. Agostino parte dalla considerazione della libertà cristiana come dono della grazia e passa a considerare il libero arbitrio come mosso dalla grazia. È chiaro comunque che sul primato assiologico dell’umanesimo cristiano su quello naturale, sul primato della carità, sulle virtù umane e il primato della libertà cristiana su quella naturale sono perfettamente d’accordo.
Un punto importante di confronto fra Agostino e Tommaso è la questione importantissima della beatitudine. Agostino parla con chiarezza del fatto che solo in Dio l’uomo trova la sua pace, il suo sommo bene e la sua beatitudine, ma tale possibilità di vedere Dio non è scoperta dalla semplice ragione e quindi non è effetto delle forze della natura, ma della grazia e della carità.
Noi, una volta viventi nella vita cristiana, possiamo e dobbiamo meritare il paradiso; ma il nostro stesso merito, dice l’Ipponense, è dono della grazia. In Agostino, quindi, non è chiaro del tutto come il vedere Dio sia dono della grazia basato sull’accettazione della rivelazione e ad un tempo come questo desiderio di possedere Dio si trovi in noi.
Tommaso chiarisce distinguendo in noi una felicità o fine ultimo naturale esigito dalle forze della ragione, per la quale possiamo contemplare, come già aveva prospettato Aristotele, nei concetti la natura della causa prima, da una felicità soprannaturale, la beatitudine vera e propria, che va oltre all’esigenza della natura, la quale potrebbe essere felice lo stesso, ma che risponde a un desiderio acquisto per fede, un desiderio soprannaturale, che nasce dal sapere per fede che come figli di Dio, Dio ci vuole con Lui in paradiso nella visione del mistero trinitario.
Per questo, quel fine che prima di giungere alla fede era una semplice possibilità, da noi neppure immaginata, che suppone, dice Tommaso, nella natura una «potenza obbedienziale», una volta giunti alla pratica della vita cristiana, il conseguimento della visione beatifica diventa un’esigenza, un bisogno, per cui il conseguimento di tal fine diventa addirittura il premio a noi dovuto delle nostre fatiche.
Pieno accordo fra Agostino e Tommaso troviamo circa la fondamentale distinzione fra il bene e il male. Tommaso accoglie la proposta agostiniana, di sapore platonico, di considerare il bene, come causa finale, anche al di sopra dell’essere. In entrambi il male è visto chiarissimamente non come una sostanza ma una privatio boni debiti. Siccome quindi il male suppone il bene, l’esistenza del male, ben lungi da giustificare l’ateismo, dimostra l’esistenza di Dio. Comune poi in essi è la distinzione fra male di colpa - il peccato - e male di pena - il castigo e la sofferenza. I beati sono i beneficiari della misericordia; i dannati sono colpiti dalla giustizia.
Dio permette il male in vista di un maggior bene. Predestina al paradiso ma non all’inferno. Invano i luterani e i calvinisti vorrebbero avallare la predestinazione all’inferno con l’autorità di Agostino, mentre i giansenisti vorrebbero falsamente appoggiarsi ad Agostino per dire che Cristo non è morto per tutti ma solo per gli eletti.
L’Agostino giovane, ancora influenzato dal manicheismo e ferito dall’esperienza del peccato, fatica a vedere la bontà del corpo, del sesso, dei sensi e delle passioni. Ma quello maturo, lungamente nutritosi della sapienza biblica, vede con serenità la congiunzione del senso con l’intelletto, delle passioni con la volontà, del corpo con l’anima, della carne con lo spirito[3].
La via agostiniana verso Dio.
Mentre Tommaso rifugge dal parlare di sé, nella sapienza agostiniana il riferimento all’io ha un valore fondamentale per l fatto che Agostino giunge alla certezza dell’esistenza della verità riflettendo sul fatto che, anche se dovesse dubitare di tutto o si sbagliasse su tutto, una cosa almeno è certa, ossia il fatto che egli esiste.
