Luigino vuol salvarsi senza merito

 Luigino vuol salvarsi senza merito

 Luigino è grato a Dio, ma non lo ringrazia di meritare

Questa volta Luigino Bruni nell’articolo di Avvenire del 30 agosto intitolato «La civiltà della cicogna», dopo un’introduzione ben fatta sulla gratitudine a Dio, ci presenta la solita solfa luterana della salvezza per sola grazia senza meriti. Evidentemente, questa eresia, già condannata dal Concilio di Trento proprio contro Lutero e considerata dal Catechismo di San Pio X come «peccato contro lo Spirito Santo» continua a sedurre certi cattolici. Ci poniamo allora due domande: come mai un’eresia condannata cinque secoli fa continua ad avere successo? Perché il Catechismo di San Pio X è così severo contro questa eresia?

Rispondiamo alla prima domanda. Non è facile conciliare l’idea del merito con quella della grazia, perché merito vuol dire compenso per un lavoro fatto, comprare, esigere per giustizia, mentre grazia vuol dire ricevere gratuitamente. Ora, si obbietta, delle due una: un bene o me lo procuro come compenso del mio lavoro o lo acquisto perché lo compro oppure lo ricevo perché mi viene dato gratis. Non sono possibili le due cose contemporaneamente.

A tutta prima l’idea di salvarsi senza merito sembrerebbe essere perfettamente cristiana: il doveroso omaggio all’opera gratuita della grazia, che sembrerebbe essere il fattore unico ed esclusivo della salvezza senza alcuna collaborazione da parte dell’uomo, perché in fin dei conti è Dio che salva e sennò sembrerebbe che l’uomo voglia meritare un bene superiore alle sue forze, che non può essere né pagato né meritato.  Altrimenti dove va a finire la sua gratuità? Ecco il problema in tutta la sua chiarezza.

Alcuni citano il detto di San Paolo, il quale sembrerebbe escludere il merito in nome della grazia. Parlando infatti dell’elezione divina alla salvezza, afferma che è «un’elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia» (Rm 11, 5-6). Ciò che si paga non è più gratuito. È evidente. Allora come la mettiamo?

Eppure, il segreto per capre il rapporto dell’uomo con Dio nella dinamica della salvezza, è il saper vedere la congiunzione del merito con la grazia o, se vogliamo, del libero arbitrio o delle opere con la grazia. La salvezza, per il cristianesimo, nasce da un libero incontro dell’uomo con il libero incontrarsi di Dio con lui. L’uomo sale verso Dio e Dio scende verso di lui.

Questo incontro è più volte rappresentato dalla Scrittura da Mosè o Cristo che sale sul monte, dove Dio si manifesta dal cielo. Merito umano è salire sul monte; grazia divina è la discesa di Dio sull’uomo, dove appare chiarissimo che per non trovare contrasto fra il merito e la gratuità basta distinguere la parte di Dio e la parte dell’uomo.

Una difficoltà semmai appare quando vogliamo capire come concretamente queste due volontà agiscono insieme e in che rapporto stanno. Dio agisce sull’uomo, ma l’uomo non agisce su Dio. Qui in una puntata precedente abbiamo visto come Luigino mostri di avere una concezione magico-kabbalistica della reciprocità Dio-uomo.  In questo articolo sembrerebbe di voler rimediare a questo pelagianismo prometeico, ma cade nell’eccesso opposto di negare addirittura il merito.

La soluzione di Lutero

Sappiamo la soluzione adottata da Lutero. Egli, con la sua idea della natura umana totalmente corrotta, non ha dubbi: la salvezza dipende solamente dalla grazia. È il famoso principio luterano «sola gratia». La volontà umana, irrimediabilmente malvagia, non vi ha nessuna parte.  E non è che con la grazia diventi buona, no: resta malvagia. Da qui il famoso iustus et peccator.

Inoltre, come si sa, Lutero disapprova le opere di penitenza, perché secondo lui entrano tra quelle opere delle quali l’uomo può vantarsi come meriti davanti a Dio, opere che l’uomo pretende di aggiungere all’opera della grazia, come se questa non bastasse, arrivando, come pure è noto, a mettere tra queste opere persino lo stesso sacrificio della Messa.

Ma Lutero non si fermò qui. La sua azione malefica colpisce lo spirito ancora più in profondità e giunse a considerare come «opera» lo stesso rimorso di coscienza conseguente al peccato e il pentimento come dolore per aver peccato. Lutero trattò questi richiami salutari benché dolorosi della coscienza, alla stregua di semplici disturbi psichici da eliminare psicologicamente con diversivi, ossia col sostituirvi emozioni piacevoli, come faremmo quando, per far passare il mal di denti prendiamo un antidolorifico.

