Che cosa intendeva dire Rosmini? Un santo non può essere un panteista - Terza Parte (3/3)

 

Che cosa intendeva dire Rosmini?

Un santo non può essere un panteista

Terza Parte (3/3)

 

Alcuni punti da chiarire

Volendo passare in rassegna alcuni punti che ci aiutano a comprendere il senso della Nota della CDF, possiamo cominciare col dire che il «divino» del quale parla Rosmini, citato nelle proposizioni condannate, come chiarisce bene Giannini, non è Dio, ma è l’essere, scoprendone l’ampiezza e la sublimità del quale la mente giunge a scoprire l’essere divino. È «appartenenza divina» non perché sia un attributo divino, o una proprietà di Dio, ma perché, benchè, partecipe anch’esso dell’essere, legato al creato, è un predicato, un nome, un pensiero, che Dio ha scelto per designare il suo stesso essere sussistente.

Rosmini sembra confondere l’essere reale con l’essere ideale come se non fossimo noi a ricavare l’idea dell’essere dall’essere a noi già dato e a noi presupposto come oggetto del conoscere, ma fossimo noi a porre l’essere con la nostra idea dell’essere. Ora questo certamente sarebbe idealismo. Ma non è questo il vero intento e il vero pensiero di Rosmini.

Con la sua dottrina dell’essere reale e dell’essere ideale egli intende invece sostenere il realismo come San Tommaso, in quanto è chiaro anche per Rosmini che noi ricaviamo il concetto che lui chiama «idea» dell’essere dal contatto sensibile con gli enti dell’esperienza.  Il primato dell’essere ideale sull’essere reale è un primato assiologico, non temporale. Sa benissimo anche lui che il conoscere in noi inizia con la conoscenza sensibile e solo successivamente inizia quella intellettuale con la concezione dell’ente e dell’essere.

Come spiega bene Percivale[1] con un accurato confronto di tesi l’idea rosminiana dell’essere o l’essere come idea, non va inteso alla maniera hegeliana che identifica il reale con l’ideale, ma corrisponde esattamente all’intelletto agente di San Tommaso o alla verità interiore agostiniana, luce proveniente da Dio, luce dell’intelletto che illumina i fantasmi, manifesta l’intellegibilità delle cose e fa conoscere l’essenza delle cose e della realtà.

Rosmini ebbe anche l’infelice idea di chiamare l’essere «forma a priori» pensando a Kant. Ma in realtà egli con questa espressione fuorviante non intende affatto la forma del conoscere alla maniera kantiana come dar forma all’oggetto del conoscere. Ma intende dire che l’intelletto intuisce l’essere come forma delle cose. L’espressione «a priori», presa da Kant, è fuorviante perché sembra negare che la nozione dell’essere sia ricavata dall’esperienza, cosa che Rosmini non nega affatto perché riconosce la veracità della conoscenza sensibile.

A lui preme solo rilevare la trascendenza dell’intellegibilità dell’essere rispetto ai dati del senso.  E se ammette che noi possediamo l’idea dell’essere «prima» di contattare le cose sensibili, si riferisce al fatto che una volta ricavata la nozione dell’essere dall’esperienza, quando ci avviciniamo ancora alle cose, lo facciamo essendo già in possesso dell’idea dell’essere.

Un’altra espressione infelice, che risente dell’influsso di Kant, è la tesi secondo cui nell’atto del conoscere le cose sensibili noi «applichiamo» l’idea dell’essere, quale forma del conoscere, ai materiali provenienti dall’esperienza. Qui è evidente l’idea kantiana del conoscere non come recipere et habere formam alterius rei, ma come dar forma ad una materia, sul modello dell’attività artistica.

Ma questo falso modello poi nel contesto della gnoseologia e della spiritualità rosminiane al lato pratico non ha influsso decisivo, perché di fatto Rosmini riconosce tranquillamente che le cose materiali sono composte di materia e forma, per cui la forma l’hanno per conto loro, creata da Dio e non certo imposta dal nostro intelletto. La sua preoccupazione, invece, in sé giusta, è quella di mettere in luce come la presenza dell’essere alla mente è quella che fa scoprire l’essere delle cose, essere che viene diversificato in più atti d’essere, a seconda della differenza dell’essenza di ciascuna dalle altre.

