Attualità di Giordano Bruno - Quinta Parte (5/5)

 

Attualità di Giordano Bruno

Quinta Parte (5/5)



Come Bruno, gli idealisti cadono nel panteismo perché credono che distinguere voglia dire separare e contrapporre. Non hanno la percezione della diversità, dell’alterità, dell’analogia, della proporzione, dell’armonia, dell’adeguazione, della convenienza e della somiglianza. 

Per i panteisti la contraddizione si risolve, ma ritorna. La conciliazione si attua, ma nella contraddizione. L’identità esiste, ma nella negazione, la vita vince la morte, ma la morte ritorna. Per questo, nel tentativo di unire, confondono. Da qui la confusione panteistica del mondo con Dio. 

Per Hegel l’Assoluto è differenziato, è il Concetto, l’Idea. Dunque per Hegel il mistero non esiste perché la ragione lo svela. La ragione prende il posto di quella che per Lutero è la fede. Solo che mentre per Lutero il mistero di fede contraddice alla ragione, per Hegel il mistero cristiano, siccome è rivelato, viene svelato dalla ragione. 

Hegel non afferra che mistero rivelato per il cristianesimo non vuol dire mistero svelato. Un conto infatti è svelare il mistero e un conto è rivelare il mistero. Nel primo caso vien tolto il velo e la verità appare in chiarezza. Nel secondo caso il mistero viene semplicemente annunciato e perciò la verità resta velata, ossia oscura. Col semplice annuncio il mistero cristiano non è svelato; ma resta velato. Solo in paradiso sarà svelato. 

La ragione, ossia la filosofia per Hegel svela ciò che per la fede è mistero, ciò che resta velato nella fede e nella religione. Ma dobbiamo dire che le cose non stanno affatto così. Questa non è vera filosofia, ma è la presunzione gnostica. La sana filosofia non svela affatto mistero cristiano. Non ne è assolutamente capace, perché la verità razionale è infinitamente al di sotto della verità divina, che è il contenuto del mistero cristiano. 

In altre parole, il livello di intellegibilità del mistero cristiano, che è verità divina, è infinitamente superiore alla capacità della ragione umana, che di per sé, per la sua limitatezza, non può avere la forza né l’autorità di annunciare una verità divina, qual è quella del mistero cristiano. Tanto meno ha la capacità di svelarlo. Soltanto la fede può far luce sul mistero, senza peraltro svelarlo. Bruno ha lo stesso atteggiamento gnostico di Hegel: non la fede nei dogmi della fede, ma l’eroico furore è quello che svela il mistero dell’Assoluto. 

Mirando all’Uno parmenideo, sia Hegel come Schelling, al seguito di Bruno, sostengono l’identità di tutto con tutto, ma mentre per Hegel l’Identità, che è Dio stesso, è identità sintetica degli opposti, quindi dei differenti, per Schelling è l’identità degli identici, indifferente alle differenze. Da ciò viene che mentre per Hegel l’Assoluto è luce razionale, distinzione, concetto e superamento della contraddizione, per Schelling l’Assoluto è mistero, è tenebra e indifferenza, è identità nella contraddizione. Anche Hegel e Schelling sono per due capi diversi i continuatori di Bruno, come abbiamo visto a proposito della «profonda magia». 

Ricordiamo inoltre che nella Russia nel sec. XIX il grande filosofo e teologo Vladimir Soloviev, erede della spiritualità platonico-plotiniana di ascendenze parmenidee, ha formato il concetto dell’unitotalità (vseedinstvo)[1], come totalità del molteplice unificata nell’Uno, che riprende l’Assoluto scellinghiano, erede a sua volta del monismo bruniano.

Il panteismo bruniano stimola due orientamenti ovvero si muove in due direzioni o dà spazio a due possibilità: una di tipo parmenideo, extratemporale ed extraspaziale, eternalista, di tipo statico, la quale assume solo la causa formale o ideale e ignora il divenire e un’altra di tipo eracliteo, storicista, evoluzionista, che ammette la materia, l’azione, il fare e la causa efficiente e produttiva e quindi la storia. 

