Il pensare umano e il pensare divino - Seconda Parte (2/4)

 

Il pensare umano e il pensare divino

Seconda Parte (2/4)

 

Pensare e concepire

Distinzione interessante in Barzaghi, che si trova già in Kant, ed è facilmente desumibile dalla gnoseologia di San Tommaso, è quella fra il pensare (cogitare) e il conoscere (intelligere, scire, cognoscere). Il primo è aconcettuale e preconcettuale; il secondo è concettuale. Nel primo ho davanti a me o alla mia coscienza l’Assoluto o il Tutto. Afferro, intuisco, sperimento o colgo o vedo il Tutto nella mia autocoscienza.

Il primo, per lui, sarebbe un’autocoscienza originaria ed assoluta, che ricorda molto il cogito cartesiano o l’Io di Fichte. Nel secondo conosco le cose nel dettaglio, intendo (intelligo), capisco (capio), concepisco (concipere), comprendo (comprehendo) le cose. E formo anche i concetti teologici. Dice:

«Il pensiero è l’originario e la totalità. Nel pensiero puro la conoscenza, che concettualizza, è smarrita, ma nello stesso tempo è perfettamente accolta come nel suo ambiente vitale, perchè il pensiero è la trasparenza dell’essere pre-concettuale e condizione di ogni concettualità. … Il pensiero atematico o pre-concettuale dell’essere è la condizione di possibilità del conoscere e della realtà»[1].

Si noti bene: non dice condizione di possibilità di conoscere la realtà, ma possibilità della realtà. Dunque non è il reale che pone il pensiero, ma è il pensiero che pone il reale: l’errore tipico dell’idealismo. Quest’accoglienza della concettualità all’interno del pensare è fasulla, dato che comunque, per lui, il tentativo di conoscere Dio nei concetti si risolve nella contraddizione. Inoltre in noi il pensare riflesso e coscienziale non-concettuale non è originario, come credeva Cartesio, ma segue alla concettualizzazione delle cose esterne. Solo l’autocoscienza divina, creatrice del reale, fonda e precede l’idea divina delle cose grazie alla quale Dio crea le cose e i concetti umani delle cose.

Secondo Barzaghi, come secondo Rahner, che parla di un’esperienza preconcettuale dell’essere assoluto, la mente umana possederebbe apriori, prima dell’esperienza sensibile, per semplice atto di autocoscienza – viene in mente il cogito cartesiano - «l’intendimento dell’Assoluto», il quale intendimento «precede e fonda la formulazione concettuale: la condizione di possibilità dei concetti non è un concetto; se lo fosse, questo sarebbe condizione di sé stesso»[2]. Ora bisogna dire schiettamente che questa supposta esperienza e questo supposto intendimento apriorici ed originari per noi non esistono. L’intendimento dell’Assoluto lo attuiamo solo per induzione, partendo dall’esperienza del reale esterno ed applicando il principio di causalità giusta l’indicazione di San Paolo, per ea quae facta sunt (Rm 1,20).

In realtà, nel nostro pensare a Dio e concepire Dio i nostri concetti non cadono in contraddizione, non si tratta di contraddirsi come nella dialettica hegeliana, ma il fatto è che essi patiscono contraddizione, soprattutto nel momento della fede. In questo senso Gesù è chiamato «segno di contraddizione». In questa linea più volte San Tommaso cita il detto dell’Areopagita, per il quale nella mistica si tratta di «patire le cose divine» (pati divina). Ciò è chiaramente insegnato dai Dottori mistici, come per esempio San Bonaventura e San Giovanni della Croce.

La conoscenza di Dio comporta una sofferenza per l’intelletto. L’intelletto è come crocifisso. Infatti, a tutta prima la verità rivelata ci ripugna, sembra un’assurdità, ci scandalizza. Il pensiero divino appare contrario al nostro, sembra contraddire il nostro. Ma in realtà è il nostro che non è in sintonia con quello divino e si ribella ad esso. Il pensare divino è sincero, leale, onesto, incontradditorio. È il nostro pensare che è insincero, sleale, disonesto, doppio, finto, ipocrita, contradditorio.

