Il pensare umano e il pensare divino - Prima Parte (1/4)

 

Il pensare umano e il pensare divino

Prima Parte (1/4)

 

I miei pensieri non sono i vostri pensieri

Is 55,8

 

Che cosa è il pensiero?

Il pensiero in generale non è altro che la rappresentazione mentale o intellettuale dell’essere. Questa rappresentazione è idea, se è pensiero produttore dell’essere o modello mentale dell’essere; è concetto, se è rappresentazione del reale, ricavata dal reale. Nel primo caso abbiamo il pensare divino e, per partecipazione o per imitazione, il pensare umano. Nel secondo caso abbiamo solo il pensare umano.

Cosa delicata è il rapporto del pensiero con l’essere. L’essere è certo oggetto del pensiero e il pensiero suppone l’essere come ente che pensa. Nell’atto del pensare avviene un’identificazione intenzionale e immateriale del pensiero con l’essere. «L’intelletto in atto – dice Aristotele – è l’inteso in atto». Quando siamo nella verità, ciò che pensiamo è ciò che è. Soltanto nel pensiero divino, tuttavia, essere e pensiero sussistenti, si dà un’identità reale fra pensiero ed essere.

La nozione del pensiero non è originaria, ma è effetto di una riflessione e di un ragionamento. Questa nozione nasce quando ci accorgiamo che nel conoscere le cose che sono fuori di noi si trovano in noi, evidentemente in uno stato di immaterialità.

Per sapere che cosa è il pensiero, devo sapere che cosa è il conoscere, devo rendermi conto di conoscere le cose, capire come mai le cose fuori di me sono in me. Ci accorgiamo allora di possedere una facoltà di smaterializzarle e quindi dell’esistenza dello spirito. Scopriamo di avere un’anima spirituale.

Bisogna distinguere un pensiero concettuale da un pensiero intuitivo. Nel pensiero concettuale l’intelletto attinge al reale mediante un concetto. Nel pensiero intuitivo l’intelletto coglie l’oggetto immediatamente. Tanto Dio quanto l’uomo posseggono questo doppio modo di pensare. L’uomo forma il concetto ricavandolo da quanto ha capito della cosa conosciuta. Dio Padre fa procedere da Sé il Logos, il Figlio in identità di essenza e distinzione di persone.

La necessità del concetto è data dal fatto che la mente contatta il reale col pensiero e la mente ha l’esigenza che il reale sia conforme al modo d’essere spirituale del pensiero, mentre il pensiero sente l’esigenza di rispecchiare la verità della realtà e quindi di essere informato da essa.

Il concetto è appunto prodotto dal pensiero finalizzato alla presenza rappresentativa intenzionale del reale nel soggetto conoscente o pensante. In Dio il Concetto cioè il Logos, è l’idea creatrice del mondo. In noi il concetto è necessario se l’oggetto deve esser reso intellegibile mediante l’attività astrattiva dell’intelletto. Se invece l’oggetto è per sé intellegibile, come i dati di coscienza, allora l’intelletto intuisce immediatamente l’oggetto.

Quanto alla questione della realtà esterna, che ci siano cose fuori di me non può essere oggetto di dimostrazione, come credeva Cartesio, perché l’appello ad esse è il principio di ogni dimostrazione, anche se è vero che, partendo da quella evidenza, esiste un dimostrare che si pone sul piano del rapporto con oggetti interiori e spirituali. Il pensiero e il pensato possono essere oggetto del pensiero Ma anche questo dimostrare suppone il dimostrare empirico e sperimentale.

La certezza intellettuale certo è più forte di quella sensibile. Ma non ne è affatto la garanzia, come credeva Cartesio. La certezza sensibile ha già valore per conto suo e se non ci fosse questa, non potrebbe esistere neppure la certezza intellettuale.

La certezza del pensare, dunque, non è affatto originaria, ma derivata dalla certezza di conoscere le cose. Se posso esser certo di ciò che è in me, è perché sono certo di ciò che è fuori di me. Cartesio col suo cogito ha rovesciato e invertito il normale procedimento col quale noi raggiungiamo la certezza.

