Che cosa è il nichilismo? - Seconda Parte (2/5)

 

Che cosa è il nichilismo?

Seconda Parte (2/5)

 

Tra l’essere e il non-essere

Quando consideriamo il significato e l’orientamento della nostra vita e il fine della nostra esistenza, quando pensiamo a che cos’è che massimamente desideriamo e vogliamo e di cui abbiamo bisogno per essere felici, a tutti noi s’impone una scelta: o ci volgiamo verso noi stessi, cioè puntiamo al nostro io, ci appoggiamo su noi stessi assolutizzando noi stessi, ritenendo che il nostro io sia il centro di tutto, credendo di non dipendere da nessuno e che nessuno curi i nostri interessi meglio di quanto noi stessi possiamo fare.

Oppure ci volgiamo a un tu, che ci sta davanti, esistente prima e indipendentemente da noi, al di sopra di noi e a fondamento della nostra esistenza, un tu che scopriamo essere la causa e il principio di ogni essere, perché è lo stesso essere sussistente, infinitamente sapiente, potente, amorevole e provvidente, desideriamo  questo tu, vederlo ed entrare in comunione con lui,  ascoltiamo e obbediamo a questo tu, ci fidiamo di lui, confidiamo in lui, gli chiediamo perdono invocando misericordia, perché sappiamo di essere stati creati da questo tu, per cui è questo tu ad essere il nostro sommo bene e la nostra felicità. Questo tu è Dio.

In concomitanza con questa esperienza, sentiamo allora che ci si impone una scelta tra l’umiltà e la superbia, tra l’essere innalzati e l’innalzasi da sé, tra il guardare e il salire in alto e il guardare dall’alto e adagiarsi nel basso, tra il costruire e il distruggere, tra il disprezzare e il considerare, tra lo spirito di concordia e lo spirito di contraddizione, fra il gusto del bene e il gusto del male, tra l’obbedire e il disobbedire,  tra la confidenza e la diffidenza, tra l’egoismo e l’altruismo, tra la volontà di dominare e la volontà di servire, tra la meschinità e la magnanimità, tra l’amore e l’odio, tra l’illuminare e l’oscurare, tra il nulla e il tutto, tra l’affermazione e la negazione,  tra l’identità e la contraddizione, fra l’onestà e la doppiezza, tra la finzione e la sincerità, tra la bestialità e la ragionevolezza, tra la pietà e l’empietà, tra la fede e l’incredulità, tra l’essere e il non-essere, tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male,  tra Dio e Satana. O per Dio o contro Dio. A noi la scelta.

Il nichilismo si può nascondere anche sotto la falsa mistica, nella quale si esagera fino all’assurdo l’oscurità del mistero divino, mescolando l’affermazione di Dio con la sua negazione, le tenebre mistiche con le tenebre dell’inferno,  l’essere col nulla, il sì col no, la menzogna con la verità, il dubbio con la certezza, l’identità con la contraddizione, il possibile con l’impossibile, spegnendo ogni luce, sopprimendo ogni intellegibilità e cancellando ogni atto del’intelletto e concetto di ragione o di fede. Il vero mistico ha il gusto della luce e accetta umilmente i suoi limiti e le tenebre del mistero divino.

Sono l’empio, l’ipocrita e il superbo, come il fariseo del Vangelo, che credono di vedere, ma in realtà non vedono nulla perché chiudono gli occhi alla luce e con finta umiltà, col pretesto del mistero, coltivano il dubbio e lo scetticismo.  Questi sono i nichilisti. Camminano nelle tenebre e non sanno dove vanno perché vanno lontano da Dio. Il vero mistico invece cammina nella luce, perché il vero mistero è luminoso e ben lungi dal sopprimere i concetti, li promuove, li purifica e li protegge.

È vero che parlando di Dio la Scrittura dice che «nubi e tenebre lo avvolgono» (Sal 97,2). È chiaro che l’infinità dell’essenza divina oltrepassa infinitamente la capacità finita della nostra ragione anche nella visione beatifica del cielo. Per usare un efficace paragone di Sant’Agostino, la pretesa dello gnostico e del razionalista è quella di contenere l’acqua dell’oceano in un secchiello o in un bicchiere.

