La concezione idealistica della filosofia - Sesta Parte (6/6)

 

La concezione idealistica della filosofia

Sesta Parte (6/6)

Bontadini: il pensiero non ha bisogno di garanzie[1]

Bontadini non accetta l’essere non pensato o pensabile extra animam, perché questo a suo dire sarebbe «dualismo».  Egli confonde l’esterno con l’estraneo. Non c’è nessuna estraneità e nessun dualismo fra essere e pensiero. Essi al contrario sono buoni amici. L’essere è estraneo solo quando il pensiero è nell’errore.

Il suo idealismo mostra di essere benintenzionato nel voler mirare all’essere, ma ahimè, questo essere è solo l’essere pensato. Ed inoltre Bontadini non comprende come il pensiero non è l’essere, ma è rappresentazione e intenzione di essere, subordinato all’essere, regolato dall’essere, con l’obbligo di adeguarsi all’essere. Il pensiero ha un essere spirituale. Ma esiste anche l’essere materiale.

Bontadini riflette la concezione gentiliana della filosofia quando scrive:

«il pensiero non ha bisogno di garanzie: esso è già per se stesso la garanzia, il proprio valore, la propria misura. È una verità, questa, senza della quale non s’entra nel sacrario della filosofia»[2].

È interessante questa concezione sacrale della filosofia, tipica degli gnostici. La fede è una favola da vecchierelle. La vera scienza sacra è la ragione e la filosofia, in particolare l’idealismo. Il filosofo è concepito come una specie di sacerdote della dea ragione. Non si tratta tanto di ragionare o di far ragionare, quanto piuttosto di rivelare dei misteri e di pronunciare degli oracoli. Gentile usa spesso il verbo «celebrare». Il filosofo è concepito come il sacerdote che celebra la divina liturgia, con la differenza che mentre il sacerdote cattolico rende culto a Dio, l’idealista rende culto alla dea ragione.

Bontadini propone un concetto di filosofia, che risente chiaramente del monismo parmenideo, e che egli chiama «unità dell’esperienza», tale da congiungere realismo ed idealismo, e la chiama appunto «ideal-realismo»[3] quasi a volersi porre da un punto di vista superiore che in realtà non esiste, perchè invece, come ci avverte giustamente il Maritain, occorre scegliere:

«Non si trascende, constatiamolo una volta di più, il realismo e l’idealismo, non esiste una posizione superiore che li superi e li riconcili. Bisogna scegliere tra l’uno e l’altro, come tra il vero e il falso[4]. Ogni realismo che venga a patti con Cartesio e con Kant deve accorgersi, un giorno, che venir meno al suo nome»[5].

Il desiderio che ebbe Bontadini di sanare un conflitto esasperante che era sorto tra gli stessi cattolici sin dall’ 800 fu certamente lodevole. Ma stupisce come egli, cattolico, non si sia accorto della condanna dell’idealismo e della raccomandazione del realismo tomistico fatta dalla Chiesa.

E invece cercò un accordo ambiguo e teoreticamente insostenibile. Più probabilmente egli volle fondare il realismo sull’idealismo, come se questo potesse garantire una base ancora più solida e radicale al sapere che non lo stesso realismo da sé, con le sue sole forze. Fu in fondo la stessa illusione di Cartesio.

Non si può però negare che vi sia qualche punto di contatto tra realismo ed idealismo, come per esempio la nozione dello spirito o della coscienza, che però il realista non identifica con l’essere come fa l’idealista, o la nozione dell’essere, dove infatti il realista ammette un essere primo e sommo, Dio, che l’idealista rifiuta, perchè per lui l’essere stesso è Dio, oppure la concezione dell’identità di pensare ed essere, che però il realista pone solo in Dio o l’identità intenzionale di pensare ed essere, che però il realista distingue dall’identità ontologica.

Per questo è falsa la tesi di Fichte secondo il quale idealismo e realismo sarebbero talmente opposti fra di loro, da essere assolutamente incomunicabili ed inconfrontabili, privi di qualunque possibilità di contatto. Al contrario, bisogna dire che tra realista e idealista è sempre possibile il dialogo in base alla ragione naturale, per cui è sempre possibile che il realista riesca a persuadere l’idealista della falsità dell’idealismo.