La nozione del pensiero nasce quando impariamo a distinguere il senso dall’intelletto. Il materialista, che bada solo alle sensazioni e ai fantasmi dell’immaginazione, non sa che cosa è il pensiero. Questa nozione nasce quando mi accorgo di essere capace di superare l’immaginazione per formare il concetto, cioè sono capace di cogliere un’essenza universale astraendo dai particolari, ossia dallo spazio e dal tempo. C’è dunque in me una vita immateriale e spirituale, superiore allo spazio e al tempo, superiore alla materia. È la vita del pensiero, della riflessione, della ragione, della coscienza.

isogna distinguere il pensare dal sapere o conoscere, ma non allo stesso modo, come vedremo. Il sapere è un pensare; ma il pensare non è necessariamente un sapere. Conosco o so quando l’oggetto è preferibilmente reale, anche se esiste un sapere di enti ideali, come nella logica o nella matematica. Penso invece a cose solo possibili o pensabili semplicemente non contradditorie.

Il pensare umano fa uso dei sensi ed è conseguenza dell’uso dei sensi. Per questo suppone le cose, dall’esperienza delle quali trae quelle immagini, che illuminate dall’intelletto agente, mostrano all’intelletto possibile l’essenza delle cose. Successivamente il nostro pensiero si eleva mediante l’uso di nozioni analogiche, al pensiero delle cose spirituali e di Dio.

Il pensare divino non solo è puramente spirituale come quello angelico, ma è un pensare sussistente, coincidente con lo stesso essere divino, immediatamente e originariamente autocosciente e non in modo susseguente, derivato e mediato come avviene in noi, per i quali l’autocoscienza è possibile solo sulla base di un previo contatto con le cose esterne. In noi l’autocoscienza deriva dalla conoscenza delle cose. In Dio l’autocoscienza è il presupposto o condizione di possibilità della sua conoscenza creatrice delle cose.

Il concetto barzaghiano del pensiero

La teologia di Barzaghi pone in primo piano la vexata quaestio del confronto-scontro fra realismo e idealismo.  L’ideale è distinto dal reale o coincide col reale? Il pensiero è distinto dall’essere o coincide con l’essere? La Chiesa ha fatto la sua scelta, optando per l’evidente realismo presente nella Bibbia e per questo raccomanda San Tommaso come campione del realismo. Ancora di recente Papa Francesco ha definito in una breve formula la natura del realismo: il primato del reale sull’idea[1].

Posta l’identificazione propria dell’idealismo di pensiero ed essere, derivazione del cogito cartesiano, esistono, come nota lo stesso Kant[2], due forme di idealismo: una, che egli chiama idealismo «materiale», ossia quella di Berkeley, che comporta la riduzione dell’essere a pensiero (esse et percipi) e il suo idealismo, che egli chiama «trascendentale», che comporta l’elevazione del pensiero all’essere, ossia l’intelletto diventa forma del reale. Successivamente, con Fichte, diventerà non solo forma, ma posizione (setzen) del reale, fino a culminare in Hegel dove il concetto della cosa s’identifica con la cosa. Il pensiero è essere che pone se stesso.

L’idealista sa che cosa è la coscienza ed ha la percezione dello spirito. Ha anche quella dell’essere, mentre con alterigia e insincerità affetta disdegno per la conoscenza sperimentale della realtà materiale. In ciò egli deride il realista, che la considera vera realtà. Ma in realtà il vero spiritualista è il realista, che distingue l’apparire soggettivo dall’essere oggettivo e il senso dall’intelletto,[3] perché in realtà l’idealista, sia quello kantiano che quello berkeleyano, con tutta la loro esaltazione dell’assoluto, del pensiero e dello spirito, finiscono per confondere lo spirito con la materia e cadere nel materialismo.  In Kant l’uomo si esalta fino a credersi Dio e in Berkeley si abbassa nella sensualità.  La materia umiliata si vendica e lo spirito orgoglioso si acceca.