Lutero non capì che quando la coscienza rimorde, ossia quando siamo interiormente castigati per il nostro peccato, il problema che si pone non è quello puro e semplice di far passare il dolore del rimorso, ma occorre ascoltare il rimprovero della coscienza, rinnegare ed odiare il peccato commesso ed abbracciare la giustizia; è quindi quello di togliere la colpa col pentimento e con la remissione del peccato. Cioè non si tratta di togliere un semplice male di pena, ma occorre un mutamento nel moto della volontà, sotto la mozione della grazia di Dio, per cui la volontà da cattiva diventa buona.

Invece Lutero non si preoccupa di pentirsi dei propri peccati traendo da ciò il proposito di un sincero ravvedimento, ma resta impigliato nei suoi peccati con la convinzione di salvarsi lo stesso, a patto di aver fede di salvarsi. Sono queste le idee di Luigino come dei buonisti di oggi, i quali, come ho già notato in un precedente articolo, pensano di calmare il tormentoso rimorso della coscienza non con la confessione, ma con gli psicofarmaci.

Ora, la volontà umana gioca nel principio fondamentale del diritto naturale, secondo il quale il giusto merita il premio, e l’ingiusto merita il castigo. Ma se l’agire morale è determinato solo dalla volontà divina, ossia dalla grazia, è chiaro che quel principio crolla. Da qui la soppressione luterana del principio del merito e con esso il concetto del castigo e del premio.   

Ma se la volontà umana non ha parte nell’acquisto della salvezza, allora vuol dire che l’obbedienza ai comandamenti, ossia alla legge naturale non è più obbligatoria e il contenuto stesso della legge naturale, che dovrebbe essere oggetto della ragion pratica, essendo questa corrotta dal peccato, diventa cosa incerta e soggettiva.

Che cosa resta allora per Lutero come giudice del bene e del male nelle azioni? La coscienza soggettiva illuminata dalla Parola di Dio. Ma noi comprendiamo quanto sia aleatorio affidare la conoscenza della volontà di Dio al puro giudizio soggettivo, senza che ci sia l’obbligo di assoggettarsi a una legge oggettiva.

Ora il cristiano luterano non si sente più né premiato né castigato da Dio, ma solo beneficato dalla grazia ed oggetto della sua misericordia. Non ha obblighi verso i comandamenti, che sono incerti e facoltativi. L’unico suo dovere è quello di credere di essere predestinato alla salvezza. Lutero mantenne la distinzione fra eletti e reprobi. Per i buonisti, invece, come sappiamo, tutti sono buoni e si salvano. Ma che ne è allora del peccato? Il Luterano sente il rimorso del peccato, che è l’essenziale del suo castigo. Egli infatti è convinto di peccare in continuazione. Ma non dà alcun peso al rimorso. Lo considera semplicemente un’emozione spiacevole da rimuovere.

 Anche questa è la prassi del buonista, con la differenza però che egli non si sente affatto in un continuo angosciato stato di colpa, ma sempre gioioso oggetto della misericordia divina che lo rende salvo fin da adesso. Quindi, se per Lutero restava anche per il perdonato il peccato coi suoi tormenti, per il buonista il peccato non esiste, perchè non esiste il castigo.

Perché il Catechimo di San Pio X è qui così severo?

Vediamo adesso di rispondere alla seconda domanda. Perché tanta severità nel Catechismo di San Pio X? Perché la negazione del merito comporta il crollo dell’intero edificio della dogmatica cristiana. Non che ciò avvenga necessariamente in tutti i luterani, perché di fatto esistono tanti luterani che vivono con fervore il loro cristianesimo. Tuttavia, se estendessero le conseguenze dell’assenza del merito alle altre verità cristiane, si accorgerebbero che l’intero sistema crolla e, se fossero coerenti, dovrebbero cadere nell’apostasia.