Questo procedimento potrebbe sembrare simile a quello di Cartesio, ma in realtà non è così: Cartesio dubita positivamente della veracità dei sensi - cosa che Agostino non fa - ed arriva al dubbio universale, ma egli propone la certezza non prendendo coscienza di esistere, come fa Agostino, ma di pensare, che è lo stesso dubitare in universale. Per questo Cartesio non giunge come Agostino ad una vera certezza che vincola l’intelletto alla verità, ma giunge ad una certezza voluta, per la quale la volontà dà per certo ciò che resta dubbio, riservandosi la facoltà di mettere in dubbio ciò che è certo.
Quanto a Tommaso, prende anche lui in esame l’ipotesi del dubitare di tutto, ma la scarta subito vedendo che tale dubbio non può essere esercitato. Piuttosto egli trova la verità nella percezione dell’ente, che non può essere e non essere simultaneamente. Tommaso parla poi di Dio come di Colui Che è, sullo stile dei libri sapienziali della Scrittura. Invece Agostino preferisce rivolgersi direttamente a Dio come il Salmista. Per questo, per lui Dio non è preferibilmente un Egli, ma un Tu.
Tutta la vita spirituale per Agostino si può risolvere nel mio rapporto con Dio. Il che non toglie ad Agostino un fortissimo amore per il prossimo ed un esemplare senso della comunione ecclesiale, ma solo in quanto basati su questo rapporto personale con Dio.
Invece Tommaso è più attento alla mediazione fra l’io e Dio costituita dalla natura esterna e dalla società umana. Naturalmente, come ho detto, Agostino ha vivissimo il senso della comunione ecclesiale, più ancora di Tommaso. Ma non ha così chiari come Tommaso i valori e l’importanza della socialità umana naturale. Il rischio di Agostino è quello di un certo intimismo; quello di Tommaso, di un certo socialismo.
È interessante il fatto che Agostino ritenga che per essere convinti dell’esistenza di Dio occorre fare un atto di «fede»[4] in questa stessa esistenza. Su questa base, poi, secondo lui è possibile e doveroso dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio. È chiaro che questa fede - ed Agostino lo sa benissimo - nulla ha a che vedere con la virtù soprannaturale con la quale accogliamo la divina rivelazione, giacchè questa presuppone che si sappia già che Dio esiste.
Agostino si riferisce certamente al fatto che tutti sappiamo con certezza intuitivamente che la verità esiste, che l’essere esiste e che la realtà esiste. Ma Tommaso obietterebbe: sì, ma la verità non è necessariamente la verità divina, l’essere non è necessariamente l’essere divino, la realtà non è necessariamente la realtà divina.
Tuttavia Agostino nel pensare a quei valori assoluti ed immutabili, sente il suo pensiero spostarsi ed ampliarsi verso Dio, che è la Verità sussistente, la Realtà assoluta, l’Essere sussistente[5]. Ciò sottintende naturalmente la percezione implicita della causalità divina; altrimenti rischieremmo il panteismo.
Che cosa è questa fede con la quale siamo immediatamente e intuitivamente certi che Dio esiste? Corrisponde ad una evidenza oggettiva o è effetto di un atto di volontà? Su questo punto Agostino non è chiaro. Sembra comunque concepire tale convinzione come effetto di un’intuizione originaria. Non si tratta di assolutizzare il relativo o di infinitizzare il finito, ma sono il relativo e il finito che portano a pensare e a scoprire l’assoluto e l’infinito.
Forse è partendo da qui che Kant parlerà di «fede razionale», mentre Cartesio è convinto che noi possediamo un’idea innata di Dio. Probabilmente Agostino è rimasto qui influenzato dall’idealismo platonico, derivante a sua volta da Parmenide. Da qui deriva probabilmente il fideismo luterano, con la differenza però che Agostino non oppone affatto questa fede alla ragione, ma al contrario considera l’atto successivo della ragione come conferma di ciò che la fede già crede.