La prima forma di monismo panteista è quella che darà luogo all’idealismo dialettico e storicista hegeliano, proseguito e sviluppato dall’attualismo di Giovanni Gentile[2], ritratto sinteticamente in queste parole: 

«La fysis o natura esterna non è una realtà veramente reale, ma una costruzione o astrazione dell’intelletto. … Per la filosofia idealistica non v’è una realtà fatta a cui il pensiero debba adeguarsi, ma la realtà è lo steso pensiero, cioè il suo stesso processo nella conquista della verità … Pensar la natura come natura è assurdo; in quanto si pensa, la natura è già spirito. … Per la filosofia che si dice idealistica in senso stretto, il Dio personale e trascendente non è pensabile come concetto puro e implica, in quanto tale, contraddizione»[3].

La realtà per Gentile, è la realtà assoluta e perciò non si dà adeguazione del relativo all’assoluto, del pensiero all’essere, ma 

«la realtà assoluta è quella che, vera causa sui, non è oggetto cui s’indirizzi l’attività della mente, ma questa medesima attività, che si fa nel suo esplicarsi, senza per questo aver bisogno di uscire da e stessa»[4].

Sono parole che ben si adatterebbero al pensare divino, che si misura su sé stesso, se non fosse che qui Gentile vuol parlare del pensiero come tale, confondendo pensiero divino e pensiero umano, e quindi negando al pensiero l’atto di adeguazione all’essere, come avviene nel nostro pensiero. 

La seconda forma è quella del monismo eternalista di Emanuele Severino, il quale salta lo storicismo hegeliano di marca eraclitea, e si rifà direttamente al monismo panteista parmenideo. Severino sintetizza il suo pensiero in alcune frasi dove egli presenta la totalità come coincidenza dell’essenza con l’esistenza, e dunque per lui l’essere coincide con l’essere divino. Dice Severino: 

«Ne La struttura originaria si diceva chiaramente: “risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non-contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)”»[5].

Severino sbaglia nel definire il principio di non-contraddizione. Esso non dice che l’essere non può non-essere, ma che l’essere non può essere il non-essere. È solo l’Essere assoluto, Dio, che non può non essere. Dire che l’essere non può non essere è come dire che esiste solo Dio. 

Invece esiste anche un essere, il contingente, che può non essere. Esistono gli enti contingenti, generabili e corruttibili, alterabili, mobili e mutevoli. E questa è la realtà degli enti creati. Non solo quindi il necessario, ma anche il contingente è incontradditorio; non solo l’essere, ma anche il divenire ha una sua identità e una sua necessità, benchè non assoluta, in quanto, nel momento in cui è tale, non può non essere tale. 

Severino, da buon idealista, confonde la necessità ontologico-reale con quella logico-ideale. La necessità logica chiede che non si pensi ed affermi e neghi ad un tempo di uno stesso ente la stessa cosa. La necessità ontologica è propria dell’essere necessario, soprattutto Dio, il che non esclude affatto l’incontradditorietà dei contingenti, ossia delle creature. 

Il principio d’identità dice che ogni ente è ciò che è e non è altro da sé, dice che è impossibile che un tale ente sia e non sia tale nel medesimo tempo. Questo principio dell’essere fonda e giustifica il principio del pensare e del dire, quindi del parlare, che è il principio di non-contraddizione, che proibisce di pensare e dire contro il vero, non lo si deve contraddire e non ci si deve contraddire, perché si cadrebbe nell’insensatezza. Non dobbiamo quindi identificare tra di loro i distinti o diversi o differenti, perché sarebbe far confusione, una cosa pericolosa per la filosofia e per la morale. Il panteismo non è altro che confondere Dio col mondo, che invece sono infinitamente distinti.