Certamente, chi volesse destreggiarsi tra le due concezioni per ottenere successo sia da parte realista che da parte idealista, mostrerebbe un atteggiamento di opportunistica doppiezza incompatibile con l’onestà intellettuale che è il primo dovere del vero filosofo.

Barzaghi: la filosofia è il puro pensiero[6]

Gli idealisti sono talmente astuti che riescono ad ingannare anche i Cardinali. Cartesio dette ad intendere al Card.de Bérulle che aveva in progetto una nuova visione filosofica che avrebbe assicurato alla fede cattolica un rinnovato splendore ed ottenne dal Cardinale pieno consenso e lode per il suo progetto.

La teologia di Rahner riscosse l’ammirazione di Cardinali come Lehmann, Martini, Döpfner e König. Il fatto è che l’idealista appare come un pensatore di ampie vedute, di alta spiritualità, di straordinario vigore speculativo, innovativo, audace, stimolante, rigoroso, geniale e profondo, dagli accenti mistici. L’oscurità del suo eloquio e i suoi sofismi sono considerati segno di profondità ed elevatezza di pensiero e non ci si accorge che egli stesso non sa quello che dice e i paroloni servono a mascherare un vuoto di fondo.

Un filosofo che ha il tipico atteggiamento dell’idealista, al di là della verniciatura di realismo tomista, salva la sua buona fede e le indubbie qualità intellettuali ed oratorie straordinarie, è il Domenicano Giuseppe Barzaghi, già discepolo di Bontadini e di Severino all’Università Cattolica di Milano.

Anche Barzaghi è riuscito ad ottenere l’ammirazione del pur grande Card. Biffi, il quale qualifica il pensiero di Barzaghi come «fenomeno insolito e coraggioso nel panorama culturale cattolico»[7]. Biffi poi invita il lettore a «rendersi conto dell’impegno non comune che gli» (=al lettore) «sarà richiesto, se vorrà affrontare la formidabile impresa di misurarsi con la densità e acutezza di queste pagine»[8].

Estremamente significativo è il riferimento di Biffi a Parmenide[9], riferimento sconcertante in uno dei migliori Cardinali italiani degli ultimi decenni, proveniente tuttavia anche lui dall’ambiente dell’Università Cattolica di Milano, segno di come Parmenide abbia stregato l’ambiente cattolico milanese.

Per Barzaghi il filosofare originario è

l’esercizio del «pensiero puro, quello del puro atto di pensare. Si tratta della dialettica originaria, per la quale il Positivo o l’Essere Assoluto è invincibilmente presso se stesso, come da sempre vittorioso sul negativo e completamente trasparente a se stesso. È la Sapienza assoluta, che da sempre il pensare (l’intelletto agente) possiede in forma preconcettuale. Si tratta del filosofare originario»[10].

Barzaghi non si accorge che «il pensiero puro o puro atto di pensare»[11] non può essere esercitato dall’uomo, ma soltanto da Dio. Credere di poter esercitare il puro pensare è come credere di essere Dio. Secondo Barzaghi «l’atto del pensare è intrascendibile ed onninclusivo, senza un essere che gli sia al di fuori», è il pensiero come «estensione infinita dell’essere», un pensare per il quale «pensiero e l’essere sono la stessa cosa»[12]. Ma questo non è il pensare come tale, e quindi non è il pensare umano, non può essere la filosofia originaria o derivata che sia, ma è il pensare divino.

Barzaghi esclude che ci sia un «dentro e fuori del pensiero»[13]. Per lui si tratta solo di un «modo di dire che appartiene all’analisi psicologica o cosmologica del pensiero, non alla dimensione metafisica»[14]. Da questo punto di vista il «pensiero è una facoltà umana»[15].

Ora la suddetta distinzione non è affatto un modo di dire, ma attiene all’essenza stessa del pensiero, sia quello umano che quello divino. Il pensiero è atto dello spirito avente per oggetto non se stesso, ma la realtà esterna. Solo in seconda battuta esso ha per oggetto se stesso conoscente la realtà.

