Dalla ragione alla fede e dalla fede alla ragione. In margine ad alcuni Discorsi del Papa - Seconda Parte (2/2)

 

Dalla ragione alla fede e dalla fede alla ragione

In margine ad alcuni Discorsi del Papa

 

Seconda Parte (2/2)

La via di San Tommaso

La sapienza dell’Aquinate è una manuductio ad fidem, è una scuola di apologetica. Tommaso ci propone di educare la nostra ragione per prepararla a all’ascolto della Parola di Dio e a ricevere la luce della fede, come San Giovanni Battista ha preparato le vie del Signore con la predicazione della giustizia e delle opere buone. La vita spirituale inizia con l’esercizio della ragione partendo dall’esperienza sensibile e quando la ragione s’imbatte nella testimonianza del cristiano, se essa è onesta e non chiude gli occhi alla verità. per grazia di Dio la ragione si apre alla luce della fede e trascende sé stessa cogliendo verità divine che da sola non avrebbe mai potuto raggiungere.

Tanto Agostino quanto Tommaso sanno che se vogliamo condurre gli uomini alla fede cristiana, dobbiamo prepararli con un’adeguata opera di persuasione accompagnata da convincenti segni di credibilità. Questo metodo è esplicitamente insegnato dal Beato Pio IX in un documento curiale del 1855: «l’uso della ragione precede la fede e ad essa conduce l’uomo per opera della rivelazione e della grazia» (Denz.2817).

In tal modo l’uomo si apre alla fede, la quale, come insegna il Concilio Vaticano I, che riprende la dottrina di Tommaso, è «la virtù soprannaturale, per la quale, sotto l’ispirazione divina e con l’aiuto della grazia, crediamo esser vere quelle cose che Egli ha rivelato, non a causa della verità intrinseca delle cose perscrutate, ma per l’autorità di Dio stesso rivelante, che non può ingannarsi né può ingannare» (Denz.3008).

Tommaso c’insegna altresì che oggetto della fede non è l’esistenza di Dio, che invece veniamo a conoscere mediante l’esercizio della ragione. L’attività del nostro intelletto non comincia con la fede in Dio per passare all’attività della ragione, ma al contrario inizia con l’attività della ragione susseguente all’esperienza sensibile, per elevarsi successivamente, per grazia di Dio, alla conoscenza di fede.

Tommaso sa che per sapere che Dio esiste non basta possedere il concetto dell’assoluto, che possiamo costruire da soli per conto nostro. Ma bisogna applicare il principio di causalità davanti allo spettacolo delle cose che ci stanno davanti e al nostro stesso esistere. Anche quando formiamo una bella idea di Dio nella nostra mente, il problema è quello della causa della realtà che ci sta davanti. E la domanda è: qual è la causa di questa realtà? Essa non potrà essere la nostra idea, per quanto bella, ma sarà una realtà trascendente, che dia ragione sufficiente di quanto esiste. Dovrà essere anche la causa della nostra idea.

Tanto Agostino che Tommaso sanno che la ragione scopre o dimostra l’esistenza di Dio perché essa, davanti alle cose finite, contingenti, corruttibili e mutevoli si chiede perché esistono, quale ne è l’origine, il fine e la causa, in sostanza, come dice la Scrittura, chi le ha fatte. E per questo la Scrittura giudica stolti coloro che davanti allo spettacolo meraviglioso delle cose di questo mondo, non si domandano chi le ha fatte o attribuiscono ad esse delle cause insufficienti: «non riconobbero l’artefice pur considerandone le opere» (Sap 13,1). La ragione arriva a sapere e ad affermare che Dio esiste, perché s’interroga sulla causa dell’esistente, della realtà.

È solo quando ha capito che questa causa è la causa prima, il motore immobile, il fine ultimo, il creatore e produttore delle cose dal nulla, è solo allora che capisce che questo ente supremo primo, sommo bene, che chiama «Dio», è «Colui Che È» (Sap 13,1), Colui la cui essenza è quella di essere. per cui non può assolutamente non esistere, Colui che esiste per essenza, nel quale essenza ed esistenza coincidono, l’ipsum Esse per se subsistens, atto puro di essere.