Severino è nella linea del parmenidismo bruniano quando pone la divinità e l’eternità dell’essere, perchè l’uno parmenideo e bruniano non è altro che l’uno divino dell’essere sussistente. Dice Severino: 

«In quanto questo albero, con questa sua forma e colori, è e non può accadere che non sia[6], già questo albero è theion, e theion è l’essere nella sua immutabile pienezza. L’essere, tutto l’essere parla di sé, dice appunto: Ego sum qui sum (egò eimi o on, Es 3,14); che è la più alta espressione speculativa contenuta nel testo sacro. A Dio non si arriva; non si giunge a guardarlo dopo un esilio o una cecità iniziale: appunto perchè Dio è l’Essere del logo originario, dice che è e non può non essere, ossia è contenuto nella verità originaria, nella misura in cui questa si costituisce come affermazione che l’essere è»[7].

È evidente la confusione fra l’essere come tale, che può essere e non essere e l’essere sussistente, la cui essenza è quella di essere: questo è l’essere divino del quale Dio parla in Es 3,14. Bruno conosce questo essere, solo che crede che abbia come soggetto la potenza, crede che Dio sia composto di atto e potenza, per cui non arriva al puro essere sussistente, ma finisce in un panteismo cosmologico e naturalistico. Vediamo dunque come Bruno confonde Dio col mondo.

Un teologo domenicano, riprendendo il programma di Bontadini di conciliare realismo ed idealismo, nella convinzione che l’uno conduca all’altro, ha assimilato l’esse tomistico all’essere parmenideo di Severino, ma è successo che l’esse tomistico, analogico e partecipativo, è sostituito dal monismo univocista, e quindi appare come un derivato secondario o sottoprodotto della teoresi severiniana, quando in realtà l’esse tomistico è la radicale confutazione dell’idealismo del panteismo che ne consegue.

Il filosofo tomista Luca Gili ha messo in luce in un ottimo suo studio[8] questa manipolazione dell’Aquinate giungendo giustamente alla conclusione che il pensiero dell’autore può essere paragonato a quello di Bruno. 

Effettivamente, l’umanesimo che viene proposto all’ombra di un Severino mascherato da San Tommaso, si pone nella linea bruniana, che, partendo dall’io luterano e cartesiano, passa dall’antropocentrismo magico rinascimentale, attraversa l’idealismo tedesco per arrivare a Nietzsche, che oggi rivive nel transumanesimo dell’IA.

Il motto di questo umanesimo è il dannunziano «memento audere semper» e l’ideale del governante è il Principe di Machiavelli. Intanto da anni attorno a questa forma di umanesimo si sta formando una schiera di entusiasti discepoli, tra i quali il teologo Antonino Postorino.

Notiamo altresì che entrambe le forme di panteismo che ho descritto sopra negano l’adeguazione del pensiero all’essere identificando il pensiero con l’essere, con la differenza che mentre per Gentile il pensiero produce l’essere, per Severino il pensiero è l’apparire dell’essere. 

Per entrambi le forme il Tutto, ossia l’Assoluto, non è distinto da tutto, ossia da tutte le cose, ma tutto è il Tutto e il Tutto è tutto. L’Uno non è distinto dai molti, ma è o sono i molti. Esiste solo l’Assoluto, per cui il relativo non è fuori ma dentro l’Assoluto. Ma così succede che viene assolutizzato il relativo e relativizzato l’Assoluto. 

Per entrambi il pensare coincide con l’essere; non si dà quindi adeguazione del pensiero all’essere. Per Gentile l’Assoluto diviene relativo; per Severino appare come relativo. Per Gentile tutto è storia; per Severino tutto è eterno.