E la distinzione quindi vale anche per il pensiero puro divino. Sia per l’uno che per l’altro pensiero la realtà di per sè è fuori e può essere nel pensiero solo in quanto conosciuta. Il mondo che io conosco è fuori di me e il mondo che Dio conosce è fuori di Dio, anche se è vero che in Dio, in quanto creatore, il mondo è contenuto virtualmente nella sua divina essenza.

Il filosofo però per Barzaghi esercita anche un filosofare derivato:

«è quello del conoscere. Si tratta della dialettica originata, per la quale il pensiero puro si nasconde e si rivela attraverso le idee o i concetti, che ne esprimono i contenuti. Questi contenuti del pensiero rappresentano la comprensione conoscitiva che l’intelletto possibile esercita, concependo relativamente – cioè in modo relativo e relazionale – l’Essere Assoluto. I concetti sono il modo col quale il nostro intelletto conosce e comprende la realtà creata – e quella increata, per riferimento o sulla base di quella creata. Tutto il mondo creato e creabile – cioè manifestato o manifestabile – è l’espressione condensata in intellegibili o specie, dell’Essere Assoluto.

La dialettica originata è il moto del filosofare originato; è il desiderio di scoprire ciò che da sempre si possiede o da cui si è da sempre posseduto: è il desiderio di abbracciare ciò da cui si è già da sempre abbracciati»[16].

In questo brano Barzaghi fa un parallelo tra il pensare e il conoscere in senso idealistico da una parte e la ben nota distinzione aristotelico-tomistica fra intelletto agente e intelletto possibile[17] dall’altra, un parallelo del tutto sconveniente ed incongruo, giacchè l’intelletto agente tomistico nulla ha a che vedere con la concezione barzaghiana, idealistica, del «pensiero puro». Inoltre Barzaghi dice che «l’intelletto agente intende l’essere»[18].«La luce che caratterizza per metafora l’intelletto agente è lo stesso essere»[19].

L’intelletto agente tomistico non è affatto il «pensiero puro» del quale parla Barzaghi, perché allora dovrebbe identificarsi col pensiero divino. E neppure si può dire che intende l’essere. L‘intelletto agente non intende niente. È lo intelletto possibile che intende l’essere e, intendendolo, ne forma il concetto.

L’intelletto agente fa intendere. È luce non perchè sia l’essere, ma perchè fa luce: illumina i fantasmi affinchè l’intelletto possibile ne ricavi la loro intellegibilità astraendo dai dati del senso. Per Tommaso è semplicemente l’intelletto in quanto illumina le immagini delle cose permettendo all’intelletto possibile di cogliere la loro essenza[H1]  astraendo dall’esperienza sensibile ovvero dai dati particolari del senso. È la funzione del mio intelletto che mi consente di capire o comprendere o conoscere l’essenza universale del cane astraendo da Fido e da Pluto.

L’intelletto agente non ha bisogno di esprimere alcun concetto non perché pensi senza concetti, ma semplicemente perché non pensa affatto, ma ha la funzione di far sì che l’intelletto possibile, informato dalla forma dell’oggetto (species impressa), formi il concetto della cosa (species expressa).

Pertanto l’intelletto agente non fa alcuna «esperienza dell’Assoluto», come vorrebbe Barzaghi, né tanto meno va riconosciuto in quel «pensiero puro», identità di pensare e di essere, del quale egli parla.

Così pure occorre far presente che per San Tommaso l’intelletto possibile è sì concettualizzante, ma non è il derivato da un pensare atematico precedente, ma è lo stesso il pensare. Esso non è altro che l’intelletto in quanto intuisce, giudica, conosce, riflette, pensa, ragiona e sa, che dir si voglia. 

Potremmo riassumere la dottrina di San Tommaso sul rapporto fra intelletto agente e intelletto possibile con la seguente formula latina: intellectus agens est lux in qua et cuius gratia intellectus possibilis transit de potentia in actu et mediante verbo intelligit rem extra animam, cuius actus est esse.

Aggiungiamo che la questione della verità riguarda prima il conoscere o il sapere che il pensare. Col pensiero io posso restare fuori della realtà, se penso per esempio alla chimera. È invece il conoscere ossia il sapere che afferra la realtà.  Per esempio, io so di esistere o che esistono le cose.  So che l’acqua bolle a 100°. L’acqua esiste fuori di me indipendentemente dal mio pensarla o conoscerla.