Eppure Dio è Luce che illumina le menti. Nella sua luce vediamo la luce. La luce della coscienza, la luce dell’intelletto agente provengono da Dio. Con la sua famosa dottrina dell’«essere ideale» e dell’«idea dell’essere» probabilmente il Beato Antonio Rosmini intendeva la luce della nostra mente, quella verità assoluta che illumina la nostra mente, della quale parla Sant’Agostino, e nella quale vediamo la verità delle cose e giudichiamo della verità e del valore delle cose.

Il nichilismo di Hegel

In tutta la storia del pensiero umano colui che si può considerare il massimo, il più lucido e più sistematico promotore del nichilismo è Hegel. Il nulla è al cuore del pensiero di Hegel; la negazione è l’ispiratrice del suo modo di pensare, la molla del suo procedere. Egli nel circolo dialettico (posizione-uscita-ritorno) propone sì il ritorno (sintesi) del sì iniziale (tesi) dopo l’opposizione che viene dal no (antitesi); propone dunque la riconciliazione; Senonchè la negazione negata non scompare ma resta, conservata e superata anche in Dio. Per Hegel non occorre che l’affermazione neghi la negazione, perché ci pensa la stessa negazione a negare se stessa.

Il principio di contraddizione in Hegel sostituisce il principio di non-contraddizione. L’essere è identificato col nulla. E questo autocontraddirsi dell’essere sarebbe, secondo Hegel, il divenire, che peraltro non è trasceso dall’essere, ma esaurisce la totalità dell’essere.

Per Hegel non esistono verità immutabili e definitive, perchè muta la stessa verità divina. Le verità si succedono nel tempo e nella storia in modo tale che ogni verità successiva smentisce la verità precedente e sarà smentita da quella futura. Per questo, per Hegel la storia è l’Assoluto: non c’è un eterno immutabile, un Dio al di sopra della storia, ma Dio stesso è la storia, è Dio. Veritas filia temporis.

Se l’essere è negato dal nulla e se il nulla nega se stesso per ricostituire l’essere, è chiaro che per Hegel è il nulla padroneggia sull’essere e non viceversa. Per questo egli parla dell’«enorme potere del negativo». In Hegel abbiamo così l’apoteosi del nulla. Il suo Dio è il Nulla. Dovere del pensatore non è evitare di contraddirsi, ma al contrario è il contraddirsi cosciente e voluto.  Tuttavia non è il contraddirsi per il gusto di contraddirsi, ma perché per lui il contraddirsi è inevitabile nell’esercizio del pensiero.

È chiaro che anche per lui vale l’obbligo di non contraddirsi ed egli stesso confuta i suoi avversari mostrando che si contraddicono. Tuttavia egli sostiene che ci sono dei casi nei quali è solo contraddicendosi si coglie la verità. E questi casi sono quelli della morale, della metafisica e della teologia.

Per Hegel il contraddirsi è esigenza della verità, perché per lui il reale stesso si contraddice; per cui, se la verità è dire le cose come sono, ne nasce la conseguenza che contraddicendomi dico il vero, perché è l’oggetto stesso del mio sapere che è contradditorio.

Il principio della negatività, per Hegel gioca nei tre campi fondamentali del reale, nell’essere, nel divenire e in Dio. Se dovessimo fermarci al secondo momento, cioè alla negazione, dovremmo dire che Hegel nega l’esistenza dell’essere, del divenire e di Dio. Ma il terzo momento - la negazione della negazione -ricostituisce il primo, sicchè apparentemente tutto si salva. Eppure nella dialettica hegeliana, la negazione non è tolta, ma superata e conservata (l’Aufhebung).

La tendenza nichilistica di Hegel ci è data da vari segni. Egli, secondo il modulo idealista della riduzione dell’essere al pensiero, compie una riduzione dell’ente reale all’ente di ragione col ridurre la metafisica alla logica. Il divenire è interpretato in senso nichilistico come sintesi dell’essere e del non-essere. L’Assoluto è sintesi di essere e nulla. Così il riduttivismo ontologico dell’idealismo è un segno inequivocabile della sua tendenza nichilista, nonostante la sua magnificazione dell’essere e del pensiero.