Mentre il panteismo eternalista ha il suo inizio in Parmenide, il panteismo storicista, volendo escludere Eraclito, ha i suoi inizi in Gian Battista Vico, e appare in piena luce nell’identità fichtiana dell’essere col fare, nell’identità schellinghiana dell’essere col volere, tocca la contaminazione blondeliana dell’intelletto con la volontà, passa attraverso l’intuizionismo pragmatico di Bergson, progredisce con l’attualismo di Gentile, per raggiungere il suo culmine con la volontà di potenza di Nietzsche. È alla base delle dottrine del fascismo e del nazismo. 

Tuttavia bisogna dire che in Bruno non c’è l’idea dell’assoluto. Non parla mai di assoluto sic et simpliciter, ma semmai come proprietà dell’universo. Così manca il binomio relativo-assoluto. Ne fa largo uso invece Schelling, come sarà poi di tutti gi idealisti, mentre Hegel parla dello Spirito assoluto e della scienza assoluta, che è la gnosi condannata da Papa Francesco.

Possiamo dire che in Bruno l’assoluto si nasconde dietro l’Uno parmenideo. Ma al suo tempo l’absolutum era un aggettivo, non un sostantivo, significando «libero», «sciolto», «ab-solutum», «assolto», «indipendente». Ben si addice come predicato di Dio, ma neppure San Tommaso aveva pensato di assegnarlo a Dio.

L’Assoluto di Schelling è l’Uno e Identico nella totalità indifferenziata delle differenze e delle dualità, per cui è oscurità totale, nulla e mistero assoluto per i concetti, a somiglianza della mistica di Dionigi l’Areopagita. Al contrario. per Hegel, antimistico, come lo era anche Lutero, l’Assoluto è Logos, Soggetto, Concetto, Idea, Ragione, Coscienza.

Per Hegel il cristianesimo rivela il mistero, nel senso che toglie il mistero, per cui la ragione è la stessa rivelazione del mistero, nel senso che svela il mistero. Bruno, dal canto suo, non è interessato al mistero, ma all’universo e al potere della mente umana, per cui essa s’innalza da sé alla piena luce, si innalza a Dio identificato col mondo e con l’uomo, restando indifferente sia che la mente che usi o non usi il concetto: l’essenziale è l’identificazione con Dio-Mondo-Natura-Universo-Io. Pensiero ed essere coincidono non solo in Dio, ma anche nell’uomo, perchè l’essere stesso, giusta la tesi parmenidea, è identità di pensiero ed essere.

Tra gli idealisti tedeschi chi ha capito meglio Bruno e ha trovato in lui un ispiratore è stato Schelling, come è facile notare nel suo dialogo appunto intitolato Bruno. Il divino e naturale principio delle cose. Citiamo qui il seguente passo:

«Rammenta pertanto, che nella prima Unità, da noi considerata come il sacro abisso da cui esce tutto e a cui tutto ritorna, e rispetto al quale l’essenza è forma, la forma essenza, noi collochiamo dapprima l’Unità assoluta, poi riferiamo a questa, senza opporglierlo, il finito infinito sempre presente, fuori d’ogni tempo, illimitato per sé e non limitante l’infinito, di cui soddisfa qualunque esigenza. Sicchè l’uno e l’altro non fanno che una sola e stessa cosa, distinguendosi e scindendosi soltanto nel fenomeno: assolutamente Uno di fatto, eternamente separati in Idea, come il pensiero e l’essere, l’ideale e il reale.