Sforziamoci di essere limpidi, leali e onesti nel pensare e nel parlare, semplici come le colombe e prudenti come i serpenti, e ci accorgeremo che Dio non ci è più contrario, ma pienamente favorevole. Aristotele è stato un grande maestro nell’insegnare la coerenza e l’onestà del pensare, ma pagano com’era, non ha potuto prendere in considerazione che il nostro pensare può essere contrastato e messo alla prova da quello divino. Non ha conosciuto quella che San Paolo chiama la «logica della Croce» (logos tu staurù).

Per Aristotele l’ascesa a Dio è un tranquillo procedere per analogia evitando di contraddirci e sciogliendo le apparenti contraddizioni. Ma non ha saputo che per raggiungere la piena verità su Dio, per vedere Dio occorre passare attraverso la morte e quindi la cessazione dell’attività concettualizzatrice.

L’influsso di Meister Eckhart

Barzaghi desume da Meister Eckhart la convinzione del potere che avremmo di attingere direttamente all’Assoluto superando i concetti e facendone a meno nella vita presente, per fare esperienza del «puro pensiero» come «sapere assoluto e incondizionato», che coglie lo «Spirito Assoluto»[3].

Egli riprende l’interpretazione eckhartiana della beatitudine evangelica del «povero in spirito», il quale, secondo lui, nel suo pensare «è tutto l’intero, l’essere»[4]. Diciamo però francamente che questa interpretazione non pare affatto darci il ritratto di un’autentica umiltà e di un vero spirito d’infanzia evangelico o di una vera povertà di spirito, ma ha tutto il sapore di quel voler attribuire a sé lo stesso pensiero assoluto, cosa che fu già la ragione della censura con la quale Papa Giovanni XXII colpì alcune proposizioni di Eckhart nel 1329 (Denz.920-980).

Notiamo che l’umiltà è certo una forma di autoabbassamento, ma non fino al punto da negare la propria esistenza creaturale, come fa Eckhart, che giudica la creatura «un puro nulla» (Denz.976). L’umiltà è sì distacco da sé stessi, ma non da Dio, come vorrebbe Eckhart, altrimenti l’umiltà si volge nella superbia di credere di essere così autosufficienti da poter fare a meno di Dio o di essere Dio noi stessi. Questo è il rischio della concezione eckhartiana dell’umiltà e del distacco.

La vera umiltà contempera la coscienza della propria dipendenza da Dio e del proprio provenire dal nulla con la coscienza della propria dignità ontologica, preziosa gli occhi di Dio, che l’ha voluta e creata. Certo, da sé e di per sé la creatura è nulla, perchè essa non è il suo essere e non dà a sé il suo essere, ma lo ha da Dio creatore. Ma la vera umiltà è congiunta con la coscienza di essere qualcosa, con la coscienza della propria dignità nella scala degli enti.

Un’umiltà intesa come negazione del proprio essere finito e creaturale, e come affermazione del proprio essere assoluto, perché l’essere, nella linea di Parmenide, è solo quello infinito, si muta necessariamente in superbia. Forse Eckhart, che fu un Domenicano di santa vita, non si rese conto di questo equivoco gravissimo o forse non seppe esprimersi nel dovuto modo.

Per questo la condanna pontificia colpisce semplicemente le sue proposizioni così come suonano, ma il Papa stesso, dopo la morte di Eckhart, riconobbe la santità della sua vita ed ebbe parole di lode per la dichiarazione scritta che egli aveva fatto, oggi purtroppo perduta, di sottomettere i suoi scritti al giudizio della Sede Romana.

Per questo, al fine di onorare la memoria di Eckhart e imparare dalla sua teologia mistica, non è il caso di insistere nello sforzo disperato di volgere in teismo le proposizioni che sanno di panteismo, anche perché ne hanno approfittato i panteisti successivi, come Cusano, Bruno, Böhme, Spinoza e gli idealisti tedeschi.

È evidente che Eckhart, nonostante conoscesse San Tommaso, non riuscì mai ad assumere la concezione tomista e biblica dell’analogia dell’essere, per cui si sforzò, credendo di avere in mano un concetto migliore dell’essere, di esprimere la sua teologia con un linguaggio parmenideo, ma nell’intento e nella convinzione sinceri di essere ortodosso.

Da questo parmenidismo nasce il fatto che per Eckhart, Dio, quando crea, non dà alla creatura un essere finito, inferiore e partecipato, ma le dà il suo proprio essere, dato che l’essere e l’Assoluto coincidono, sicchè la creatura viene ad avere un essere divino e così si cade nel panteismo. Ma se la creatura è divina, che bisogno ha più di Dio? Così al panteismo si aggiunge l’ateismo.