Anselmo dice: basta sapere chi è Dio per sapere che esiste. Sì, ma chi sa che Dio è quell’ente la cui essenza è quella di esistere, è già pervenuto a sapere che esiste partendo dalle opere da Lui fatte. Il sapere che Dio non può non esistere non è il punto di partenza, ma la conclusione che si trae circa la sua essenza dopo aver capito che Egli esiste come causa e creatore del mondo.

Io posso certo formami per conto mio il concetto di un ente la cui essenza è quella di esistere anche prima di sapere che Dio esiste o aver dimostrato che esiste partendo dall’esperienza delle cose. Ma ponendomi il problema dell’esistenza di Dio come causa prima del mondo, per poter affermare che questa causa esiste, devo capire che essa esiste come causa delle cose che vedo e non basta che io abbia già nella mia mente il concetto di un ente che non può non esistere. Infatti chi mi autorizza a far sì che un mio semplice pensiero o concetto basti ad affermare o giudicare che a quel concetto corrisponde una realtà? Io posso farmi un concetto di Dio avendo scoperto che Egli esiste, ma non posso affermare che Egli esiste solo perché ne ho il concetto, per quanto vero esso sia.

Forse che il mio concetto produce l’esistenza di Dio? Non finisco per confondere l’esistenza pensata con l’esistenza reale? È il mio pensiero che dipende da Dio o è Dio che dipende dal mio pensiero? È il mio concetto di Dio che si ricava dalla realtà divina o è la realtà divina ad essere prodotta dal mio concetto? Sant’Anselmo certo era realista, ma non si è reso conto delle conseguenze empie che gli idealisti a cominciare da Cartesio avrebbero potuto trarre dalle sue premesse.

San Tommaso chiarisce con la dottrina dell’intelletto agente la gnoseologia agostiniana, per la quale sembra che la nostra mente per conoscere la verità abbia bisogno di vedere direttamente la verità divina. Nel sec. XIX alcuni teologi, sempre credendo di interpretare Agostino, fecero un discorso simile riguardo all’intellezione dell’essere, sostenendo che la percezione originaria dell’essere divino sarebbe la condizione di possibilità dell’esperienza dell’essere delle cose. Furono chiamati «ontologisti» e le loro tesi furono condannate dal Sant’Uffizio nel 1861 (Denz.2841-2847)[1]. Nel 1887 il Sant’Uffizio condannò alcune tesi simili attribuite al Beato Antonio Rosmini (Denz.3204, 3205, 3206, 3207).

Tommaso riprende l’osservazione agostiniana, alla quale forse si rifaceva Rosmini, che il nostro intelletto naturalmente aperto alle verità eterne con ciò stesso si apre la quella verità eterna che è Dio. Ma spiega dicendo che «le specie intellegibili per mezzo delle quali la nostra anima intende la verità di nuovo avvengono in forza dell’intelletto agente», sicchè «le verità intese si fondano su di un qualcosa di eterno, ossia sulla prima verità, che è la causa universale contenente ogni verità»[2]. E quale sarà questa causa, se non Dio? Occorre però che affinchè l’intelletto giunga a un vero rapporto con Dio, Egli appaia appunto come verità divina.

Così pure Tommaso nota che «tutti i conoscenti conoscono implicitamente Dio in qualunque cosa conosciuta. Come infatti nulla ha ragione di appetibile se non per somiglianza alla prima bontà, così nulla è conoscibile se non per somiglianza alla prima verità»[3]. Parimenti anche qui occorre però che Dio appaia come prima bontà. La conoscenza implicita deve diventare esplicita.[4]

Agostino e Tommaso si guardano bene dal fare il ragionamento imprudente di Anselmo. Regolano strettamente e realisticamente il pensiero sulla base della realtà sperimentata e solo quando capiscono che il mondo ha un creatore, allora arrivano a capire che questo Creatore è un ente supremo, la cui esistenza coincide con la sua essenza.