Ma tutto essendo, come dimostrammo, perfetto e assoluto nell’Unità assoluta, nulla vi si distingue; poiché le cose non si distinguono le une dalle altre e non per le loro imperfezioni e per i limiti ad esse imposti, segnati dalla differenza di sostanza e di forma; ora, in codesta Natura infinitamente perfetta, la forma è sempre uguale all’essenza; perchè il finito, al quale solo pertiene una relativa differenza dell’una dall’altra, non v’è contenuto come finito, ma in modo infinito, senza differenza alcuna. E poiché il finito, sebbene in realtà identico all’infinito, è sempre finito nell’idea, nella suprema Unità ancor si rinviene la differenza di tutte le forme; ma essa non v’è separata dall’indifferenza, non potendo distinguersi riguardo a tale unità; anzi vi è talmente contenuta, che ogni individualità per suo conto può attingervi una vita particolare e passare idealmente ad un’esistenza diversa e subordinata. Di modo tale l’Universo dorme, per dir così, quasi in un germe di infinita fertilità, con la sovrabbondanza delle sue forme, la dovizia della sua vita e la pienezza dei suoi svolgimenti, infiniti nel tempo, ma che acquistano realtà in seno all’Unità eterna abbracciante il passato e l’avvenire, ambedue illimitati per il finito; ma riuniti, inscindibili sotto il comun velo che li ricopre.

Mi sembra d’aver ormai a sufficienza dimostrato che il finito, pur rimanendo per sé finito, è racchiuso in quell’assoluta Eternità, che possiamo chiamare Eternità della ragione. Il finito, sebbene finito in sé, si riscontra a lato dell’infinito, ma sempre come finito; non invero rispetto all’infinito, ma come rappresentante di per sé la differenza relativa del reale e dell’ideale. E con tal differenza egli determina insieme sé stesso e il suo tempo, come pure la realtà di tutte le cose, la cui possibilità è contenuta nella sua propria idea»[9].

Il miglior ritratto di Bruno che io conosca è quello delineato dalla parola potente di Giovanni Gentile, dove si vede chiaramente quanto egli è rimasto soggiogato dal pensiero bruniano, ha saputo assimilarlo, lo ha fatto proprio e rivive in pieno la personalità poderosa di colui che egli chiaramente considera il maestro della filosofia moderna. Riportiamo il seguente brano dall’opera dedicata a Bruno. 

«La nuova filosofia e la nuova scienza si distinguono dalla fede non per mettere questa al di sopra di sé e l’attribuirle il privilegio della verità ad esse irraggiungibile e a cui pur esse mirano; anzi per negarle ogni valore rispetto ai fini a cui la filosofia e la scienza si indirizzano. Il filosofo medioevale diceva: credo ut intelligam; Bruno vi dice chiaro e netto: non credo ut intelligam. … Galileo e Bruno ritengono indispensabile affidarsi non alla fede, ossia ad una rivelazione, che è atto altrui e non nostro, bensì alla nostra intelligenza. …

Questa la nuova coscienza scientifica, che si accinge a guardare il reale con l’occhio puro da ogni nebbia. Questo l’inizio dell’età moderna per il pensiero filosofico.

Questa nuova coscienza scientifica è consacrata nel martirio di Bruno; il quale non è uno dei tanti martirii, che l’uomo è stato sempre disposto ad affrontare per gli ideali, onde viene recando in atto la sua umanità. Il martirio di Giordano Bruno ha un significato speciale nella storia della cultura, poiché non fu un conflitto di coscienze individuali diverse, ma necessaria conseguenza del progresso dello spirito umano, che Bruno impersonò al cadere del Cinquecento, quando si chiudeva col Rinascimento tutta la vecchia storia della civiltà dell’Europa: del progresso dello spirito, che giunse in lui ad avvertire per la prima volta e quindi a sorpassare la contraddizione che fin dal Medio Evo lo dilaniava tra sé e sé medesimo: tra spirito che crede e professa di non intendere e spirito che intende e professa di intendere, cioè farsi da sé la verità sua».[10]

Alcune domande al panteista

Vorremmo fare al panteista, che crede di essere Dio, l’Uno-Tutto, l’Intero, alcune domande: è sicuro che il suo io empirico sia l’apparizione o la manifestazione o la determinazione finita del suo Io trascendentale? Non c‘è una distinzione fra il finito e l’infinito? Fra il relativo e l’assoluto? Fra l’eterno e il temporale? Fra il libero e il necessario? Fra il necessario e il contingente? Fra l’atto e la potenza, fra lo spirito e la materia? 