È vero che l’idealismo platonico, tendenzialmente dualista, rischia sia il rigorismo che il sensualismo per la mancanza di un giusto rapporto dello spirito con la materia, ma almeno Platone ha non ha la boria degli idealisti tedeschi ed ha l’umiltà di riconoscere che l’idea sussistente non è prodotto dell’uomo, ma figura della divinità.

Tuttavia bisogna dire che tra realismo ed idealismo, per la verità, esistono grazie a Dio tre punti di contatto, al di fuori dei quali però esiste un’opposizione radicale:

1. Entrambi mettono in primo piano l’interesse per l’essere, ma poi, mentre il realismo distingue il pensare dall’essere, l’idealismo li identifica.

2. Convengono nell’ammettere l’identità intenzionale di intelletto e realtà nell’atto del pensare o del conoscere, ma poi mentre il realismo li distingue ontologicamente, l’idealismo pone anche una identità ontologica;

3. Entrambi ammettono che in Dio pensare ed essere coincidono, ma mentre il realismo ammette tale identità solo in Dio, l’idealismo la afferma nell’essere come tale, cadendo quindi nel panteismo.

La posizione di Barzaghi su questo punto è profondamente incoerente e contradditoria, e diciamo pure odiosa per noi cattolici e realisti. Invece piace, come si può ben capire, agli idealisti e ai modernisti, come per esempio anche ai rahneriani, che praticano lo stesso inganno. Sotto colore di un tomismo più rigoroso e modernizzato, si tratta in realtà di una vera e propria beffa ai danni dell’Aquinate, che gli fa affermare proprio ciò che egli maggiormente odia, cioè la confusione idolatrica di Dio con l’uomo.

Infatti la posizione suddetta, da una parte come vedremo fa aperta professione di idealismo, ma dall’altra si presenta come campione di tomismo interpretando l’Aquinate in relazione a Parmenide, Gentile, Severino e Bontadini, e quindi facendone un idealista. Come se ciò non bastasse, ma del resto con logica conseguenza, egli accusa di essere falsi tomisti i realisti, che sono invece i veri tomisti. Non si troverà il modo per rimediare a simile sfrontatezza?

Riguardo al concetto barzaghiano del pensiero cominciamo col citare le seguenti parole:

«nel guardare dentro noi stessi scopriamo la natura solitaria e onnicomprensiva del pensiero … L’intero è tutto e a sé stante. … L’atto del pensare è intrascendibile e dunque onninclusivo. … Quando cerco di descrivere il pensiero come atto o il pensare, non posso fare a meno di presentarlo come l’estensione infinita dell’essere, che non esclude nulla da sè. … Il pensiero e l’essere sono la stessa cosa, perchè come nulla è fuori dell’essere, nulla è fuori del pensiero. Perciò il pensiero è la trasparenza di tutto, cioè dell’essere, contro il quale sta il nulla, cioè niente»[4].

È interessante che subito dopo riferisce come gli abbiano dato del panteista. C’è forse da meravigliarsi? È veramente questo il nostro pensare o non è piuttosto questo il pensare divino? Respinge sdegnosamente l’accusa. Ma se quanto dice non è panteismo, allora che cosa è il panteismo?

Infatti, questo atto del pensare del quale parla, è un atto di chi? È un atto nostro? È un atto del nostro pensare? Chi è il soggetto di questo pensare? Siamo noi che attuiamo questo pensiero? Chi compie questo atto del pensiero? Non lo dice. Il fatto è che qui egli non dà la definizione del pensiero come tale, ma del pensiero divino. Infatti, per stare nella verità delle cose, il pensare di per sé e come tale è intenzione o rappresentazione di essere ed è quindi distinto dall’essere, che è il suo oggetto.  Così è il pensare in noi.

Egli chiama anche «Intero» l’atto del pensiero. Ma si capisce subito di quale pensiero parla: è il pensiero divino. Infatti l’Intero è «il quadro speculativo assoluto nel quale procede la fondazione dei contenuti, risulta dalla eliminazione di ogni alterità presupposta al pensiero». Nel pensare umano il reale è presupposto al pensiero. «L’Intero è autoriflessivo: l’autocoscienza come rispecchiamento assoluto dell’ordine»[5]. Ecco dunque la solita abitudine di intendere il pensiero come pensiero divino, cosicchè l’uomo che pensa è Dio.