Ma la semplice coscienza di pensare, che può essere anche un dubitare, come il cogito cartesiano, a che cosa mi serve? Che cosa afferro, quale verità afferro col semplice pensare-dubitare alla Cartesio? Io posso pensare anche cose che non esistono. Il dubitare non è un sapere. È il sapere che s’indirizza alla realtà e dà la verità. 

Certo il conoscere le cose è un pensare; ma non ogni pensare è un conoscere. Se penso alla Befana, non per questo essa esiste. L’idealista si accontenta troppo presto nella questione della verità.  Essa si risolve solo se io ho coscienza di sapere qualcosa, non semplicemente con la coscienza di pensare.

In secondo luogo bisogna dire che è vero che l’atto dell’intelletto agente precede l’atto dell’intelletto possibile. Ma ciò non vuol dire che l’intelletto agente sia un pensare o esperire originario (filosofia originaria, idealismo) preconcettuale avente per oggetto l’essere o l’assoluto, prima dell’esperire sensibile e che questa esperienza o «struttura» originaria del sapere ancora allo stato non-concettuale, si traduca poi in concetti (filosofia derivata, realista) per il fatto che secondo l’idealista l’essere è autocoscienza. Ma questa comporta un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto.

Per questo per l’idealista il soggetto non può non oggettivarsi, il che comporta la produzione del concetto non del soggetto, perché altrimenti non sarebbe più soggetto, che resta atematico, ma dell’oggetto, che sono i fenomeni della natura o gli enti empirici categoriali.

C’è da notare inoltre che Barzaghi con la sua teoria del «pensiero puro» confonde fede, ragione, visione beatifica e pensiero divino. Dice egli infatti:

«Fede e ragione dicono la stessa cosa perché sono la stessa cosa: sono identiche. E la loro identità consiste appunto nel pensiero puro, il sapere metaconcettuale previo alle distinzioni dell’evidenza e dell’inevidenza, dovute alla concettualizzazione.  … La fede è la stessa conoscenza che Dio ha di se stesso partecipata alla creatura ragionevole: è dunque la conoscenza assoluta dell’Assoluto – conoscenza assoluta è come tale metaconcettuale. Come fides qua creditur è metaconcettuale, come la stessa visione beatifica e come lo stesso pensiero assoluto o atto del puro pensare o puro pensiero. ... La fides qua creditur sta alla fides quae creditur come il pensare sta al conoscere»[20].

Abbiamo già visto che il «pensiero puro» come lo concepisce Barzaghi non è altro che il pensiero divino, che egli confonde col pensiero umano, quando parla, in modo simile a Rahner, di pensiero preconcettuale dell’Assoluto, condizione di possibilità della concettualizzazione. Questo pensiero previo, che Rahner chiama «esperienza atematica trascendentale», non esiste ovvero implicherebbe l’attribuire all’uomo il pensare divino.

Quanto alla fides qua creditur, pertanto, essa non è affatto quell’inesistente pretenzioso pensiero previo, del quale parla Barzaghi, ma è la luce gratuita soprannaturale, dono di Dio, mediante la quale, nella quale e grazie alla quale il credente crede o accoglie le verità divinamente rivelate e i dogmi della fede.

Non esiste dunque una fede non concettuale, preconcettuale o metaconcettuale. La fides qua creditur non ha nessun contenuto concettuale o non concettuale che sia, ma è, come ho detto, semplicemente la luce divina che fa credere.

Quanto alla fides quae creditur, essa certamente ha un contenuto concettuale, le verità di fede e i dogmi della fede. Ma questi concetti non sono affatto l’espressione verbale di una inesistente previa «fede preconcettuale». Essi sono ciò che la nostra mente intende e concepisce della Parola di Dio proposta dal Magistero della Chiesa[21].

La visione beatifica è certamente metaconcettuale, ma non va confusa con la conoscenza di fede, la quale viceversa è un sapere concettuale. La visione beatifica è sì non concettuale, ma non appartiene alla vita presente, bensì a quella futura, come insegna San Paolo: «Ora vediamo come in uno specchio» (=concetto), «in maniera confusa (en ainigmati)» (per analogia), «ma allora vedremo faccia a faccia» (I Cor 23,12). 