Naturalmente Anselmo, da buon realista, distingue la realtà nella mente (il concetto) dalla realtà in sé fuori della mente.  E quindi è preoccupato di affermare di Dio qualcosa che sia fuori della mente, sapendo benissimo che Dio trascende la nostra mente.  Ma purtroppo gli capita la sventura, certo non voluta, di non accorgersi che per poter affermare qualcosa di esistente - su Dio come su ogni altra cosa - non basta averla nella mente, ma occorre che lo ricaviamo mediatamente o immediatamente da un contatto sensibile o da una constatazione della realtà esterna alla mente.

Ora è vero che Dio è l’id quo nihil maius cogitari potest, e che l’essere nella realtà è più che essere nella mente ma ciò lo sappiamo non perché lo abbiamo pensato, ma perché, avendo scoperto la realtà esterna di Dio come causa della realtà intera, ci accorgiamo che questa causa, per poter essere sufficiente, dev’esser tale da  esistere per essenza.

Osservo che noi non partiamo dal concetto di Dio per affermare che Dio esiste, ma ci formiamo il concetto di Dio come essere sussistente perché abbiamo dimostrato per ea quae facta sunt che Egli esiste.  Chi ha capito che Dio è l’ipsum esse dimostra sì di avere un’alta intelligenza teologica e metafisica, ma o ha già dimostrato che Dio esiste per via di causalità o deve ancora sapere se questo ipsum esse esiste veramente e per saperlo non basta una riflessione sul significato del concetto, ma deve ancora scoprire che per induzione, partendo dall’esperienza delle cose, esiste la causa creatrice del mondo.

La via a Dio agostiniana della fede come allargamento all’assoluto della nozione della verità pare assomigliare a quella che Bontadini chiama via «breve», a suo giudizio più radicale e rigorosa di quella per causalità di Agostino, di Tommaso e della stessa Scrittura. Di che si tratta?  Bontadini riconosce che il divenire è reale e testimoniato dall’esperienza, ma, secondo lui, si porrebbe in contrasto con l’esigenza della ragione di affermare il principio fondamentale che l’«essere non può non essere».

Infatti, per Bontadini, che qui segue Severino, l’essere che può non essere sarebbe contradditorio, perché sarebbe come dire che «l’essere è niente» ovvero in realtà, sarebbe un essere che non è. Ma Bontadi8ni confonde il possibile con l’attuale e così succede che non sa come impedire che il diveniente o il contingente sia contradditorio.  Per uscire da questo dilemma, Bontadini propone appunto la sua via verso Dio, che non è realista ma idealista, e che può sembrar simile all’argomento ontologico di Anselmo. Ma Bontadini non ha la preoccupazione realistica di Anselmo di affermare che l’essere divino è fuori della mente, bensì parte dall’assioma idealistico dell’identità del pensiero con l'essere. Quindi alla fine la via breve di Bontadini è un procedimento puramente intramentale che, ignorando la funzione della causalità e credendo di poter utilizzare solo il principio di non-contraddizione nella versione parmenideo-severiniana («l’essere non può non essere»), alla fine non apre nessuna via al Dio reale ma al Dio pensato degli idealisti.

Agostino e Tommaso ci fanno notare che la causa prima, ente supremo e fine ultimo, dedotta dalla incapacità delle creature a spiegare la propria esistenza, esiste e la chiamiamo «Dio». Solo così sappiamo che Dio esiste. E così ci accorgeremo che in lui la sua essenza coincide con la sua esistenza. Per questo, Dio non può non esistere; esiste per essenza. Ma anche quando noi Lo avessimo concepito così, non abbiamo ancora la certezza che esista realmente, se in precedenza non abbiamo capito che esiste basandoci sulla conoscenza delle sue creature. Noi quindi non sappiamo che Dio esiste in base ad una definizione della sua essenza, per quanto giusta e sublime, ma solo perchè ci siamo interrogati sulla causa della realtà.