Per quanto riguarda il rapporto tra ragione e fede, Agostino concepisce una reciprocità di primati fra l’una e l’altra sotto due punti di vista diversi. Da qui i suoi due princìpi «intelligo ut credam» e «credo ut intelligam»[6]. La ragione dimostra l’esistenza di Dio, seppure nel modo di quella «fede» della quale ho parlato. Una volta che la ragione ha capito per ea quae facta sunt che Dio esiste, la mente si trova disponibile a credere alla Parola di Cristo. Una volta che la ragione è giunta alla fede, alla luce della fede la ragione indaga sui misteri rivelati e approfondisce la Parola di Dio. La ragione conduce alla fede perché ne comprende la possibilità e la ragionevolezza nei motivi di credibilità e le condizioni di esistenza e di esercizio della stssa fede. La fede a sua volta è la condizione dell’intendere ciò che si crede, trovando motivi di convenienza di ciò che si crede.
La via agostiniana verso Dio pone preferenzialmente il suo inizio nella considerazione della dignità della coscienza, nella sete che il nostro spirito ha di verità, di infinito, di assoluto, di eternità. Agostino percepisce l’incertezza della conoscenza delle cose e il fatto che tale conoscenza nella sua limitatezza, non basta a soddisfare il nostro bisogno di una verità assoluta ed infinita. E per questo egli ama appoggiarsi sul mondo dell’ideale, avverte in lui la presenza della verità che lo illumina, sente vigorosamente il primato dei valori dello spirito su quelli della materia.
Per Agostino la verità è luce che illumina l’intelletto. Per Tommaso è la esperienza spirituale della corrispondenza del nostro intelletto con la realtà. Tommaso fa attenzione ai nostri e altrui bisogni fisici, perché sa che il loro soddisfacimento è la condizione di possibilità del normale funzionamento e corretto soddisfacimento di quelli spirituali. Agostino viceversa sa che se noi non giudichiamo il mondo materiale, noi stessi e gli altri alla luce di quelli spirituali, cadiamo nel materialismo e diventiamo ciechi ai valori dello spirito.
In tal modo, come vediamo per esempio nei cc. XXIX-XXXIX del De vera religione, è nell’orizzonte della verità che illumina la nostra ragione, che Agostino parte dalla conoscenza e dall’apprezzamento delle cose esterne sensibili per elevarsi a percepire l’esistenza di Dio, che le ha create. Siamo dunque ben lontani dallo scetticismo assurdo cartesiano circa l’esistenza delle cose esterne ed in perfetta linea con San Tommaso, la Scrittura e il Magistero della Chiesa che insegnano che la ragione dalle cose sensibili può trarre argomento per dimostrare l’esistenza di Dio.
Agostino espone con chiarezza la prova dell’esistenza di Dio partendo dall’esperienza delle cose sensibili. Il che vuol dire che il suo cogito non ha per nulla il compito di fondare il sapere come in Cartesio, ma fonda il sapere partendo dalla percezione esterna e da questa e non dal cogito - come fa Cartesio - si eleva Dio. Nel commentare il passo di San Paolo dice infatti Agostino:
«La mente umana innanzitutto fa esperienza per mezzo dei sensi del corpo e di queste cose che sono fatte e ne assume notizia nel modo della nostra infermità e quindi cerca la loro causa per poter in qualche modo pervenire alle loro cause immutabilmente permanenti nel Verbo di Dio e così possa considerare le realtà invisibili divine intese per mezzo delle cose che sono state fatte»[7].
Non concordo col Gilson che vorrebbe trovare in Agostino un precorrimento della psudo-prova anselmiana dell’esistenza di Dio[8]. Gilson si appoggia su di un solo passo di Agostino che non richiede l’interpretazione che ne dà Gilson. Anche l’interesse che Agostino ha per Dio come somma Essenza o la tematica della presenza di Dio alla coscienza, come sembra voler insinuare Gilson, non danno alcun appiglio all’argomento di Sant’Anselmo. Abbiamo visto che Agostino dimostra l’esistenza di Dio partendo dalle sue opere, come insegna San Paolo in Rm 1,20.