Crolla il concetto del merito infatti  connesso con quello del libero arbitrio, che ne è il soggetto; il merito è connesso con quello della giustizia, che ne è il criterio di valutazione; è connesso con quello del premio e del castigo, che sono le due possibilità del merito; è connesso con quello della grazia, che è il fattore della salvezza insieme col merito; è connesso con la legge morale, in rapporto all’esecuzione o non esecuzione della quale sorge il merito; è in rapporto con la divina misericordia, perché il merito è un suo effetto; è in rapporto con la Redenzione, che si attua grazie ai  meriti di Cristo; è in rapporto col potere delle chiavi della Chiesa, che fonda la prassi delle indulgenze sull’utilizzo del tesoro dei meriti di Cristo e dei Santi; è in rapporto con la vita ascetica, che rende possibile l’aumento dei meriti; condiziona l’esistenza dei premi e dei castighi divini in questa vita e nell’esistenza dopo morte, ossia del paradiso e dell’inferno.

Perché dunque il Catechismo parla di «peccato contro lo Spirito Santo»? Il peccato contro lo Spirito Santo è eminentemente peccato contro la verità e la carità, dato che lo Spirito Santo è lo Spirito della Verità e dell’Amore. Contro la verità di fede, la quale insegna, in modo particolarmente chiaro nel Concilio di Trento, la necessità del merito soprannaturale per la salvezza; peccato contro la carità, perché la ragione radicale del meritare non è tanto, come potrebbe sembrare a tutta prima, un’esigenza o un obbligo di giustizia, quanto piuttosto il dovere della carità verso Dio e verso il prossimo, carità che ci chiede di corrispondere con l’amore all’Amore che ci previene, secondo le parole di Santa Teresa di Gesù Bambino, l’apparente negatrice del merito: «amore con amor si paga». 

È un infantilismo insopportabile quello di chi pretende di essere amato senza ricambiare l’amore. Qui in fondo ci ricongiungiamo con Luigino che parla di gratitudine. Solo che egli dimentica che una gratitudine, che non si esprime e non si concretizza nella pratica del merito verso l’amato è un’ipocrisia ed è una pura parola vuota.

Ma insomma, che cosa è il merito?

Chiediamoci adesso che cosa è il merito. In generale esso è uno stato della volontà umana conseguente al compimento di un atto, umo stato che dispone la volontà alla ricezione di un bene, detto «compenso» o «ricompensa» – il premio – o alla soggezione a una pena castigo – secondo un principio di giustizia, proporzionatamente all’entità dell’atto commesso.

Il merito può essere accampato o presso gli uomini o presso Dio. Nel primo caso abbiamo il merito umano o naturale; nel secondo, il merito religioso. Il merito religioso può essere naturale, se entra nella pratica della religione naturale, soprannaturale, e il merito davanti a Dio nel senso cristiano. È di questa specie di di merito che parliamo qui.

Il merito soprannaturale può essere degno (de condigno) oppure congruo (de congruo). Nel primo caso, che è quello di Cristo, il meritante merita pienamente, perfettamente, degnamente, adeguatamente ed infinitamente presso il Remuneratore, che è il Padre celeste.

Oppure può essere congruo o conveniente. Non si tratta di un meritare in senso stretto, adeguato e proporzionato, ma per benevola concessione o accondiscendenza del Remuneratore, come farebbe un buon maestro che, ricevendo il compito in classe di uno scolaro poco dotato, ma volenteroso, lo premiasse poco meno di come ha fatto per il primo della classe. Ebbene, questo è il modo col quale noi possiamo meritare l’aumento della grazia e il paradiso.

Cristo ci ha meritato la salvezza meritando con la sua beata passione in modo degno e adeguato perché grazie alla potenza della sua divinità i suoi meriti sono infiniti. Ma nel contempo Egli è il modello dell’opera che dobbiamo compiere anche noi per la nostra salvezza.

Cristo ha il merito di aver riparato con la sua croce all’offesa da noi fatta al Padre col peccato originale e con i nostri peccati personali, soddisfacendo al Padre in vece nostra. Ma anche noi, vivendo e soffrendo in Lui, trasformando i castighi divini in mezzi di espiazione e approfittando di ogni occasione di bene, possiamo partecipare della sua azione e passione meritorie e in tal modo in Lui e grazie a Lui possiamo riscattare noi stessi e meritarci con le opere di penitenza il paradiso, anche se non possiamo meritare in modo perfetto come lui, ma solo in modo congruo, beneficando dello sconto del prezzo da pagare, prezzo che Egli ha pagato col suo sangue, ma che per noi sarebbe troppo alto, per cui il Padre si accontenta di quel poco che possiamo dare, anche se per noi questo poco è il tutto di noi stessi  e possono essere le opere più grandi e le sofferenze più terribili.