Come è noto Tommaso si chiede se esiste Dio (utrum Deus sit) ponendosi nell’atteggiamento di chi intende provarne l’esistenza. E da ciò sorgono le famose cinque vie. Tommaso sembra voler dimostrare che Dio esiste a uno che non lo sa, per persuaderlo con argomenti stringenti. Ma in realtà egli sa bene che tutti sanno che Dio esiste e che a Lui dobbiamo render conto del nostro operato. Egli pertanto fa questa dimostrazione per chiarirci ciò che sappiamo già.

Egli parte dalla definizione nominale di Dio, ossia dal significato della parola «Dio» come causa prima e dimostra che se non esistesse una causa prima, nella retrocessione delle cause causate, dovremmo andare all’infinito, cosa che è esclusa da Aristotele per non cadere nell’assurdo di un causato senza causa sufficiente. Occorre dunque fermarsi o, come dice Aristotele, ananke stenai, osservando che se non ci fosse l’immobile come riferimento fisso del mutevole, non ci sarebbe neppure il mutevole. Agostino fa a meno del riferimento al processo all’infinito e si limita a riprendere l’insegnamento biblico, che distingue per analogia (Sap 13,5) la creatura dal creatore come l’opera dall’artefice.

Anche Tommaso ovviamente gioca sulle dualità metafisiche di ente contingente, ed ente necessario, ente composto di potenza ed atto ed ente come atto puro, ente composto di essenza ed essere ed ente come essere sussistente, ente con esse ab alio ed ente con esse a se, essere per partecipazione ed essere per essenza, ente finito ed ente infinito ed altre.

Inoltre Tommaso ci ricorda che Dio non è il primum cognitum del nostro intelletto, ossia non è l’oggetto immediato iniziale del nostro sapere, perché questo è la realtà degli enti che ci circondano; non è, come dicono i rahneriani l’oggetto preconcettuale e atematico di una supposta autocoscienza originaria.

Infatti l’autocoscienza o coscienza dal sé consegue alla coscienza di ciò che vi è contenuto e questa segue alla conoscenza delle cose. Dio è da noi avvertito nella nostra coscienza solo dopo che lo ha scoperto indagando sull’origine della realtà esterna, che è l’oggetto iniziale ed immediato della ragione, ossia è la quiddità delle cose materiali, note soltanto le quali possiamo elevarci alla conoscenza delle realtà spirituali e quindi a quella suprema che è Dio stesso. Solo a questo punto si pone la questione di credere a ciò che Dio ci rivela.

L’intellettualismo tomista dà il primato dell’intelletto sulla volontà non solo nel senso genetico, giacchè anche Agostino sa che nihil volitum nisi cognitum, ma anche assiologico, in quanto egli sa bene che la beatitudine finale consiste in un atto dell’intelletto: «Lo vedremo così come Egli È» (I Gv 3,2). Ad ogni modo anche Tommaso sa benissimo che la cosa più importante quaggiù non è conoscere - questo è il vizio dello gnosticismo -, ma amare. Sa benissimo che la fede è atto dell’intelletto mosso dalla volontà. Tommaso però, privo del carisma episcopale, non ha potuto avere quel sapere concreto della persona, del quale ha potuto fruire Agostino in quanto pastore della Chiesa. Per converso, Tommaso tra tutti i Dottori scolastici, per riconoscimento dei Papi da otto secoli, è quello che più in alto di tutti ha innalzato la forza dell’intelletto speculativo nell’intuizione della verità rivelata. Il difetto del tomista può essere quello dell’astrattismo; quello dell’agostiniano può essere il volontarismo.

Tommaso giunge alla scoperta dello spirito applicando il principio di causalità, ossia ricavando la causa dall’effetto, mentre quando conosciamo la causa, sappiamo qual è l’effetto e perché l’effetto è prodotto. Tommaso chiarisce meglio di Agostino l’attività naturale dell’intelletto e della volontà umana nel processo della conoscenza distinguendo nella linea di Aristotele l’intelletto agente dall’intelletto possibile.