La «fede» nell’esistenza di Dio che abbiamo visto si può intendere come anch’essa una prova a partire dalle creature, in quanto dalle verità possiamo passare alla Verità. Ma da nessuna parte Agostino dice che basta avere l’idea di Dio per sapere che Dio esiste.
A questo punto potrebbe sorgere una domanda: esiste una metafisica in Agostino? Se per metafisica intendiamo la scienza della realtà mutabile e temporale, sensibile e materiale, per la quale ci eleviamo alla conoscenza dello spirituale e del puramente intellegibile, dell’eterno e dell’immutabile, la risposta è: senza dubbio. La concezione aristotelico-tomista della metafisica come scienza dell’ente in quanto ente è perfettamente in armonia con la concezione agostiniana.
Per quanto riguarda l’autocoscienza, mentre Tommaso si esprime con la terza persona parlando della conoscenza che l’anima ha di se stessa[9], Agostino si esprime in prima persona, ma il contenuto metafisico è lo stesso: lo spirito riflette su se stesso. Egli in se stesso vede l’impronta di Dio e da questa impronta sale a Dio: Tommaso ed Agostino fanno lo stesso cammino.
Tommaso, dal canto suo, sa così che se non abbiamo il dovuto rispetto per le realtà corporee che ci circondano, per il prossimo e per il nostro stesso corpo, non possiamo capire che la loro causa prima e il loro fine ultimo è Dio. Agostino sa che se noi non avvertiamo Dio presente nella nostra coscienza, fondamento e ispiratore dei valori morali, non possiamo capire veramente il valore delle cose, di noi stessi e degli altri in quanto creati da Dio, né possiamo sapere qual è la via della nostra e dell’altrui beatitudine.
Se la sapienza agostiniana supera quella tomista in quanto sapienza mistico-pastorale, la sapienza tomista supera e corregge quella agostiniana dal punto di vista razionale e filosofico. Infatti Tommaso potè utilizzare la filosofia aristotelica, migliore di quella platonica, benché bisogni riconoscere che Aristotele non seppe apprezzare la dottrina platonica delle idee, perché non capì che Platone non parlava di doppioni trascendenti delle cose, ma delle idee divine. sotto l’illuminazione della grazia (intelligo ut credam). Per Agostino la fede illumina e purifica la ragione nel suo stesso ordine, sollevandola nel contempo a verità che superano la ragione. Per Tommaso e per Agostino la ragione precede la fede nella successione e sviluppo temporali. La fede supera la ragione nello ordine dei valori.
La vera illuminazione divina, per Tommaso non la riceviamo nell’esercizio della ragione e dell’intelletto naturali, ma nella fede, perchè è nei misteri soprannaturali divini che abbiamo bisogno di essere illuminati ed istruiti da Dio. Nelle cose di questo mondo ce la caviamo da soli col lume del nostro intelletto e l’esercizio della buona volontà. Con tutto ciò anche Tommaso, come Agostino è ben consapevole delle conseguenze penose del peccato originale, che offuscano il lume della ragione e indeboliscono la forza della volontà spingendola al peccato.
Il primo Agostino sembra credere che l’uomo corrotto dal peccato non sia capace senza la fede e la grazia di conoscere il vero e di fare alcunché di bene. Ma l’Agostino delle Retractationes prepara la visione tomista, più giusta e più evangelica, per la quale la ragione e la volontà sono semplicemente ferite e indebolite, sicchè la grazia non sostituisce la natura, ma la presuppone e la perfeziona.