La filosofia di Hegel è dunque la forma più radicale e sistematica di nichilismo mai esistita, celata sotto le apparenze della idealità, della razionalità dell’affermazione dell’essere assoluto. È quella forma di nichilismo, quale quella hegeliana, per la quale l’essere è contradditorio, l’essere è nulla, l’essere è il non-essere e l’essere viene dal nulla e torna al nulla. Questo è il nichilismo del quale soffre la filosofia hegeliana. Chi poi oggi ci descrive con maggiore chiarezza questa visione nichilistica della realtà e questa concezione del nichilismo è Emanuele Severino.

Indubbiamente il nichilismo più serio, preoccupante e più odioso, vera «follìa», come dice Severino, è questo. Severino pertanto ha perfettamente ragione nell’insorgere contro questo nichilismo in nome del principio di non-contraddizione: l’essere non può essere il non-essere. L’essere non è il non-essere.

Il nichilismo hegeliano, tuttavia, non è immediatamente evidente, perchè Hegel ammette la realtà del divenire e quindi del concreto e della storia, salvo poi a ridurre Dio nei limiti della storia e del divenire. Così il nichilismo hegeliano non intacca direttamente l’ente diveniente, ma quello immutabile e trascendente, Dio. Per questo l’hegelismo o concepisce un Dio che diviene o nega l’esistenza di Dio o cade nel panteismo.

Ma, come è noto, lo stesso divenire in Hegel è concepito in modo nichilistico perchè basato sull’antitesi essere-non-essere, tesi che infrange il principio di non-contraddizione. Inoltre in Hegel il divenire basta a sé stesso, sicchè non occorre spiegarlo con l’esistenza di Dio, ma il divenire riassume in sé la totalità del reale (appare come l’«intero») al posto di Dio.

Il divenire hegeliano è il divenire stesso di Dio. E come per Hegel il divenire è dato dall’identità dell’essere col nulla, così per lui Dio è identità di essere e nulla; Dio esiste e non esiste. Per questo Hegel teismo e ateismo stanno assieme, e siccome per lui Dio è il mondo e nel contempo è distinto dal mondo, teismo e panteismo stanno assieme. Dice infatti Hegel:

«Se l’essere viene enunciato come predicato dell’Assoluto, si ottiene la prima definizione di questo: l’Assoluto è l’essere. Ed è, nel pensiero, la definizione rudimentale, la più astratta e la più povera. È la definizione degli Eleati e insieme, quella del noto detto che Dio è il complesso delle realtà. Vale a dire che si deve astrarre dalla limitatezza, che è in ogni realtà, in modo che Dio solo sia reale in ogni realtà, il realissimo. E poiché la realtà contiene già una riflessione, il sopraddetto pensiero è più immediatamente espresso in ciò che Jacobi dice del Dio di Spinoza, che sia il principio dell’essere in ogni esistenza.

Ora, questo puro essere è la pura astrazione e, per conseguenza, è l’assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente. Segue da ciò la seconda definizione dell’Assoluto, che esso è il niente. La quale definizione, per altro, è già contenuta nell’affermazione: che la cosa in sé è l’indeterminato, è ciò che è affatto privo di forma e perciò di contenuto; o anche quando si dice che Dio è soltanto la somma essenza e nient’altro, perché come tale egli è definito appunto come siffatta negatività e la medesima astrazione è il niente, che i Buddhisti fanno principio come scopo e mèta ultima del tutto»[1].

Il nichilismo hegeliano è il più radicale che si possa immaginare, ponendo il nulla in Dio stesso. È vero che egli simultaneamente ne afferma l’essere. Ma questo essere è negato dal nulla. L’intelletto nel momento in cui si attua e pensa non può non avere per oggetto l’essere. Tuttavia la volontà ha la facoltà di chiudere lo sguardo dell’intelletto verso l’essere. L’intelletto, quando apre gli occhi, ossia quando pensa, non può non vedere. Ma la volontà può non voler vedere. Questo è il nichilismo.