Lutero capì il valore dei meriti di Cristo, ma non capì il valore dei nostri, perché egli comprese bensì che Gesù da solo aveva fatto abbastanza per ottenerci il perdono del Padre e che quindi non c’era nulla da aggiungere. Ma non capì che la collaborazione che Cristo ci chiede non aggiunge nulla, ma è partecipazione gratuita alle sue sofferenze redentrici. E poiché tali sofferenze sono state meritorie della benevolenza del Padre, ecco che per misericordia del Padre, per mezzo di Cristo, è concessa anche a noi la possibilità e ci è imposto il dovere di contribuire alla nostra redenzione e salvezza.

Dio non si offende per nulla se noi siamo sanamente fieri dei nostri meriti in campo naturale come in campo soprannaturale. La soddisfazione d’aver fatto del bene, di essersi fatti dei meriti, di aver potuto pagare i propri debiti, di essere stati giustamente ricompensati, d’aver fatto il proprio dovere, d’aver compiuto un buon lavoro, insomma d’aver ben meritato presso gli uomini come presso Dio,  è una delle maggiori e maggiormente onorevoli manifestazioni della nostra dignità umana, del tutto gradita a Dio, a patto che riconosciamo che il bene che abbiamo fatto ha in Dio la sua causa prima, per cui tutto si volga a lode e gloria di Dio e ad un ringraziamento a Dio. Luigino vuole essere grato a Dio e fa bene; ma si dimentica di ringraziarLo per la possibilità di farsi presso di lui dei meriti.

Dio vuole che meritiamo in Cristo e con Cristo nella nostra stessa opera di redenzione. Vuole che dopo essere stati umiliati sotto il peso dei nostri peccati e delle nostre miserie, sotto il dominio del diavolo, recuperiamo in Cristo e grazie a Cristo la fierezza di essere sue creature capaci di meritare la vita eterna.

È cosa ovvia del resto che Dio dona al di là del merito. E qui Egli non ha da corrispondere ad alcun suo impegno di giustizia, ad alcun diritto, ad alcuna finalità naturale, ad alcuna esigenza, ad alcuna inclinazione, ad alcun bisogno, ad alcuna richiesta nel soggetto beneficato.

Per questo qui Dio non fa riferimento nel soggetto a un patto precedentemente stabilito con lui o a qualcosa che ponga un termine o ad una misura al dono, come avviene nella giustizia: se per legge un reo merita dieci anni di galera, sarebbe ingiusto dargliene tre, come dargliene venti.

Ma nel caso del far grazia o misericordia, Dio è libero di dare al di là del merito a chi vuole e quanto vuole, senza spiegare a chicchessia il perché del suo gesto, come invece fa capire al premiato perchè stato premiato e al punito perchè è stato punito.  In tal senso si dice che la misericordia di Dio è di per sé infinita, mentre la giustizia è misurata, sebbene anche la misericordia accidentalmente possa cessare perchè il peccatore se ne rende indegno.

L’umiltà non dev’essere una scusa per non darsi alle buone opere

Lutero era molto preoccupato per l’atteggiamento di alcuni presuntuosi che accampavano davanti a Dio i propri meriti e quasi esigevano il premio celeste come compenso delle loro opere, come farebbe un operaio col datore di lavoro. Questo era un atteggiamento da pelagiano. Ma non si accorgeva che è altrettanta presunzione per non dire sfrontatezza pretendere di essere oggetto della grazia divina senza curarsi di acquistare meriti presso Dio.

Nessuno, dice giustamente la Scrittura, dovrà presentarsi davanti a me a mani vuote. Al contrario, dobbiamo consegnare a Dio il frutto del nostro lavoro, come servi fedeli che hanno trafficato i talenti ricevuti. Il servo che non ha fatto fruttare il talento ricevuto, viene giustamente punito.

Sorprende il fatto che Santa Teresa di Gesù Bambino, ignorando, a quanto sembra, il precetto della Scrittura, affermi tranquillante che lei si presenterà a Dio a mani vuote ed anzi lo dice con gioia e quasi con vanto. Che cosa intende dire? Essa vuole sottolineare la parte che Dio ha avuto nella sua vita, ricordare i doni straordinari ricevuti, riconoscere il suo nulla e le sue miserie davanti a Dio e l’immensità della sua misericordia. Vuol essere una professione di umiltà, quell’umiltà che ci porta dire con la Scrittura: «non a noi, Signore, dà gloria, ma al tuo santo nome». È un modo enfatico per esprimere tutto ciò. Ma non è raccomandabile, perchè è contrario al linguaggio biblico.

