La questione della teologia negativa
Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione
Prima Parte (1/3)
Tra la reticenza e lo sproloquio
Oggi siamo invasi da una folla di maestri, che dobbiamo sopportare e dai quali dobbiamo guardarci, i quali con grande prosopopea e dogmatica sicumera, vantando titoli accademici e centinaia di pubblicazioni, ignari del Magistero della Chiesa, sbandierati dai mass-media del potere dominante, ci assicurano con tono cattedratico e senza possibilità di replica, che cosa di Dio dobbiamo affermare e che cosa dobbiamo negare, per sapere qual è il «Dio biblico» e il «Dio di Gesù Cristo» e salvarci dal «Dio astratto della metafisica», dal Dio del «dualismo greco», dal Dio precristiano, corrucciato castigatore dell’Antico Testamento e del paganesimo.
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Invito a consultare:
3-4 Giugno 2021, Roma - Conferenza sulla teologia negativa per il XXI secolo
Tale rapporto si risolve semplicemente nella presa di coscienza che il proprio io non è originariamente l’io empirico, passeggera parvenza destinata a dissolversi con la morte; ma è l’io trascendentale, corrispondente a ciò che la religione e la teologia chiamano «Dio» e che l’idealista preferisce chiamare «Assoluto», come fanno Schelling ed Hegel, perché la parola «Dio» appartiene al linguaggio concettuale-religioso dell’io empirico, mentre qui si tratta di rifarsi a un io più radicale, profondo, autentico ed originario, che è l’autocoscienza dedotta dal cogito cartesiano.
L’ateo vanta una confutazione scientifica dell’esistenza di Dio, ma in realtà è lui a sragionare con la pretesa di assegnare al mondo bisognoso di un fondamento, il ruolo di fondamento, che esso non ha, sicchè, allorché l’uomo si appoggia su di esso, sprofonda nell’abisso o, come si esprime Kant, nel «baratro della ragione». Kant infatti crede ingenuamente d’aver confutato la tesi della causa prima chiedendosi chi ha causato la causa prima. Il che dimostra di non aver capito che cosa è la causa prima, perché se fosse causata da una causa precedente, non sarebbe più la causa prima.
Né l’ateo né il buddista parlano di Dio. Eppure fra loro c’è un abisso: il buddista fa capire di credere nel Dio ineffabile con una retta condotta morale. L’ateo fa capire di non credere in Dio – anche se a parole si professa credente - con una vita dissoluta ed immorale.
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