Tommaso sa che non è possibile elevarsi ai valori dello spirito se non partendo dalle certezze sensibili. Sa che è partendo da queste che noi possiamo scoprire la esistenza e il valore del mondo dello spirito e quindi arrivare a Dio. Agostino avverte spontaneamente in sé stesso l’importanza dello spirito e ne coltiva la conoscenza e l’amore.

Il cogito di Agostino non è quello di Cartesio

Il confronto tra i due Dottori Agostino Tommaso fu già ben delineato dal Maritain nella sua famosa opera I Gradi del sapere, al quale rimando[5].  Invece il confronto fatto dal Gilson, per quanto accurato e documentato[6], risente di una interpretazione della autocoscienza agostiniana in sé giusta, ma che Gilson erroneamente interpreta come un precorrimento del cogito cartesiano, quando lo stesso Cartesio, richiesto da Arnauld, se il suo cogito non fosse già presente in Agostino, smentì seccamente, e ne aveva ben donde, giacchè, al di là della apparenza,  per Cartesio se io sono certo di esistere non è perché, avendo riflettuto sul previo contatto sensibile avuto con le cose esterne, mi accorgo  che, se le penso, esisto, come fa Agostino, ma sono certo di esistere perchè penso (cogito) non nel senso che pensi qualcosa, ma nel senso che dubito e sostituisco volontariamente la certezza al dubbio, sicchè, come osservò giustamente il Fabro, il cogito cartesiano è sostanziante un volo[7].  Agostino invece non parla di dubitare ma di errare: «si fallor, sum». Un conto è dubitare della verità e un conto è fallire nel cogliere la verità. Chi dubita, non riconosce la verità. Chi sbaglia, sa che la verità esiste, ma non la coglie.

Comunque Agostino si avvicina a Cartesio, quando dice che quando anche io sbagliassi in tutto, di una cosa almeno sono certo: che io esisto: si fallor, sum. Senonchè però tra Agostino e Cartesio resta un abisso: mentre Cartesio affaerma ol proprio esistere per un atto di volontà, Agostino riconosce il proprio esistere perché adegua il proprio giudizio alla realtà. Così, mentre Agostino resta vincolato indissolubilmente alla verità, Cartesio, che non ha compiuto altro che un atto di libera scelta, <<si riserva sempre la facoltà di dire sì o no alla verità a seconda di come gli conviene.

La certezza di esistere, cioè, alla quale giunge Cartesio, non è una certezza necessitata dalla presenza o percezione della verità del proprio esistere, come in Agostino, ma è una certezza forzata, effetto della decisione della volontà; il dubbio non è risolto, ma resta; è tolto con la forza.

Il dubbio cartesiano nulla ha a che vedere con la universalis dubitatio de veritate [8], della quale parla San Tommaso, della quale dichiara la possibilità di essere significata, ma non esercitata. Invece il cosiddetto dubbio «metodico» di Cartesio è veramente esercitato proprio come condizione e premessa del sum.  Ora invece dobbiamo dire che il vero dubbio metodico, come via al sapere è un dubbio motivato e ragionevole, e non artificioso come quello di Cartesio, dubbio del tutto alieno dal sensato dubitare agostiniano, suscitatore di problemi seri e reali, mentre il dubbio universale di Cartesio è un dubbio irragionevole che non porta a niente se non all’azzeramento del pensiero sul nascere. Appena esso viene in mente ad Agostino, subito viene scartato, come fa anche Tommaso.