Per Barzaghi, come per Eckhart, per Parmenide e per Severino l’essere coincide con l’Essere assoluto. Ciò comporta una concezione dell’essere per la quale non c’è via di mezzo fra il Tutto e il nulla. L’essere non può non essere. Il finito non esiste. Non esiste un ente supremo al vertice di enti inferiori, un massimo al di sopra del minimo, un fine al di là del mezzo, una causa che trascende l’effetto, un essere per essenza di sopra dell’essere per partecipazione. Non esiste un più e un meno, una scala di valori, una pluralità di gradi di essere in cima ai quali ci ia un ente supremo. Manca l’analogia dell’essere.

Egli assume oltre che da Severino, anche da Eckhart il concetto parmenideo dell’essere come Uno-Tutto. Ciò lo porta a far propria la tesi di Eckhart per la quale la creatura non è un qualcosa ma un puro nulla, tesi eretica condannata dal Papa (Denz.976). Se dunque la creatura ha l’essere, questo non può che essere l’essere divino, che per Eckhart è semplicemente l’essere. Eckhart ignora o non ha capito la dottrina tomista dell’analogia dell’essere, che gli avrebbe permesso di conciliare il nulla della creatura col suo essere qualcosa fuori di Dio.

La visione dell’Assoluto

Il poter vedere direttamente il Bene assoluto o l’Idea del Bene fu già un sogno di Platone, se non fosse stato che Platone sbagliò nel considerare il corpo come carcere dell’anima. Ma questa aspirazione si trova già nell’Antico Testamento, laddove Dio dice a Mosè che desiderava vedere il volto di Dio: «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20).

È su questa linea che s’inserisce il Nuovo Testamento per insegnarci che per vedere Dio e superare i concetti, occorre passar attraverso la morte e precisamente far propria la morte di Cristo. Dio, come dice Lutero, appare sulla croce «sub contraria specie», ossia non appare come Dio, ma come un povero ed umiliatissimo essere umano. Eppure la via della visione è proprio accettare questa sofferenza e quasi ripugnanza dell’intelletto e saper vedere al di là della croce e nella stessa croce la gloria di Cristo.

Il nostro intelletto deve saper accettare di soffrire ed entrare nell’oscurità con Cristo, che, rivolgendosi al Padre, ha detto: «non la mia ma la tua volontà sia fatta», come a dire: non quello che penso io, ma quello che pensi Tu. Ora, se l’io empirico, come credono gli idealisti, è una semplice apparizione del mio Io trascendentale, che ne è di questo dialogo con Dio, nel quale è in gioco la nostra salvezza?

Aggiungiamo che Barzaghi non si preoccupa di definire che cosa è il pensiero in generale per poi distinguere il pensiero umano da quello divino. Non dice mai che differenza c’è tra l’essere e il pensare. Li identifica sempre in quello che egli chiama «pensiero puro» come se fossero due termini sinonimi. Parte in quarta presentando immediatamente e senza mezzi termini il pensiero come fosse Dio stesso. Per cui uno si domanda: ma allora l’uomo che pensa è Dio? Dice egli infatti:

«Il pensare è l’Assoluto e l’Assoluto è il pensare. Ma sempre tenendo ben presente il fatto che l’Assoluto e il pensare non sono qualcosa di diverso dall’Essere. Essere, pensare e Assoluto si identificano»[5].

Osserviamo che in realtà il pensiero come tale non è intrascendibile, anzi dice relazione al reale. È solo il pensiero divino che è intrascendibile perchè abbraccia tutto l’essere da Dio stesso creato. Egli innalza il pensare come tale al pensare divino trascurando i caratteri del pensare umano e così finisce per attribuire all’uomo il pensare divino. Dice infatti:

«il pensare, il pensiero come pura attività di pensare è capace di trascendere tutto e di relativizzare – dunque – tutto, eccetto sé stesso. Non si può oltrepassare il pensare, perchè tale operazione sarebbe comunque un atto del pensiero. Si pensa di oltrepassare il pensiero: dunque non lo si oltrepassa. Pensare di oltrepassare il pensiero è pur sempre pensare!»[6].