È chiaro che qui si confonde ragione, filosofia, dato rivelato, fede, teologia, mistica, visione beatifica e scienza divina. Piuttosto che parlare di «pensiero puro», sarebbe meglio parlare di pensiero impuro.

I frutti dell’idealismo

Il filosofo idealista è un sofista ed un esibizionista, pieno di se stesso, una specie di giocoliere o illusionista, che vuol sbalordire e attirare l’attenzione su di sé, che crea o delle persone plagiate fanatiche della sua persona, fotocopie di lui stesso o nastri registratori delle sue parole oppure soggetti ribelli.

Il filosofo realista è invece un servitore del prossimo nel cammino della verità verso Dio e verso la santità. Egli è un educatore di persone libere, capaci di una ricerca personale ed originale della verità. Egli non è attaccato alle sue idee, ma è sempre pronto a correggersi ove s’accorgesse di avere sbagliato, perchè sa che la realtà non dipende da lui, ma da Dio. Mentre l’idealista è pronto a tradire la verità pur di salvare la pelle, il realista è pronto a rinunciare alla vita pur di non tradire la verità.

Osserviamo allora in conclusione che l’idealismo ha condotto la spirito moderno indubbiamente a una poderosa presa di coscienza di se stesso e del suo potere, quale mai si era verificata nella storia della filosofia. Ha stimolato nei realisti l’elaborazione di una teoria critica della conoscenza, della quale negli antichi esistono solo spunti e presagi.

La filosofia cartesiana, preparata congiuntamente dal Rinascimento e da Lutero, si può chiamare la filosofia moderna, per l’abbandono del realismo, dando però a questa espressione un significato semplicemente storico, in quanto filosofia dell’età moderna e non assiologico, se al termine «moderno» vogliamo dare il significato assiologico di «migliore» o «più progredito».

Di fatto, se il pensiero cartesiano ci ha condotti ad una indagine più profonda nel mondo dello spirito e della coscienza, ha procurato alla filosofia e quindi alla stessa umanità immensi danni materiali – si pensi alle due guerre mondiali - e spirituali - pensiamo alla moderna corruzione dei costumi ed alla distruzione della Chiesa dall’interno.

Cartesio come Lutero ha voluto superare e demolire San Tommaso, continuamente invece raccomandato dai Papi fino a Papa Francesco e a Papa Leone. Non si tratta di un discepolato tomista orientato all’esclusiva condanna degli errori moderni, ma è un tomismo conforme alle prescrizioni del Concilio Vaticano II, ottimamente riflesse nelle Costituzioni dell’Ordine Domenicano e confermate da documenti pontifici postconciliari come la lettera Lumen Ecclesiae di San Paolo VI del 1974.

Occorre chiamare a raccolta tutte le grandi voci della filosofia moderna, quasi a formare un’immersa orchestra. Occorre però affidare l’accordo delle musiche e degli strumenti, nonchè la guida dell’esecuzione musicale a colui che Pio XI chiamò Dottore comune della Chiesa, titolo ripetuto da Papa Francesco l’anno scorso, VIII centenario della sua morte: San Tommaso d’Aquino.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 ottobre 2025

Bontadini propone un concetto di filosofia, che risente chiaramente del monismo parmenideo, e che egli chiama «unità dell’esperienza», tale da congiungere realismo ed idealismo, e la chiama appunto «ideal-realismo» quasi a volersi porre da un punto di vista superiore che in realtà non esiste.

Barzaghi fa un parallelo tra il pensare e il conoscere in senso idealistico da una parte e la ben nota distinzione aristotelico-tomistica fra intelletto agente e intelletto possibile dall’altra, un parallelo del tutto sconveniente ed incongruo, giacchè l’intelletto agente tomistico nulla ha a che vedere con la concezione barzaghiana, idealistica, del «pensiero puro». Inoltre Barzaghi dice che «l’intelletto agente intende l’essere». «La luce che caratterizza per metafora l’intelletto agente è lo stesso essere».