Se Dio per il panteista è solo, se esiste solo Dio e se il panteista è Dio e in Dio, parte di Dio come Intero, con chi il panteista interloquisce? Solo con sé stesso, tra sé e sé o anche con altri? E gli altri chi sono? Proiezioni del suo io? Li ha posti in essere lui? Esistono indipendentemente da lui? Chi consulta per normare il proprio agire? Solo sulle sue idee? A chi chiede aiuto per i suoi problemi umanamente insolubili? Come si difende dal male e dai suoi nemici? 

Certo Dio non ha bisogno di nessuno. Ma il panteista non si sente mai in colpa, perchè il suo volere è lo steso volere divino. Non ha bisogno di ricevere alcun perdono e alcuna misericordia. Non è tenuto ad esercitare alcuna misericordia, giacchè anche gli altri sono Dio, né deve rispondere delle sue azioni ad alcun Dio. Le sventure degli altri così come le sue sono divine, perché Dio stesso soffre. Per il panteista beatitudine e sofferenza vanno assieme, sono una cosa sola, così come la bontà e malvagità, l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il bene e il male, l’apparenza e la realtà, il sembrare e l’esser vero. 

Ma il panteista è proprio sicuro di essere Dio? Di essere l’Uno, l’essere sussistente, il puro pensiero, l’infinito, l’assoluto, il Tutto, l’Intero, tutte le cose? Di vivere in eterno e dall’eternità? Di superare la morte? Di liberarsi dalla sofferenza? 

Il panteista non si pone il problema della salvezza. Dio non ha bisogno di essere salvato da nessuno. E se sa di morire, ciò non gli fa alcun problema, perché Dio stesso muore, nega e stesso e torna in sé stesso dalla negazione di se stesso. Morte e vita sono inscindibili. Egli quindi non opera per la propria salvezza, perché è già salvo fin da adesso, né opera per la salvezza altrui, perché anche gli altri sono Dio. Semmai, poiché il suo io è Dio, accentra tutto su di sé e tutto ordina e finalizza a sé.

Il panteista chiede aiuto agli altri per i suoi bisogni empirici, ma il suo Io trascendentale non ha bisogno di nessuno. Egli legittima il male fatto ed accetta il male ricevuto, perché per lui il male è solo apparenza, ma in realtà tutto è bene, perché tutto è Dio e Dio è buono.

Notiamo le conseguenze morali del panteismo. La sua messa in pratica legittima l’atto di qualunque peccato o di disobbedienza alla volontà di Dio, perché il panteista, ritenendosi Dio e quindi identificando la propria volontà con quella di Dio, si sostituisce al vero Dio nel legiferare sulla sua condotta e su quella degli altri e per conseguenza sostituisce la propria volontà a quella di Dio. 

Qual è oggi il compito dei Domenicani?


Con il ben noto nostro passato di inquisitori noi Domenicani siamo ancora credibili dopo il papato di Francesco, che è stato chiamato il Papa della misericordia? Siamo ancora capaci di rendere un servizio alla Chiesa? Abbiamo capito i bisogni e lo stile pastorale della Chiesa del postconcilio? 

Ebbene, rispondo che non solo siamo credibili, ma credibilissimi, ma a patto che ritroviamo l’essenza della nostra missione nel modello di santità e sapienza che ci è offerto dal nostro Fondatore San Domenico. E se badiamo ai nostri santi e veri maestri di oggi, recupereremo amplificato il ruolo profetico e il magistero sapienziale che abbiamo svolto nel Medioevo illuminando l’intera Europa cristiana. 

L’illuminismo settecentesco, come dice argutamente Maritain, è il lume di una candela a confronto del sole che noi Domenicani abbiamo fatto splendere in Europa nel Medioevo sotto la guida del Santo Padre Domenico.