Osserviamo che un conto è il fatto che il pensiero oltrepassi se stesso per cogliere l’altro da sé, ossia l’essere, trascendente il pensiero e principio e causa del pensiero. E un conto è il pensare al fatto o aver coscienza di trascendere o andar oltre il pensiero per cogliere il trascendente, cioè l’essere. Egli confonde idealisticamente l’atto del trascendere col trascendere pensato. E allora ha buon gioco a dire che siamo sempre nel pensiero, sì, ma a prezzo della confusione tra pensare e pensato che ho detto sopra.

Certamente il pensiero divino abbraccia tutto l’essere, dato che Dio è il creatore dell’essere. E tuttavia il creato è fuori di Dio. Egli dunque raggiunge col pensiero ciò che è fuori di Lui, anche se nel contempo tutto il creato è nel suo pensiero avendolo creato Lui. Noi invece col nostro pensiero incontriamo una realtà fuori di noi che è a noi presupposta, non avendola creata noi.

La raggiungiamo non viaggiando nello spazio, anche se è efficace la metafora dei viaggi del pensiero, e se è vero che esiste una realtà fuori nello spazio. Col pensiero qui da Fontanellato raggiungo Parma, benchè il mio pensiero non viaggi nello spazio e tanto meno esca da sé stesso per raggiungere il suo obbiettivo. L’esternità dell’essere al pensiero non va intesa solo in senso spaziale. Essa significa sostanzialmente che il pensiero è rappresentazione mentale o ideale dell’essere.

L’esser fuori qui è un modo di dire o una metafora per esprimere il fatto che l’essere pensante è originario rispetto al pensato e primeggia sul pensato, come l’attuale è al di sopra del possibile o pensabile il quale è prodotto o attuato dal pensante, che è l’essere. Dio è colui che è prima di essere colui che pensa. Egli si rappresenta ciò che crea, ma il creato è fuori di Dio nel senso che il suo essere è un essere per partecipazione, mentre Dio è essere per essenza.

Quindi pensiero vuol dire essere rappresentativo o ideale mentale che come tale si pone o si trova u di un piano ontologico inferiore intenzionale o tendenziale di dipendenza ed attuabilità o realizzabilità da parte del pensiero pensante produttore.

L’essere appartiene all’attuale, il pensiero al possibile. L’essere può essere un pensiero attuato, ma di per sé l’essere è solo atto. Il pensiero può essere attuato o realizzato, ma di per sé si trova solo ul piano del possibile. Ora è chiaro che è più vicino al non-essere il possibile che l’attuale. Per questo l’essere primeggia sul pensiero.

Questo vale sia per Dio che per l’uomo. La differenza sta nel fatto che in Dio l’essere creato dipende dal suo pensiero, mentre nell’uomo il pensiero dipende dall’essere creato o increato. Ma anche in Dio nozionalmente il pensiero è sotto l’essere o meno dell’essere, anche se in Dio l’essere coincide realmente col pensiero.

Ad ogni modo è chiaro che Barzaghi, come Severino e Bontadini, fa proprio il concetto parmenideo dell’essere: uno, unico, tutto, univoco, essere-pensiero, necessario, assoluto, eterno, immutabile, indifferenziato. Manca a lui la nozione analogica dell’essere e del pensiero, che consente di parlare sensatamente senza alcuna contraddizione, per analogia, dell’essere e pensare umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio, e dell’essere e pensare divino, nòesis noèseos, come lo chiamava Aristotele ed ipsum Esse subsistens, per dirla con San Tommaso, ossia di Dio, ente primo e ultimo, ente sommo e supremo, Alfa e Omega.

Il pensare per analogia consente di attribuire l’essere analogicamente a Dio e alle creature, di concepire l’uomo come immagine e somiglianza di Dio, di capire il rapporto di Dio col creato e di riconoscere i gradi di essere dal minimo, la materia prima, fino all’ente supremo, nonchè i gradi di essere per partecipazione fino all’essere per essenza, che è Dio. Il metodo dell’analogia, fondato sulla stessa Sacra Scrittura, oltre che ad esser stato scoperto da Aristotele, consente di formare un concetto appropriato e verace di Dio e della Parola di Dio, base di tutto il linguaggio teologico.