L’intelletto agente tomistico non è affatto il «pensiero puro» del quale parla Barzaghi, perché allora dovrebbe identificarsi col pensiero divino. E neppure si può dire che intende l’essere. L‘intelletto agente non intende niente. È lo intelletto possibile che intende l’essere e, intendendolo, ne forma il concetto. L’intelletto agente fa intendere. È luce non perchè sia l’essere, ma perchè fa luce: illumina i fantasmi affinchè l’intelletto possibile ne ricavi la loro intellegibilità astraendo dai dati del senso.

Cartesio come Lutero ha voluto superare e demolire San Tommaso, continuamente invece raccomandato dai Papi fino a Papa Francesco e a Papa Leone. Non si tratta di un discepolato tomista orientato all’esclusiva condanna degli errori moderni, ma è un tomismo conforme alle prescrizioni del Concilio Vaticano II, ottimamente riflesse nelle Costituzioni dell’Ordine Domenicano e confermate da documenti pontifici postconciliari come la lettera Lumen Ecclesiae di San Paolo VI del 1974.

Occorre chiamare a raccolta tutte le grandi voci della filosofia moderna, quasi a formare un’immersa orchestra. Occorre però affidare l’accordo delle musiche e degli strumenti, nonchè la guida dell’esecuzione musicale a colui che Pio XI chiamò Dottore comune della Chiesa, titolo ripetuto da Papa Francesco l’anno scorso, VIII centenario della sua morte: San Tommaso d’Aquino.

Immagine da Internet: Evangeliario di Godescalco, Cristo in maestà, tra il 781 e il 783 circa, Parigi

[1] Bontadini ha avuto due svolte nel suo pensiero: la prima fu quella saggia di staccarsi dall’attualismo gentiliano, senza però abbandonare l’idea di un possibile accordo dell’idealismo col tomismo, anzi di renderlo più rigoroso. La seconda svolta è stata quella di lasciarsi influenzare dal parmenidismo di Severino, che lo ha condotto al panteismo sempre nella convinzione di poter continuare ad essere tomista. Il suo esempio è stato seguìto dal suo discepolo, il Domenicano Giuseppe Barzaghi, che ha interpretato San Tommaso in chiave severiniana facendo di Tommaso un idealista. Su Bontadini, vedi Marco Berlanda, il quale, viceversa, essendo un seguace di Severino, ammette in Bontadini una sola svolta, come recita il titolo stesso di un suo recentissimo libro: L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Editrice Vita e Pensiero, Milano 2022.

[2] Introduzione al Discorso sul metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, p. XVII.

[3] Saggio di una metafisica dell’esperienza, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1979, p.134.

[4] Tra il porre ad oggetto del sapere l’ideale o il reale evidentemente occorre scegliere.

[5] I gradi del sapere, op.cit., p.129.

[6] Barzaghi, affascinato dalla filosofia di Severino, ma nel contempo volendo essere tomista, ha creato, ancor più di Bontadini, grazie alla sua migliore conoscenza di San Tommaso, un Tommaso severiniano, che dà una veste tomista al pensiero di Severino. Due libri di Barzaghi che mostrano la sua falsificazione del pensiero di Tommaso: Philosophia. Il piacere di pensare, Edizioni Il Poligrafo, Padova 1999; Oltre Dio. Pensieri su Dio, il divino, la deità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000.

[7] Prefazione a Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Edizioni Cantagalli, Siena 2003, p.5.

[8] Ibid., pp.6-7.

[9] Ibid., p.7

[10] Oltre Dio, op.cit., p.56.

[11] Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Edizioni ESD, Bologna 1997, pp.46-47. Da notare che il segreto cristiano non consiste né nel monismo parmenideo, né nell’autocoscienza degli idealisti, né nel panteismo di Hegel, ma nel mistero trinitario, del quale Barzaghi non fa parola.

[12] Ibid.,p.47.

[13] Ibid.,p.46.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] Philosophia, op. cit., p.56.

[17] Sum. Theol., I, q.85, aa.1 e 2.

[18] Soliloqui sul divino, op.cit., p.50.

[19] Ibid., p.51.

[20] Oltre Dio, op. cit., p.68.

[21] Vedi R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione per Ecclesiam Catholicam proposita, Edizioni Ferrari, Rima 1932 

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