Siamo oggi capaci di capire quale tipo di rinnovamento e di progresso ha valuto il Concilio? Quali modelli di santità e di sapienza abbiamo oggi davanti agli occhi? Sembra giunto il momento di una seria riflessione, di raccogliere le forze, di ribadire le promesse, di metterci davanti al Santo Padre Domenico e ai nostri Santi, sembra giunto il momento di concentrarci più che mai sull’essenziale e di confermarci più che mai nella nostra volontà assoluta di fedeltà, di conversione e di far fruttare più che mai i talenti ricevuti. 

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 agosto 2025 
Festa di San Domenico

Ricordiamo che nella Russia nel sec. XIX il grande filosofo e teologo Vladimir Soloviev, erede della spiritualità platonico-plotiniana di ascendenze parmenidee, ha formato il concetto dell’unitotalità (vseedinstvo), come totalità del molteplice unificata nell’Uno, che riprende l’Assoluto scellinghiano, erede a sua volta del monismo bruniano.

Il panteismo bruniano stimola due orientamenti ovvero si muove in due direzioni o dà spazio a due possibilità: una di tipo parmenideo, extratemporale ed extraspaziale, eternalista, di tipo statico, la quale assume solo la causa formale o ideale e ignora il divenire e un’altra di tipo eracliteo, storicista, evoluzionista, che ammette la materia, l’azione, il fare e la causa efficiente e produttiva e quindi la storia.

La seconda forma è quella del monismo eternalista di Emanuele Severino, il quale salta lo storicismo hegeliano di marca eraclitea, e si rifà direttamente al monismo panteista parmenideo. Severino sintetizza il suo pensiero in alcune frasi dove egli presenta la totalità come coincidenza dell’essenza con l’esistenza, e dunque per lui l’essere coincide con l’essere divino.

Severino è nella linea del parmenidismo bruniano quando pone la divinità e l’eternità dell’essere, perchè l’uno parmenideo e bruniano non è altro che l’uno divino dell’essere sussistente-

Notiamo altresì che entrambe le forme di panteismo che ho descritto sopra negano l’adeguazione del pensiero all’essere identificando il pensiero con l’essere, con la differenza che mentre per Gentile il pensiero produce l’essere, per Severino il pensiero è l’apparire dell’essere.


Immagine da Internet: Vladimir Soloviev


[1] Divine Sophia, Cornell University Press, New York 2009 p.127.

[2] Per una poderosa confutazione dell’idealismo gentiliano, vedi: Angelo Zacchi, Il nuovo idealismo italiano di B. Croce e G. Gentile, Francesco Ferrari Editore, Roma 1925; Mariano Cordovani, Cattolicismo e idealismo, Edizioni Vita e pensiero, Milano 1928

[3] Cit. da Angelo Zacchi, L’ uomo la natura l’origine i destini, Libreria Editrice Ferrari, Roma 1954, p.19.

[4] Cit. da Angelo Zacchi, op.cit., p.18

[5] Cit. da Cornelio Fabro, L’alienazione dell’Occidente, Edizioni Quadrivium, Genova 1981, p.74.

[6] Ma l’albero non potrebbe essere abbattuto da un uragano o da un boscaiolo? È chiaro che finchè l’albero esiste, non può non esistere, ma prima o poi cesserà di vivere e quindi di esistere. Cielo e terra passano: solo la parola di Dio non passa.

[7] L’alienazione, Op.cit., pp.21-22.

[8] ἀπὸ καταβολῆς κόσμου. Le due interpretazioni della nozione tommasiana di creazione nel pensiero di Giuseppe Barzaghi, Université du Québec à Montréal, dicembre 2021, pp.67-86.

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[9] Bruno. Il divino e il naturale principio delle cose, Edizioni Spano, pp.63-64.

[10] Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Ed. Le Lettere, Firenze, 1991, p. 103

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