Osserviamo che quando l’intelletto, nonostante che Hegel dichiari il contrario, chiude lo sguardo a Dio, che è l’essere assoluto, supremo, perfettissimo, realissimo, totale ed infinito, si realizza la forma più orribile e biasimevole di nichilismo che possa esistere. Ebbene, l’Assoluto di Hegel è proprio questo. Il nichilismo è frutto della superbia della creatura che vuol divinizzare il proprio nulla e annullare l’essere divino. Più direttamente è l’effetto dell’accidia, che è il disgusto dei valori più alti e l’adagiarsi in quelli più bassi.

In forza di questo nichilismo metafisico, che identifica l’essere col nulla e quindi il vero col falso e il bene col male, che toglie al pensiero il suo oggetto e quindi annulla il pensiero,  scambia l’essere col nulla, entifica il nulla, pone il nulla al posto dell’essere, l’io al posto di Dio, il pensiero al posto dell’essere, il divenire al posto dell’essere, il tempo al posto dell’eterno, la storia e la logica al posto della metafisica, che intende il divenire come contradditorio, e che dà corpo ai fantasmi, sorge logicamente e di necessità un’etica basata sulla negazione dell’essere e sulla disobbedienza alla realtà e a Dio. non più una volontà costruttiva, ma una volontà distruttiva; non più il sì deciso a Dio, ma l’oscillare tra il sì e il no; non più la volontà di essere sincero e verace ma la volontà di mentire e di ingannare; non più la serietà dell’impegno per Dio, ma tutto prendere alla leggera, tranne il proprio io; non più la volontà di sapere, ma la volontà di illudersi; non più una volontà di vita, ma una volontà di morte, un «essere-per-la morte» (Heidegger), un «istinto di morte» (Freud); non più l’attenzione al reale, ma l’attaccamento alle proprie idee; non più desiderare l’eterno, ma solo il temporale; non più i desideri spirituali, ma i desideri della carne. 

Si capisce allora come da tali idee sorge necessariamente la convinzione perversa che tutto può essere legittimamente negato; dovere del filosofo è non fare mai affermazioni nette e precise o sì o no, perchè ciò sarebbe un mancare alla verità in continuo divenire, apparente ai singoli in modo diverso l’uno dall’altro, ma sempre  sarà suo dovere barcamenarsi tra il sì e il no, a seconda di come conviene; dire che le cose stanno così non perché stanno così, ma perché gli è d’interesse che siano così, tra l’affermazione e la negazione, nulla dando per certo e immutabile. Di certo c’è solo l’autocoscienza del filosofo che cartesianamente è il principio dell’essere e della verità. L’importante non è intendere o far intendere ma darla ad intendere. Ciò che sembra è ciò che è.

Ne consegue che la menzogna, ossia il rifiuto di adeguare il pensiero all’essere, il negare l’evidenza non è un peccato, ma il dovere del filosofo. Il far apparire quello che non è non è moralmente illecito, ma è esattamente il compito del filosofo.

Il problema della concettualizzazione

La Bibbia dice che «la sapienza è il più agile di tutti i moti» (Sap 7,24). Gesù paragona lo Spirito al vento. Una cosa muove l’altra; l’una diventa altra o diventa un’altra. Alcune crescono, altre diminuiscono. Alcune si generano, altre si corrompono. Alcune restano sempre quelle, altre s trasformano. Alcune stanno ferme, altre si muovono o si spostano. Alcune iniziano, altre finiscono. Alcune restano, altre passano.

Alcune non sono più, altre sono presenti, altre saranno e non sono ancora. Alcune si diffondono, altre si radunano. Alcune si coagulano, altre si sciolgono.  Una moltitudine tende all’unità, un’unità si divide e si diffonde. Alcune cose si liquefanno, altre si solidificano. La vita è certamente movimento. Gli enti che ci circondano e noi stessi mutiamo nello spazio e nel tempo. L’universo ha una storia. Tutto questo è realtà. Si può dire che il divenire sia nulla o contradditorio o mera apparenza?