Invece Barzaghi, bloccato nel concetto monistico ed univoco parmenideo dell’essere come essere uno, unico, totale ed assoluto, non riesce a vedere l’importanza essenziale dell’analogia per concepire Dio e parlare di Lui. Egli crede che l’analogia sia una specie di scala per arrivare a pensare o sperimentare Dio a di là della concettualizzazione, cosa che renderebbe inutile la conoscenza di fede, e che vale solo per la visione beatifica. Egli dice infatti: «l’Assoluto fagocita tutto. Non ammette compagnia. L’analogia, invece, vale fino all’Assoluto. Poi salta tutto!»[7]. Egli crede che il metodo dell’analogia consista in una «lettura analogica dell’Assoluto»[8]. Ma non è affatto così. L’analogia è una lettura analogica dell’essere, che ci consente di capire che Dio è l’ipsum Esse al vertice di tutti gli enti, per cui distinguiamo l’ente relativo dall’Assoluto.

L’analogia non concepisce affatto Dio come relativo al mondo, ma ci consente di formare il vero concetto dell’Assoluto indipendente dal mondo e creatore del mondo e di porre il mondo in relazione a Dio.

Quando mediante l’analogia arriviamo a concepire Dio come sommo analogato dell’essere, non salta un bel niente, ma abbiamo posto la base indispensabile del discorso teologico e della predicazione del Vangelo, mentre nel contempo abbiamo l’umiltà di riconoscere che noi non siamo affatto il «Pensiero», ma riconosciamo l’infinita trascendenza, incomprensibilità ed ineffabilità dell’essere divino rispetto all’espressività e finitezza dei concetti stessi della Rivelazione, per cui sappiamo riconoscere il dovere di tacere quando la parola vien meno perché superata dall’ineffabilità del Mistero.

È proprio Barzaghi, col suo concetto parmenideo dell’essere, che è costretto a relativizzare l’Assoluto e a concepirLo come un «Intero» o una «totalità», alla maniera di Hegel, composto di Dio e di mondo, con l’escludere il mondo fuori di Dio e identificarlo con Dio. È il Dio di Barzaghi, che fagocita tutto e che è tutto il contrario del vero Dio, che crea persone distinte da Lui, libere e responsabili, capaci di accoglierLo o rifiutarLo. Dio non mangia nessuno, semmai è Lui che è mangiato da noi nell’Eucaristia.

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli  

Fontanellato, 28 luglio 2025

Notiamo che l’umiltà è certo una forma di autoabbassamento, ma non fino al punto da negare la propria esistenza creaturale, come fa Eckhart, che giudica la creatura «un puro nulla» (Denz.976). 

La vera umiltà contempera la coscienza della propria dipendenza da Dio e del proprio provenire dal nulla con la coscienza della propria dignità ontologica, preziosa gli occhi di Dio, che l’ha voluta e creata. 

Un’umiltà intesa come negazione del proprio essere finito e creaturale, e come affermazione del proprio essere assoluto, perché l’essere, nella linea di Parmenide, è solo quello infinito, si muta necessariamente in superbia. 

È evidente che Eckhart, nonostante conoscesse San Tommaso, non riuscì mai ad assumere la concezione tomista e biblica dell’analogia dell’essere, per cui si sforzò, credendo di avere in mano un concetto migliore dell’essere, di esprimere la sua teologia con un linguaggio parmenideo, ma nell’intento e nella convinzione sinceri di essere ortodosso.

Da questo parmenidismo nasce il fatto che per Eckhart, Dio, quando crea, non dà alla creatura un essere finito, inferiore e partecipato, ma le dà il suo proprio essere, dato che l’essere e l’Assoluto coincidono, sicchè la creatura viene ad avere un essere divino e così si cade nel panteismo. Ciò comporta una concezione dell’essere per la quale non c’è via di mezzo fra il Tutto e il nulla. L’essere non può non essere. Il finito non esiste. 

Se dunque la creatura ha l’essere, questo non può che essere l’essere divino, che per Eckhart è semplicemente l’essere. Eckhart ignora o non ha capito la dottrina tomista dell’analogia dell’essere, che gli avrebbe permesso di conciliare il nulla della creatura col suo essere qualcosa fuori di Dio.

Immagine da Internet: Parmenide


[1] Philosophia. Il piacere di pensare, Edizioni il Poligrafo, Padova 1999, p.52.

[2] Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Edizioni ESD, Bologna 2012, pp.49-50.

[3] Philosophia. Il piacere di pensare, Edizioni il Poligrafo, Padova 2000, p.10.

[4] Ibid.

[5] Ibid., p.78.

[6] P.44.

[7] Ibid., p.63

[8] P.64.

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