Osserviamo che se c’è un pensare che coincide con l’essere, questo non è il pensare come tale, non è il pensiero come pensiero, che attuiamo anche noi, ma è il pensiero nelle condizioni divine, è quel pensare che solo Dio attua in quanto Dio.  Con la sua definizione del pensiero è evidente allora che egli attribuisce all’uomo il pensiero divino. E cos’è questo se non panteismo? È quindi una forma di insincerità che egli faccia il panteista senza voler riconoscere di essere panteista. Perché non lo riconosce apertamente? Probabilmente perché sa che è un errore.

Ma allora vorremmo chiedergli: in che cosa consiste questo errore? Che cosa è il panteismo? Lo definisce San Pio X nella Pascendi al n.80. Esso sta nel fatto di non accettare una rivelazione divina esterna, cioè l’esternità o trascendenza dell’essere rispetto al pensiero, ma nel sostenere l’immanenza dell’essere divino nel pensiero umano, ossia nel dire che il pensiero umano è intrascendibile, appunto come dice Barzaghi. 

Quale altra definizione del panteismo egli ci può dare? Come vedremo, egli indulge all’idealismo. Ma lo sa che l’idealismo porta al panteismo?  Crede forse con queste sue idee di essere realista? Di essere tomista? Come vedremo, vorrebbe interpretare Tommaso in senso idealista. Ma è un’operazione leale?

Del resto egli accetta il panteismo quando fa propria questa sentenza di Plotino, che è un’ottima espressione sintetica del panteismo di origine parmenidea: «Tutto è dovunque e tutto è tutto e ogni singolo è tutto»[6].

È vero che riconosce che «il nostro pensare non si identifica assolutamente con Dio»[7] e che «il nostro pensiero, visto in sé stesso, è l’ombra di Dio»[8]. Ma poi nello stesso luogo ribadisce la sua concezione divinizzata del pensiero:

«Il pensiero è pensiero delle cose; quando è pensiero di se stesso, sembra pensiero di nulla; eppure è pensare, sempre in atto, eterno, solo»[9]. Il pensiero «trova in sé stesso il proprio tesoro»[10].

Dunque siamo daccapo. Bisogna infatti dire che il pensiero come fine a sé stesso, eterno, vastità illimitata, pensiero soddisfatto di sé stesso e della propria solitudine non è affatto il pensare umano, ma solo quello divino.

Non gli viene mai in mente di concepire il pensiero come potenza di pensare, come passaggio di pensare in potenza al pensare in atto, il che dimostrerebbe che anche il pensare umano è vero pensiero, ma sempre parla, alla maniera di Gentile, di pensiero come atto, come atto puro, cosa che di per sé appartiene solo a Dio. Egli parla bensì di pensiero come «facoltà umana», ma per lui si tratta di una visione grossolana, non filosofica, «cosmologica», ossia materialistica e «psicologica» ossia animalista del pensiero.

Egli identifica pensiero ed essere perché non distingue il pensabile dal pensato in quanto pensato, ossia ente mentale. Infatti il pensiero si distingue dall’essere proprio perché esiste un essere non pensato. Per lui invece l’essere è l’essere pensato. Tutto è pensato. Non esiste un essere non pensato.

Sostiene infatti che non esiste un essere da noi non pensato, perché nel momento in cui lo penso diventa pensato. Senonchè egli sbaglia. Dove sta il sofisma? Nel fatto che è vero che il non pensato diventa pensato nella mia mente a livello di rappresentazione, ma in sé stesso, fuori della mia mente, nella realtà, il non pensato continua ad esistere e come tale non pensato. E resterà da me non pensato finchè non ne avrò scoperto l’esistenza e lo avrò conosciuto. Altrimenti posso pensarlo solo come non pensato e diventa pensato solo nel mio concetto, ma non nella realtà.