Come pensare, come concepire, come comprendere, come definire tutto ciò? I nostri concetti sono fissi, astratti e universali. Le cose invece mutano, sono concrete e particolari. Per ovviare a questa difficoltà Hegel pensò di dare il primato alla ragione sull’intelletto e, come egli dice, affermò che bisogna vivificare i concetti, liberarli dalla loro rigidità e renderli «fluidi».

Hegel sentiva un forte bisogno di unità e di conciliazione, ma nel contempo era morbosamente attratto dalla contraddizione e dalla conflittualità. Curiosamente c’è in lui un interesse vivissimo per la vita, ma nel contempo c’è una specie di gusto per la negazione, una specie di «istinto di morte» direbbe Freud; accanto alla tematica dell’amore c’è nel suo animo una specie di crudeltà travestita di logica, che lo porta a negare ciò che ha affermato, a tornare indietro dopo essere andato avanti. Lo stesso Assoluto hegeliano oscilla fra l’essere e il nulla.

Si studia anche lui, ovviamente, di avere un pensiero coerente, ma nel contempo, sembra avere un gusto contorto per la contraddizione. E del resto, come è noto, Il diveniente sembra essere e non essere allo stesso tempo. Aristotele tuttavia aveva già osservato che il diveniente, nel momento in cui è, non può non essere.

Inoltre lo Stagirita aveva già osservato che il diveniente prima non è tale e poi è tale, cioè passa dal poter essere tale all’esser tale in atto. Così il diveniente non appare più contradditorio. Ma Hegel e con lui Severino si rifiuta irragionevolmente di accettare la distinzione aristotelica fra potenza ed atto e sono così costretti a concepire il divenire come contradditorio, Hegel per risolvere in esso l’essere e l’assoluto, Severino per togliere il divenire dall’essere e dall’assoluto. Barzaghi segue Severino.

Hegel, nel desiderio di poter pensare la vita, lo spirito e il movimento, concepisce il concetto come fosse un soggetto vivente. Ma per noi non è così. Dobbiamo certo evitare la rigidezza nel pensare, esso deve seguire le sinuosità, le sfumature, le diversità, il mutare della realtà. Ma più di tanto non può fare. Non può superare la sua astrattezza e fissità, senza distruggersi e decadere nel piano del senso e dell’immaginazione.

Dobbiamo accettare questo limite dei nostri concetti, che è stato accolto dallo stesso Verbo divino che con questi concetti ci ha parlato dell’ineffabile mistero del Dio trinitario. Mutare il concetto vuol dire mutare la cosa, per cui non pensiamo più la stessa cosa ma ne pensiamo un’altra. D’altra parte, se la cosa cambia e io non muto il concetto così che possa essere adatto alla novità di quella cosa io falsifico il concetto di quella cosa. Il concetto può essere chiarito, esplicitato, migliorato, approfondito, ma non deve essere cambiato, salvo che non sia la stessa realtà ad essere mutata o in movimento.

Per Hegel l‘essere non è monadico come per Parmenide, non è analogico come per Aristotele, ma è triadico, come per Proclo. Egli lo chiama «dialettico», prendendo la parola da Platone e da Aristotele, mediati da Kant, con la differenza che mentre per questi la dialettica produce l’opinione perché non si è scoperta la verità, per Hegel la ragione stessa è dialettica, per cui la scienza si confonde con la dialettica.

Col pretesto del progresso del sapere, per Hegel non c’è nulla di mai definitivamente acquisito, ma tutto sempre è rimesso in discussione. Ciò vuol dire che per Hegel la verità non è ciò che è in sé, ma ciò che appare a me, inteso non come io individuale, ma universale («io trascendentale»). È quella che fu già la posizione di Protagora, confutata da Aristotele, il quale mostrò che, se così stessero le cose, i contradditori diventerebbero entrambi veri e San Tommaso riprende questa confutazione di Aristotele[2].

