La polemica di Cristo contro l'ipocrisia
Seconda Parte (2/3)
L’ipocrisia è causata dalla disonestà intellettuale
e questa a sua volta è causata dalla superbia
L’atto col quale il nostro spirito coglie la verità è di per sé un atto dell’intelletto, dove la volontà nulla ha a che vedere, ma vale invece la necessità: se l’intelletto è messo davanti all’evidenza o alla conclusione di una tesi dimostrata, è necessitato a dare il suo assenso alla verità certa e immediatamente o mediatamente evidente. Non può non vedere la verità e non sapere di conoscere la verità. L’errore, in questo caso, non è possibile. L’intelletto non sbaglia e sa di non sbagliare e perché non sbaglia.
Tuttavia nell’attività conoscitiva la volontà gioca sempre una parte essenziale, a patto però che non invada il campo riservato all’intelletto con la pretesa di completare il suo atto, come credeva Blondel[1], atto che invece l’intelletto sa e può benissimo compiere da solo, con le sue sole forze. Tutt’altro infatti è il compito della volontà: è quello di provocare l’azione e il moto dell’agente verso il bene intellegibile, che è il fine dell’agire volontario, utilizzando le potenze dell’appetito sensitivo, ossia le passioni.
L’intelletto genera un’attività immanente allo spirito, fà un lavoro di interiorizzazione e smaterializzazione del reale esterno, rendendoselo rappresentativamente presente sotto forma di concetto, di concepito o di cogitatum.
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L’ipocrisia come vizio morale nasce dal pensiero artificiosamente sdoppiato, un pensiero, direbbe Cristo, che serve a due padroni: alla realtà e a se stesso; a se stesso per decisione della volontà e alla realtà per inclinazione naturale.
L’ipocrita nega quello stesso rapporto alla realtà che gli serve per negare il rapporto con la realtà.
Immagine da Internet: La moneta del tributo, di James Tissot – Museo di Brooklyn, New York
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