Agostino è il maestro di Tommaso nella dottrina della grazia e per questo l’Ipponense ha il titolo nobilissimo di Doctor Gratiae. Merito di Agostino in questo campo centrale della vita cristiana è quello di darci la base della dottrina del rapporto della grazia col libero arbitrio e quindi della dottrina del merito delle opere buone.
Nell’affrontare il mistero del rapporto della grazia col libero arbitrio, occorre evitare due difetti opposti: o svilire il libero arbitrio a vantaggio della grazia o svilire la grazia a vantaggio del libero arbitrio. Agostino si trovò a dover combattere contro il secondo difetto, quello dei pelagiani. Ma egli stesso non era pienamente consapevole della dignità del libero arbitrio, perché avvertiva forse in modo esagerato le conseguenze del peccato originale.
Agostino era ben consapevole che l’opera della salvezza dipende dall’iniziativa della grazia e principalmente dall’opera della grazia, anche se è noto il suo avvertimento: «chi ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te».
Tuttavia Agostino non chiarisce come fa il libero arbitrio a restare libero se Dio predestina solo alcuni alla salvezza. È vero, siamo liberi di dire a Dio di sì o di no, e si può pensare che alcuni dicano di no. Se Egli però causa la nostra scelta del bene, come fa questa scelta a restare libera? Se muove la scelta di questo, perché non muove la scelta di quello? Conosciamo la sua risposta: noli judicare, si non vis errare.
Trattando della trascendenza, mentre Tommaso parla del trascendente (transcendens) in senso statico come ciò che sta oltre e in tal senso Dio è trascendente, Agostino parla di un trascendere in senso attivo e in tal senso ci invita a trascendere noi stessi e a tendere là, ossia verso Dio, dove si accende lo stesso lume della ragione[10].
Agostino parla di un trascendere in senso attivo che non troviamo nel vocabolario di Tommaso, il quale parla del transcendens solo in riferimento ai trascendentali. Il trascendere attivo agostiniano, per esempio il transcendere seipsum corrisponde al processo razionale tomista, per il quale l’uomo si muove verso Dio fine ultimo o procede dal sé come causato da Dio a Dio come causa del sé.
Occorre inoltre tener presente che sia per Agostino che per Tommaso l’intelletto non è un’energia che tende ad un fine: questa è la volontà. L’intelletto è una lampada o una luce, che illumina o non illumina. Per Tommaso è l’intelletto agente che fa passare l’intelletto possibile dalla potenza all’atto, in modo tale che, informato dalla forma dell’oggetto (species impressa), forma il concetto (species expressa) dell’oggetto.
Non bisogna confondere l’intenzione della mente con quella della volontà. Questa è una tendenza della volontà verso la realtà esterna al fine di appropriarsene o farne uso. L’intenzione della mente è un ente intramentale, prodotto dalla mente, rappresentativo della realtà esterna. L’atto del volere comporta un moto effettivo dell’agente nel tempo per eseguire il comando della volontà. L’atto dell’intendere invece è per sé istantaneo e sovratemporale.
Tommaso mantiene la dottrina agostiniana che Dio è la luce della nostra intelligenza. Tuttavia con la dottrina dell’intelletto agente mostra che anche noi possediamo col nostro intelletto un potere illuminante, per il quale, posto che Dio è il creatore e il motore del nostro intelletto e della nostra volontà nel processo conoscitivo, noi siamo capaci di far luce sulle cose e più precisamente sulle immagini sensibili delle cose, che abbiamo ottenuto grazie all’attività congiunta del senso con l’intelletto; mentre Agostino, pur riconoscendo che i sensi ci danno la verità delle cose sensibili, al di là delle possibili illusioni e degli errori, fatica a riconoscere che la sensazione dipende dall’anima sensitiva, e la riconduce all’anima spirituale.