Ma il fatto è che il problema e il desiderio vero di Cartesio non è quello della verità, come per Agostino, ma della certezza, che – si noti bene – non riguarda solo l’intelletto, ma anche la volontà, mentre il problema della verità tocca solo lo intelletto. È possibile infatti esser certi anche per una semplice decisione della volontà. Ma la questione della verità o del sapere è solo affare dell’intelletto. Anche il pensare può essere effetto della volontà. Ed è significativo che Cartesio non dica scio, ma cogito. Così pure il fallor agostiniano non è il cogito cartesiano, perchè il fatto che io mi sbagli non significa che io dubiti della verità, ma semplicemente che non la conosco. L’ errore è connesso con l’ignoranza, non col dubbio.

Agostino sa che la verità esiste e tutti pretendono di conoscerla, lo riconoscano o no. Egli sa che lo sanno anche gli Accademici, giacchè nel momento in cui si dice che la verità non esiste si è obbligati a sottintendere che è vero che la verità non esiste e quindi ci si confuta da sé.

Il problema di Agostino è quello di trovare la verità, di sapere se la scienza è possibile; è quello di evitare l’errore e l’ignoranza, il che suppone che si crede nella verità, anche se pure lui ha il problema della certezza, ma sempre in ordine a quello della verità e non fine a se stesso.

Certo anche Agostino dubita, ma non dubita di tutto come Cartesio, perché sa che non si può dubitare dell’esistenza a verità. Il problema per Agostino è solo quello di sapere dov’è e qual è la verità.  Per questo Agostino sa, mentre Cartesio semplicemente pensa, lasciando l’ombra del dubbio sotto quel pensare senza oggetto. Il dubbio più radicale è quello di Agostino, non quello di Cartesio, perché il dubitare di Cartesio, come abbiamo visto, è assurdo e severamente condannato dal punto di vista etico sotto il titolo di impugnazione della verità conosciuta.

Per questo possiamo dire che a Cartesio, nonostante le sue dichiarazioni, non interessa la verità, ma la certezza e la fermezza del giudizio, che può aversi anche indipendentemente dal sapere. Se veramente gli avesse interessato la verità, non avrebbe avanzato quei dubbi assurdi sui sensi, sulle scienze, sulla matematica, sulla logica, sull’etica, sulla storia, sulla metafisica e sulla teologia, fino alla figura superstiziosa del «genio maligno», che prepara la scoperta del cogito.

Altra differenza abissale tra l’autocoscienza agostiniana e quella cartesiana è data dal fatto che mentre la fondazione agostiniana del valore della verità giustificata dalla volontà di Agostino di distruggere lo scetticismo degli Accademici, come del resto Tommaso si oppone alla sofistica di Protagora  nel commento alla Metafisica di Aristotele, la pretesa rifondazione della verità operata da Cartesio, benché anche ai suoi tempi lo scetticismo fosse diffuso, si basa su di un’irragionevole e gratuita messa in dubbio del sapere del suo tempo, senza che se ne avesse alcun bisogno, ma per un proposito perverso di dubitare dell’indubitabile e voler rifondare  quello che è già fondato.

Cartesio ha infranto il precetto paolino che proibisce di porre un fondamento diverso da quello che già esiste (I Cor 3,11). Ai tempi di Cartesio certamente esistevano correnti di pensiero impelagate nel soggettivismo e nello scetticismo, ma mai il pensiero tomista era stato così forte come dopo la riforma della teologia scolastica promossa dal Concilio di Trento, che aveva visto non solo l’irrobustirsi e il rifiorire della sapienza domenicana, ma anche il sorgere vigoroso del tomismo della Compagnia di Gesù.

È vero che alla fine del secolo precedente si era verificata la controversia fra Domenicani e Gesuiti circa il rapporto della grazia col libero arbitrio. Ma i Domenicani con Domingo Bañez avevano chiarito contro il pelagianesimo di Molina i termini di questo mistero proponendo la dottrina della premozione fisica, per la quale Dio non solo rispetta la scelta del libero arbitrio, ma è precisamente la causa creatrice e motrice della libertà dell’atto stesso, ed inoltre distinguendo la grazia sufficiente, che è quella che Dio offre a tutti, dalla grazia efficace, che è quella che effettivamente salva gli eletti. 