Altra osservazione da fare su Hegel è che egli arriva ad identificare l’essere col nulla perché si sbaglia nell’operazione astrattiva da fare per cogliere l’essere.  Infatti l’astrazione che occorre mettere in atto in questo caso non è la comune astrazione totale, per la quale cogliamo un genere astraendo dalle differenze che si aggiungono al genere. Certo, anche nel caso del concetto metafisico dell’essere occorre astrarre dagli inferiori o dalle determinazioni, ma non bisogna farlo del tutto, perché anche quelli appartengono all’orizzonte dell’essere.

Nel caso del genere, per esempio, il genere animale, l’aggiunta delle differenze razionale e irrazionale aggiunge al genere un contenuto che non c’è nel genere. Invece le differenze dell’essere, sono ancora essere, per cui nell’astrarre non possiamo prescindere da esse nel tutto.

Infatti se astraiamo del tutto dagli inferiori dell’essere, per forza alla fine non rimane niente, ma ciò non perchè l’essere è niente, ma perché ci siamo sbagliati noi nell’astrarre, lasciando fuori le differenze come se l’essere fosse un genere e invece è un trascendentale, che include implicitamente tutti i generi. Finito e infinito, necessario e contingente, assoluto e relativo, mutevole e immutabile, eterno e temporale, creato e increato, materiale e spirituale, reale e ideale, uno e molteplice, benchè sotto l’essere, sono ancora essere.

Dobbiamo inoltre aggiungere che la ragione non completa l’opera dell’intelletto, come crede Hegel, facendo passare il nostro pensare dall’astratto al concreto, ma, come già osservò San Tommaso, la rende sillogistica o dialettica al servizio dell’intelletto al fine di ottenergli il conseguimento al termine della vita presente della beata visione immediata di Dio.

Fine Seconda Parte (1/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 24 novembre 2025 


Il nichilismo si può nascondere anche sotto la falsa mistica, nella quale si esagera fino all’assurdo l’oscurità del mistero divino, mescolando l’affermazione di Dio con la sua negazione, … Il vero mistico ha il gusto della luce e accetta umilmente i suoi limiti e le tenebre del mistero divino.

È vero che parlando di Dio la Scrittura dice che «nubi e tenebre lo avvolgono» (Sal 97,2). È chiaro che l’infinità dell’essenza divina oltrepassa infinitamente la capacità finita della nostra ragione anche nella visione beatifica del cielo. Per usare un efficace paragone di Sant’Agostino, la pretesa dello gnostico e del razionalista è quella di contenere l’acqua dell’oceano in un secchiello o in un bicchiere. 

Eppure Dio è Luce che illumina le menti. Nella sua luce vediamo la luce. La luce della coscienza, la luce dell’intelletto agente provengono da Dio.

La filosofia di Hegel è la forma più radicale e sistematica di nichilismo mai esistita, celata sotto le apparenze della idealità, della razionalità dell’affermazione dell’essere assoluto. … Chi poi oggi ci descrive con maggiore chiarezza questa visione nichilistica della realtà e questa concezione del nichilismo è Emanuele Severino.

Indubbiamente il nichilismo più serio, preoccupante e più odioso, vera «follìa», come dice Severino, è questo. Severino pertanto ha perfettamente ragione nell’insorgere contro questo nichilismo in nome del principio di non-contraddizione: l’essere non può essere il non-essere. L’essere non è il non-essere.

Infatti se astraiamo del tutto dagli inferiori dell’essere, per forza alla fine non rimane niente, ma ciò non perchè l’essere è niente, ma perché ci siamo sbagliati noi nell’astrarre, lasciando fuori le differenze come se l’essere fosse un genere e invece è un trascendentale, che include implicitamente tutti i generi. Finito e infinito, necessario e contingente, assoluto e relativo, mutevole e immutabile, eterno e temporale, creato e increato, materiale e spirituale, reale e ideale, uno e molteplice, benchè sotto l’essere, sono ancora essere.

 
Immagine da Internet: Sant'Agostino, Rubens

[1] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Editori Laterza, Bari 1963 pp.92.

[2] Sum. Theol., I, q.85, a.2.

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