Rosmini inoltre parla della «materia del conoscere» alla maniera kantiana, ma in realtà egli è realista. Voglio dire che mentre per Kant la materia del conoscere sarebbe il materiale caotica proveniente dai sensi, al quale l’intelletto dà forma, per Rosmini la materia del conoscere è l’oggetto stesso del conoscere che egli trascende per elevarsi a Dio. È vero che questa materia sensibile è data dal sentimento, ma l’intelletto per Rosmini, applicando l’idea dell’essere al sentimento delle cose e del proprio corpo, non dà affatto forma alla realtà come credeva Kant, ma riconosce la forma delle realtà materiali, con la facoltà di usare l’idea dell’essere anche per concepire le sostanze immateriali fino a accogliere la Sostanza divina. Questo vuol dire Rosmini quando parla dell’essere come «forma a priori» dell’intelletto.

Per lui questa «forma» non appartiene all’essenza dell’intelletto, anche se giace kantianamente nell’intelletto, ma è data all’intelletto; non costituisce, come per Kant, il modo del conoscere, ma l’oggetto suo primo, corrispondente all’ente come primo oggetto dell’intelletto, come nella gnoseologia tomista. L’intelletto, per Rosmini, come per Tommaso, è una facoltà dell’anima; non è come in Kant, l’io penso (Ich denke) di cartesiana memoria.

E lo stesso Tommaso chiama «forma» l’essere. Ma in Rosmini come in Tommaso, a differenza di Kant, per il quale la forma dà forma all’oggetto, l’essere come forma dell’intelletto è luce dell’intelletto e corrisponde all’essere stesso dell’oggetto del conoscere. Ossia per Tommaso e per Rosmini la cosa o la realtà ha già per conto proprio, fuori della mente e in sé stessa, la sua forma che è il suo stesso atto d’essere. Per cui l’intelletto non dà né forma né essere alle cose come fosse un semidio o un demiurgo, ma, grazie all’idea dell’essere, riconosce la forma e l’essere delle cose, che non dipendono dall’intelletto, ma da Dio creatore.

Un altro modo di esprimersi di Rosmini che lo fa apparire un idealista è il significato che egli dà al termine «reale» ed «ideale». Si vede chiaramente che egli restringe il termine di reale alle cose materiali, mentre designa preferibilmente la realtà spirituale col termine di «ideale». È evidente che l’essere ideale è una luce spirituale ed intellettuale.  È una luce divina non nel senso che sia Dio stesso, ma che proviene da lui e chiama a Lui. Essa non esclude la veracità dei sensi, ma illumina anche i sensi. Come dice un inno liturgico allo Spirito Santo, accende lumen sensibus.

Tommaso intende la res (realtà) come un trascendentale dell’ente reale, per cui distingue una res materialis da una res spiritualis. Per questo Tommaso non ha difficoltà e riconoscere l’anima, l’angelo e Dio come una res. Invece per Tommaso l’ideale appartiene solo all’ambito del pensiero o dell’intramentale: questo sia per la mente umana che per la mente divina, anche se pure per Tommaso ovviamente in Dio ideale e reale coincidono come essere sussistente.

Ma dove si vede che Rosmini non è idealista e si accorda con Tommaso è quando parla dell’essere, per cui anche Rosmini distingue l’essere reale da quello ideale, il pensiero dall’essere e il conoscere dall’essere come oggetto del conoscere. Per Rosmini come per Tommaso il pensiero pensa originariamente l’essere extramentale. Solo successivamente, per riflessione, pensa sé stesso e l’io che lo produce.  Rosmini non è affatto cartesiano. Egli non si basa sul cogito cartesiano, ma sull’intuizione dell’essere delle cose e da lì per via di causalità sale a Dio. Non parte dall’idea di Dio come fa Cartesio, ma parte dall’intuizione dell’essere e da lì arriva a Dio e all’idea di Dio.

Inoltre Rosmini distingue nell’ente creato essenza ed essere. Per cui riconosce che mentre la creatura ha l’essere ricevuto da Dio creatore - qui gioca quella che egli chiama «astrazione teosofica», cioè il fatto che Dio astragga da Sé ovvero crei la nozione dell’essere che lo stesso nostro intelletto produce. Solo Dio è l’essere, ossia, proprio come in Tommaso, è quell’ente la cui essenza è quella di essere, quell’ente che solo fra tutti, per avere l’essere identico all’essenza, non può assolutamente non essere, essendo tutti gli altri enti contingenti, in quanto, pur avendo l’essere, possono perderlo per non esser più. Per questo, per Rosmini il panteismo, che egli giustamente individua in Hegel che identifica pensiero ed essere, essenza ed essere e mondo e Dio. è un errore «mostruosissimo».