Inoltre Bañez distingueva la grazia preveniente, che ha l’iniziativa dell’opera della salvezza, dalla grazia conseguente, che è quella meritata dal merito soprannaturale, chiarendo la dottrina agostiniana secondo la quale i nostri stessi meriti sono dono della grazia.  

È chiaro dunque che tutto ciò era costruito sulla base della precedente teologia agostiniana della grazia, mantenendo il primato della grazia, togliendo l’aspetto di arbitrario che poteva avere il mistero della predestinazione e mostrando meglio la dignità del libero arbitrio.

Come dunque e con quale giudizio Cartesio si permette di mettere in dubbio non solo tutto l’insegnamento che aveva ricevuto dai suoi studi filosofici ma addirittura tutto il sapere fino ad allora conseguìto dall’umanità? Con quale diritto? Nessuno, ma solo per protervia.

Certo alla fine del secolo precedente c’erano state anche le terribili guerre di religione fra cattolici e protestanti, che in molti avevano scosso la certezza di poter conoscere la verità. Ma a nessuno era impedito di ricorrere alla teologia tomista, la quale aveva retto benissimo all’attacco del luteranesimo respingendone vittoriosamente le accuse ed anzi confutando le eresie di Lutero.

Grazie a Dio il sano sapere filosofico e teologico ha continuato fino ad oggi nonostante che l’impresa cartesiana abbia avuto un grande successo fino ad oggi spacciandosi per «filosofia moderna», quando in realtà, come ha ben detto Heidegger, Cartesio non è altro che una ripresa dell’antico soggettivismo protagoreo.

Comunque sappiamo tutti come il cogito cartesiano nei secoli seguenti ha esplicitato le sue virtualità idealistiche, panteistiche ed atee, fino ad arrivare al modernismo dei nostri giorni.

Intanto nel sec. XIX accadrà che per Fichte, interprete acuto di Cartesio, io non trovo il mio essere come dato oggettivo indipendente da me, ma lo pongo io, per cui non c’è bisogno di un Dio che lo crei, come invece è necessario nell’io sono di Agostino, che non è posto dalla sua volontà ma trovato dal suo intelletto.

Da qui la domanda inevitabile nel procedimento agostiniano, insensata invece nel sum cartesiano-fichtiano: chi ha creato l’io? Domanda che non si pone in Cartesio, così come fu chiarito da Fichte. E per questo giustamente Fichte fu accusato di ateismo, già latente nel sum cartesiano. Quanto al Dio di Cartesio, non è un Dio trovato al termine di un cammino che parte dalla percezione delle cose e del proprio io, ma è un’idea posta dal proprio io. Si dica allora come fa questo Dio ad essere il creatore dell’io o non sarà piuttosto l’io ad essere il creatore di Dio?

Infatti, come è noto, Cartesio dichiara in partenza di ignorare se al di fuori di me esistono delle cose e per questo sostiene che occorre dimostralo.  Ad Agostino non viene assolutamente in mente un’idea del genere, giacchè sapeva bene che le cose esistono fuori dell’io. Ed è proprio la testimonianza delle cose a dirgli che non si sono fatte da sole, ma Dio onnipotente e di bontà infinita le ha create. Per questo Agostino, come Tommaso, sale dagli effetti alla causa esattamente come prescrive San Paolo in Rm 1,19-20, «per ea quae facta sunt invisibilia Dei intellecta conspiciuntur».

Come si pone oggi la questione della verità?

Già Aristotele, 2500 anni fa ha battagliato con Protagora, Eraclito e Parmenide sulla questione della verità e tutta la storia del pensiero da allora ad oggi è divisa in due campi o, per usare il linguaggio agostiniano, in due città: quella che si basa sull’amor sui usque ad contemptum Dei e quella che si basa sull’amor Dei usque ad contemptum sui o, per usare il linguaggio di Cristo: la città di coloro che si esaltano e che saranno abbassati e coloro che si abbassano e  saranno  esaltati, oppure di coloro che perdono la propria anima per il regno dei cieli e la ritrovano e coloro che vogliono salvare la propria, la perdono. Con le parole di Aristotele potremmo dire: tra coloro per i quali la verità è ciò che è e coloro che invece dicono che la verità è ciò che sembra. Nel Vangelo da una parte abbiamo Cristo e dall’altra l’ipocrisia e la doppiezza dei farisei.