Il non pensato è un dato reale e oggettivo per la mente umana, un dato innegabile, che testimonia della limitatezza dell’umano pensare. Credere che non esistano cose alle quali non pensiamo, salvo che non sia una battuta scherzosa, è un’intollerabile spacconata. È semmai l’effetto di un raffinato sofisma idealistico. Infatti, anche quando penso al tutto o alla totalità o all’assoluto, questo non vuol dire che non esista fuori di me un’infinità di cose da me ignorate.

E qui non vale distinguere il pensare dal conoscere. È chiaro infatti che il non pensato è lo sconosciuto e viceversa. Quindi non posso dire che non conosco il non pensato, ma lo penso. Se è non pensato certamente non è conosciuto. Non è il conoscere che deriva dal pensare, come crede Barzaghi al seguito di Cartesio, ma è il pensare e il riflettere che deriva dal conoscere. Il punto di partenza del sapere non è io penso, ma io conosco. Esiste per noi un pensare o intuire non concettuale e anche metaconcettuale, ma non esiste un pensare preconcettuale. Questo è proprio solo di Dio.

Precisiamo che il fatto che io pensi il non pensato non toglie la sua oggettività extramentale, non toglie la sua realtà. Altrimenti trasformerei la mia mente nella mente divina, per la quale sola non esiste nulla di non pensato, perché tutto è effetto del suo pensiero. Ma allora siamo daccapo un’altra volta col panteismo.

Così Barzaghi accusa il realista di contraddirsi perché ammette l’esistenza di un pensato non pensato. Secondo lui il realista ammetterebbe l’esistenza di un pensato non pensato, il che è effettivamente assurdo. Ma lo sbaglio è in lui. In realtà è l’idealista a contraddirsi perché da una parte, ritenendo che sia vero quello che dice è obbligato a ritenere che il suo pensiero sia adeguato all’essere e quindi è costretto a distinguere il pensiero dall’essere, mentre d’altra parte vuole identificare il pensiero con l’essere.

Ciò dipende dal fatto che gli manca la considerazione dell’essere pensabile, che è l’essere presupposto al pensiero, indipendente dal pensiero e regola del pensiero. Dice infatti che «il pensabile è già di suo un pensato in atto»[11]. Ora questo vale solo per il pensiero divino, atto puro di pensare sussistente. Ma per noi il pensabile esiste come realtà pensabile prima di essere da noi pensata, ammesso che lo sia. Il pensabile per l’idealista è solo il non-contradditorio, il che va anche bene, ma è troppo poco, perché qui siamo solo sul piano del possibile, ossia del realizzabile. Invece il pensabile per noi è innanzitutto il reale esterno, la cui possibilità è fuori dubbio, perché se esiste è segno che poteva esistere.

Afferma così di accogliere la «lezione dell’idealismo», secondo il quale «l’intero dell’essere è perfettamente immanente alla pura trasparenza del pensiero»[12]. Ciò vale tuttavia solo per Dio. Se lo applichiamo all’uomo, abbiamo il tipico immanentismo panteista.

Come si sa, l’idealista considera con alterigia e disprezzo, come ingenua e acritica, la concezione realistica del pensiero. In modo simile il vignaiolo, che conosce il buon vino, guarda con disprezzo il vino fatto con le polverine. E il bello è che si vanta poi di comprendere a fondo, più degli stessi realisti, il vero senso della gnoseologia tomista, similmente a Rahner; un’interpretazione idealistica alla luce del pensiero di Severino.

Nel suo disprezzo del realismo egli è influenzato dal suo maestro Bontadini[13], il quale era giustamente preoccupato di assicurare la convenienza dell’essere col pensiero, ma credeva che questa fosse assicurata solo dall’idealismo perchè confondeva l’esternità dell’essere al pensiero con una supposta estraneità, che è assolutamente contraria al vero realismo. È nell’errore che l’essere diventa estraneo al pensiero, ma nella percezione della verità del pensiero. il pensiero è conforme all’essere. Tuttavia, per assicurare tale conformità non è affatto necessario identificare il pensiero con l’essere, atto che è esclusivamente proprio del pensare divino.