Un’espressione strana di Rosmini, che potrebbe far pensare al panteismo, è «essenza dell’essere», per cui «tra l’essenza della creatura e l’essenza del creatore l’essenza dell’essere è la stessa». Attenzione, però, che Rosmini non dice l’essere - questo sì che sarebbe panteismo -, ma dice essenza dell’essere. Ma che cosa è questa essenza dell’essere?  L’essere, potremmo obiettare, è un qualcosa di semplice, non è un composto di essenza ed essere. L’essere quindi non può avere un’essenza. Semmai è l’ente che ha un’essenza e che ha l’essere.  L’essenza è parte formale di un tutto composto di essenza ed essere; ma l’essere è solo essere. Tutto ciò è vero e Rosmini lo sa. Ma allora che cosa intende dire con quella espressione?

È il discorso del Beato Duns Scoto: il significato della parola essere dev’essere uno, univoco: se no, come facciamo ad intenderci quando usiamo quella parola?    Solo che Duns Scoto non si è reso conto che il significato di quella parola deve poter essere anche polivalente, ossia analogico: altrimenti come potremmo concepire la diversità, la somiglianza, la molteplicità e i gradi dell’essere?

Tanto della creatura quanto di Dio predichiamo l’essere. Ma con quanta diversità di significato! Rosmini riconosce che l’analogia si riferisce all’esistenza. Ma per lui l’essenza è sempre quella, dev’essere univoca. Per questo per lui anche l’essere, benché sia l’atto di tutti gli enti e di ogni ente, tra di loro diversificati proprio secondo l’essere, per essere comunicabile nel linguaggio, deve avere un’essenza o essere ricondotto a una sola essenza, altrimenti non potremmo predicarlo di Dio e della creatura. Quando pensiamo all’essere, pensiamo a quella data cosa e non ad altro. E quando nel linguaggio usiamo la parola essere per intenderci pensiamo tutti a quella data cosa indicata dalla parola.

A Rosmini l’univocità dell’essere serve proprio per evitare il panteismo. Certo, egli si affretta ad aggiungere che per distinguere la creatura dal creatore, occorre aggiungere dei qualificativi, come per esempio infinito-finito, necessario-contingente, per essenza-per partecipazione, a se-ab alio, causato-incausato, e simili.

Si potrebbe osservare che anche Tommaso ammette un ens commune o universale astratto dagli enti singoli, così come un’essenza universale si estrae dagli inferiori, ossia dagli individui particolari.  Tuttavia l’essere tomistico non ha certamente un’essenza, perché esso stesso è atto dell’essenza. È l’ente o l’essenza che ha l’essere; ma l’essere come tale, a parte l’ipsum esse che è Dio, non è un soggetto che possa avere un’essenza.

Dio stesso, puro essere, non ha un’essenza, ma è una essenza identica al suo essere. Eppure è chiaro che Tommaso, parlando dell’essere, suppone che noi in qualche modo ne abbiamo il concetto. E come allora si può sfuggire, anche nell’orizzonte del tomismo, alla questione dell’essenza dell’essere? Rosmini, quindi, non fa che esplicitare ciò che in Tommaso è sottinteso. 

D’altra parte, se l’insistere sull’analogia ci consente, come è detto in Sap 13, 5, di passare dalla conoscenza dell’opera a quella dell’artefice, per cui il comune concetto dell’ente e dell’essere ci consente di collegare Dio col mondo e con noi, il racchiudere Dio e mondo in un unico concetto, per quanto analogico, non ci mette anch’esso nel rischio del panteismo?

Per evitare il panteismo non è sufficiente distinguere come fanno Duns Scoto e Rosmini, il finito dall’infinito e il contingente dal necessario, anche se ammettiamo che l’essenza dell’essere resta identica in Dio e nel mondo? Certo Tommaso non si esprime in questi termini. Ma un tomista non potrebbe accettare questo modo di esprimersi, proprio per evitare il panteismo?

Rosmini nella linea di Tommaso chiarisce il concetto dell’essere

Rosmini ci fa comprendere come noi passiamo dall’intuizione dell’essere alla concezione dell’essere divino.  Che nel concetto dell’essere si nasconda il concetto dell’essere divino lo aveva già capito San Tommaso.  Ma Egli non chiarì come avviene e che cosa succede nella nostra mente in questo cammino di esplicitazione e di approfondimento. I panteisti tedeschi del sec. XIX sapevano che Dio è l’essere sussistente o, come lo chiamavano, l’«l’Assoluto», ma con la loro confusione fra pensiero ed essere finivano per confondere l’essere e il pensare umano con l’essere e il pensare divino.