Oggi siamo ancora allo stesso punto: da una parte abbiamo gli onesti, le menti limpide e leali, le persone sincere ed avvedute, che prendono sul serio ciò che è serio; dall’altra parte abbiamo gli stolti, gli astuti, i furbi, i disonesti, i sofisti, gli impostori, gli esibizionisti, gli autoreferenziali, i protervi, gli arroganti, gli ipocriti.

Da una parte troviamo i profeti, Abramo, Mosè, Gesù Cristo, il Magistero della Chiesa, i Santi, i Martiri e i Dottori della Chiesa, Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso dall’altra parte e salvando il buono che c‘è in essi, a volte molto buono, Parmenide, Eraclito, Protagora, Ockham, Lutero, Bruno, Cartesio, Hume, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Comte, Marx, Heidegger, Nietzsche, Husserl, Gadamer, Severino, Rahner, Vattimo, Odifreddi, Schillebeeckx e Bontadini. Occhio aperto, cauto e vigile ai mistici russi, a Maometto, all’induismo, al buddismo, alla massoneria, al sionismo, ma con vigilanza e cautela.

Che fare?  Imitare i profeti nella loro lotta contro i falsi profeti, Cristo nel dialogo con i farisei, Aristotele nella sua confutazione di Protagora ed Eraclito, Agostino nella sua confutazione degli Accademici, Tommaso nella sua dottrina della verità, Maritain nel confronto con la modernità, i Papi nell’affrontare le sfide del pensiero moderno.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 25 ottobre2025

 


Già Aristotele, 2500 anni fa ha battagliato con Protagora, Eraclito e Parmenide sulla questione della verità e tutta la storia del pensiero da allora ad oggi è divisa in due campi o, per usare il linguaggio agostiniano, in due città.

Con le parole di Aristotele potremmo dire: tra coloro per i quali la verità è ciò che è e coloro che invece dicono che la verità è ciò che sembra. Nel Vangelo da una parte abbiamo Cristo e dall’altra l’ipocrisia e la doppiezza dei farisei.

Oggi siamo ancora allo stesso punto. Che fare? Imitare i profeti nella loro lotta contro i falsi profeti, Cristo nel dialogo con i farisei, Aristotele nella sua confutazione di Protagora ed Eraclito, Agostino nella sua confutazione degli Accademici, Tommaso nella sua dottrina della verità, Maritain nel confronto con la modernità, i Papi nell’affrontare le sfide del pensiero moderno.

 

Immagine da: https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2025/11/3/messa-cardinali-defunti.html

[1] Il Domenicano Alberto Lepidi, Maestro del Sacro Palazzo, pubblicò una confutazione dell’ontologismo, mostrando la fondatezza dell’interpretazione tomista della gnoseologia agostiniana con passi tratti dalle opere di Agostino: Examen philosophicum-theologicum de ontologismo, Bruxelles1874.

[2] Contra Gentes, libro II, c.84.

[3] Questio Disputata De Veritate, q.22, a.2.

[4] La conoscenza implicita di Dio salvifica, della quale parla il Concilio nella Lumen Gentium 16 deve pertanto esplicitarsi, sennò Dio non è ancora conosciuto.

[5]  Edizioni Morcelliana, Brescia 1974, cap. VII.

[6] Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, pp.53-55, 101, 321.

[7] Per questo Schelling ha potuto ricavare, attraverso Fichte, dal cogito cartesiano la identità di essere e volere.

[8] In XII libros metaphysicorum Aristotelis expositio, Edizioni Marietti, Torino-Roma 19sessanta4, libro III, c.1, lect. I, n.343. 

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