L’opera che affronta per esteso la questione del pensiero è Philosophia. Il piacere di pensare[14]. Pensare certamente dà piacere, come fanno piacere tutte le attività naturali della nostra vita. Tuttavia il piacere di pensare non è fine a sé stesso. Il pensare è funzionale al suo oggetto. Il piacere di pensare dipende dalla piacevolezza della cosa alla quale pensiamo. Pensare a una disgrazia incombente non è affatto piacevole. Pensare a Dio è la più grande felicità.  Ora egli si ferma esclusivamente a tessere le lodi della bellezza del pensare, ma in modo anche esagerato, tanto da assimilare il pensare a Dio stesso. È quella che egli chiama idealisticamente «autocoscienza».

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli  

Fontanellato, 28 luglio 2025

La necessità del concetto è data dal fatto che la mente contatta il reale col pensiero e la mente ha l’esigenza che il reale sia conforme al modo d’essere spirituale del pensiero, mentre il pensiero sente l’esigenza di rispecchiare la verità della realtà e quindi di essere informato da essa. 

Il concetto è appunto prodotto dal pensiero finalizzato alla presenza rappresentativa intenzionale del reale nel soggetto conoscente o pensante. In Dio il Concetto cioè il Logos, è l’idea creatrice del mondo. In noi il concetto è necessario se l’oggetto deve esser reso intellegibile mediante l’attività astrattiva dell’intelletto. Se invece l’oggetto è per sé intellegibile, come i dati di coscienza, allora l’intelletto intuisce immediatamente l’oggetto.

Quanto alla questione della realtà esterna, che ci siano cose fuori di me non può essere oggetto di dimostrazione, come credeva Cartesio, perché l’appello ad esse è il principio di ogni dimostrazione, anche se è vero che, partendo da quella evidenza, esiste un dimostrare che si pone sul piano del rapporto con oggetti interiori e spirituali. Il pensiero e il pensato possono essere oggetto del pensiero Ma anche questo dimostrare suppone il dimostrare empirico e sperimentale.

La certezza intellettuale certo è più forte di quella sensibile. Ma non ne è affatto la garanzia, come credeva Cartesio. La certezza sensibile ha già valore per conto suo e se non ci fosse questa, non potrebbe esistere neppure la certezza intellettuale.

Immagine da Internet:  Statue di Socrate e Platone davanti all'Accademia di Atene, scolpite da Leonidas Drosis, XIX secolo



[1] Vedi il mio articolo La dipendenza dell’idea dalla realtà nell’Evangelii gaudium di papa Francesco, in PATH, 2/2014, pp.287-316.

[2] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.234.

[3] Cf Sum. Theol., I, q.85, a.2, dove troviamo la confutazione dell’idealismo.

[4] Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Edizioni ESD, Bologna 1997, pp.46-47.

[5] Disegno-Mistero eterno: la simultaneità dell’ispezione, in Sacra Doctrina,1, 2024, p.26. Pio XII ha condannato l’idealismo nell’enciclica Humani generis del 1950. Naturalmente egli non si riferisce all’idealismo platonico, ammirato e seguìto da Sant’Agostino e dai Padri della Chiesa, ma si riferisce all’idealismo, che, nato da Cartesio, conduce ad Hegel e quindi al panteismo e all’ateismo.

[6] Citato in La fuga. Esercizi di filosofia, Edizioni ESD, Bologna 2010, p.145.

[7] Soliloqui, op. cit., p.52.

[8] Ibid., p.53.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] L’inseità redentiva della creazione. Logica anagogica e metafisica della Redenzione, in Divus Thomas, N.37, 2003, p.233.

[12] Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Edizioni ESD, Bologna 2012, pp.275-276.

[13] Vedi La potenza obbedienziale dell’intelletto agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione in Angelicum, 2, 2003, p.282.

[14] Edizioni Il Poligrafo, Padova 1999.

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