Rosmini, meditando sul concetto dell’essere, che egli chiama «idea dell’essere» si accorge che nel pensare l’essere la nostra mente compie un cammino meraviglioso e stupendo verso la beatitudine e la perfezione morale.  Questa presa di coscienza lo ha portato alle sue famose distinzioni fra essere indeterminato ed essere determinato, essere iniziale ed essere completo, essere virtuale ed essere esplicito. Con queste distinzioni egli ha inteso dire cose che in Tommaso restano solo implicite. Cioè Rosmini ha riflettuto in modo speciale, approfondendo il concetto tomista dell’esse, su come la nostra mente alla visione dell’essere procede nel contemplare l’essere e nell’avanzare verso l’essere divino.  

Nell’indagine del suo mistero infinito in questa contemplazione dell’essere la mente scopre nell’essere delle determinazioni che all’inizio non vedeva. Scopre delle formalità che all’inizio erano solo virtualmente presenti nel concetto, afferra una completezza che inizialmente non vedeva. A un certo punto la mente si accorge che l’essere, dall’iniziale aspetto della temporalità appare eterno, dall’iniziale aspetto del divenire appare immutabile, dall’iniziale aspetto dell’essere causato appare come causa; dall’iniziale aspetto dell’esser mosso appare come motore, dall’iniziale aspetto dell’esser contingente appare necessario, dal suo aspetto iniziale di finitezza appare infinito, dall’iniziale molteplicità appare uno.  Ebbene, è questo essere che al temine del cammino egli chiama «Dio».

Conclusione

 La figura di Rosmini è un caso rarissimo nella storia della Chiesa nel quale alla santità si associa l’espressione di un ricco pensiero filosofico-teologico inficiato da gravi errori. Ciò spiega la lunga, complessa ed agitata controversia che si è svolta attorno a lui e che ha suscitato ben tre interventi della Chiesa il dimittantur del 1854, il decreto Post obitum del 1887 fino alla Nota della CDF del 2001. 

Questa Nota ci stimola a rintracciare la posizione vera del Rosmini al di là degli errori che gli sono attribuiti dalle 40 proposizioni. In quest’articolo ho cercato di evidenziare questa sua posizione autentica, in linea con la verità cattolica, scagionandolo dall’accusa di idealismo e quindi di panteismo, che, stando alla detta Nota, si può rivolgere alle 40 proposizioni così come suonano, indipendentemente dalle intenzioni sostanzialmente ortodosse di Rosmini,

A tal riguardo dispiace che il Padre Fabro, acutissimo critico del pensiero filosofico e teologico, in un suo accuratissimo studio su Rosmini, non sia riuscito a mettere in luce quest’anima di verità del suo sistema, esprimendo un giudizio severissimo. Lo fa nel volume L’enigma Rosmini, titolo assai significativo. Definire enigma una figura di santo beatificato dalla Chiesa non è conveniente da parte di un cattolico. 

Al di là degli errori, occorre invece riconoscere in Rosmini una guida filosofica e teologica, da affiancare alla tradizione dei maestri e dottori del cattolicesimo. Il suo Dio nulla ha a che vedere col Dio di Fichte, di Schelling o di Hegel, ma è il Dio della ragione naturale, della rivelazione cristiana, della dottrina della Chiesa, il Dio di Gesù Cristo, Colui Che è Che era e Che sarà.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 4 novembre 2025

 

Per Rosmini la «forma» non appartiene all’essenza dell’intelletto, anche se giace kantianamente nell’intelletto, ma è data all’intelletto; non costituisce, come per Kant, il modo del conoscere, ma l’oggetto suo primo, corrispondente all’ente come primo oggetto dell’intelletto, come nella gnoseologia tomista. L’intelletto, per Rosmini, come per Tommaso, è una facoltà dell’anima; non è come in Kant, l’io penso (Ich denke) di cartesiana memoria.

E lo stesso Tommaso chiama «forma» l’essere. Ma in Rosmini come in Tommaso, a differenza di Kant, per il quale la forma dà forma all’oggetto, l’essere come forma dell’intelletto è luce dell’intelletto e corrisponde all’essere stesso dell’oggetto del conoscere. Ossia per Tommaso e per Rosmini la cosa o la realtà ha già per conto proprio, fuori della mente e in sé stessa, la sua forma che è il suo stesso atto d’essere. Per cui l’intelletto non dà né forma né essere alle cose come fosse un semidio o un demiurgo, ma, grazie all’idea dell’essere, riconosce la forma e l’essere delle cose, che non dipendono dall’intelletto, ma da Dio creatore.

Immagine da Internet: Papa Gregorio XVI, ritratto

[1] Franco Percivale, Da Tommaso a Rosmini. Indagine sull’innatismo con l’ausilio dell’esplorazione elettronica dei testi, Edizioni Marsilio, Venezia 2003.

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