Tommaso, viceversa, valendosi della distinzione aristotelica dell’anima sensitiva, propria anche degli animali, dall’anima spirituale, propria dell’uomo, riconosce meglio di Agostino la dignità e il potere della conoscenza sensibile. Naturalmente con ciò non arriva a dire che possediamo due anime, una sensitiva e una spirituale, ma comprende che è l’unica anima spirituale – e in ciò riprende Agostino – ad essere responsabile del sentire e dell’intendere.
In tal modo Tommaso, pur distinguendo con Agostino il sensibile dall’intellegibile, distingue l’anima dal corpo non al modo di Agostino che assegna il sentire al corpo e l’intendere all’anima, ma, come è noto, intende l’anima come forma sostanziale del corpo, cosicchè la persona umana risulta essere un’unica sostanza, composta di materia e forma, per cui l’anima non è solo motrice di un corpo che sembra separato dall’anima, ma dà forma al corpo stesso ed è responsabile di tutte le attività vitali, vegetative, sensitive e spirituali. L’uomo resta, agostinianamente un composto di spirito e corpo.
Lo spirito resta agostinianamente superiore al corpo, ma anima e corpo formano un’unica sostanza animata dall’anima spirituale. Ciò non vuol dire ovviamente che l’anima, al momento della morte non si separi dal corpo continuando a sussistere per sempre, mentre il corpo si dissolve. Tommaso riprende da Agostino la dottrina dell’immortalità dell’anima.
Tuttavia ci spiega meglio come la persona possa essere un’unica sostanza composta di due realtà così diverse come lo spirito e la materia. Ma il fatto è che Tommaso ha compreso meglio di Agostino la dignità della materia e del sensibile, che ad Agostino, influenzato da Platone suscitano qualche diffidenza, benchè Agostino non abbia difficoltà ad accettare il dogma della futura risurrezione del corpo.
Fine
Prima Parte (1/2)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 25 ottobre2025
Il Santo Padre ha ben delineato la differenza tra la sapienza agostiniana e quella tomista, mostrando la superiorità di quella su questa, in quanto dono dello Spirito, quindi sapienza mistica e sapienza pastorale, dono anch’essa dello Spirito, stante lo stato episcopale di Agostino, Doctor Gratiae.
Mentre nella sapienza speculativa è sufficiente la virtù dell’intelletto educato dalla filosofia, l’esercizio della sapienza mistico-pastorale, come ha sottolineato il Papa, è impossibile se essa non è effetto della carità. Invece Tommaso è Dottore Comune della Chiesa nel campo della sapienza speculativa, giacchè egli è stato un semplice maestro di teologia, per cui Tommaso primeggia in quella sapienza teologica che è la teologia scolastica, funzionale alla formazione del clero e dei dottori in teologia.
Per quanto riguarda l’esistenza cristiana, i due Dottori fanno un cammino inverso l’uno rispetto all’altro: l’uno parte da dove l’altro è arrivato e viceversa.
Immagine da : https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2025/10/27/messa-univ-pontificie.html
[1] Discorso all’Assemblea dei Membri della Federazione delle Università Cattoliche, a Guadalajara, Messico 21 luglio; Discorso al Simposio della Pontificia Accademia Teologica del 13 settembre a Roma; Discorso al Congresso Internazionale delle Università Cattoliche del 3 ottobre in Paraguay; .
[2] Da notare che è lo stesso San Tommaso a teorizzare la superiorità della sapienza mistica (per connaturalitatem) su quella speculativa (per modum cognitionis): Sum. Theol., II-II, q.45; I-II, q.68.
[3] Vedi il libro di Tina Manferdini, L’estetica religiosa in Sant’Agostino, Zanichelli Editore, Bologna 1969.
[4] Vedi quanto riferisce il Gilson nella sua Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, pp.13-14.
[5] Vedi Gilson, op.cit., p20.
[6] Ibid., p.36, 39-43.
[7] De Genesi a litteram,IV, 32, 49; t.34, col.316-317.
[8] Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, p.29.
[9] Quaestio disputata De Veritate, q.10, a.8.
[10] Cf De vera religione, c. XXXIX.

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