L’umiltà è riconoscere che siamo stati da Dio tratti dal nulla, ma non affermare che siamo nulla e che le nostre opere sono nulla. Questa è ingratitudine a Dio nostro Creatore. Denigrare l’effetto vuol dire denigrare la causa. Riconoscere la dignità e la grandezza dell’effetto, vuol dire riconoscere la superiore dignità e grandezza della sua causa divina.

Umiltà è certamente riconoscimento dei propri limiti, debolezze e peccati e provarne vergogna e dolore. Ma essa non può giungere, come fece Lutero, a considerare peccato ogni azione dell’uomo anche in grazia. Umiltà non è quindi, come fece Lutero, sfiducia totale delle proprie opere in vista della salvezza. A Dio possiamo e dobbiamo donare qualcosa di nostro, anzi dobbiamo donare tutti noi stessi.

Dopo il peccato originale rimangono ancora delle forze, benché indebolite ed inefficaci salvarci. Ebbene Dio ci chiede di dedicarGliele. Quello che manca lo aggiunge Lui. Sarebbe da ipocriti scrocconi farsi trasportare come pesi morti o comodi viaggiatori da Dio con la scusa che Egli ha pietà di noi peccatori, disubbidendoGli sfrontatamente in faccia e pensando così di approfittare della sua bontà. Se crediamo che sia questo il modo per ottenere la sua misericordia, ci sbaglieremmo di grosso. Sarebbe invece il modo per aumentare la sua ira, come è giusto e faremmo anche noi con uno che ci trattasse in questo modo. Cristo innocente ha dato tutto il suo sangue per liberarci dal peccato e scontare al nostro posto la pena che spetta a noi, e noi, colpevoli e debitori insolventi, penseremmo di farla franca facendo appello al fatto che Dio vuol salvare tutti e che la grazia è gratuita?

Lutero purtroppo concepì l’umiltà nel suddetto modo sbagliato esagerando falsamente la miseria conseguente al peccato e la debolezza e fragilità del peccatore, ma ciò fusolo un pretesto per sottrarsi al dovere di utilizzare le forze sane rimanenti dopo il peccato onde contribuire alla propria redenzione e collaborare con l’opera della grazia.

La salvezza è condizionata dalle buone opere

Luigino commette un gravissimo errore e cade vittima di una terribile illusione affermando che la salvezza è assicurata ed incondizionata, qualunque cosa facciamo: non è affatto vero, come dice e ripete chiarissimamente Cristo, essa è condizionata dall’osservanza dei comandamenti, anche se è vero che per poterli osservare degnamente, occorre essere in grazia.

Coloro che credono di esaltare Dio avvilendo o disprezzando il normale operare umano della ragione e del libero arbitrio, commettono un gravissimo peccato di ingratitudine a Dio, che ha dotato l’uomo di ragione e di libero arbitrio, affinchè collabori con la grazia nell’opera della sua salvezza.

Questi tali non si rendono conto che Dio è il creatore, la causa e il motore della libertà umana, che Egli crea e causa gli stessi atti soprannaturali del libero arbitrio, per i quali l’uomo, obbedendo a Dio sotto l’impulso della grazia, opera il bene ed accumula meriti per il paradiso.

Abbassare la dignità umana esagerandone i difetti o considerare vani i suoi sforzi diretti al ben fare, anche se nella condizione di natura decaduta, vuol dire offendere il Creatore. Al contrario, la vera umiltà, come riconosceva la stessa Santa, è verità, e la verità dice che è altissima la dignità della persona umana e delle opere che essa, almeno in linea di principio, produce o è capace di compiere, anche se ferita dal peccato. E del resto Santa Teresa non ha forse dato prova di aver fatto fruttare i suoi talenti facendosi santa? Dunque non si è presentata davanti a Dio «a mani vuote», ma ricchissima di meriti, frutti della misericordia divina.

Dobbiamo esser grati a Dio che ci rende capaci di meritare il paradiso

La gratitudine a Dio dev’essere certo innanzitutto gratitudine per le grazie ricevute, per ciò che Egli ci ha donato senz’alcun merito da parte nostra, per l’amore preveniente che ha avuto per noi mentre eravamo ancora peccatori e ribelli, per la potenza d’amore con la quale ha convertito i nostri cuori.

Ma dobbiamo esser grati a Dio anche per averci creati a sua immagine, per averci dotati di un’intelligenza e una volontà con le quali possiamo conoscere il vero ed operare il bene, ascoltare e mettere in pratica la sua Parola, acquistare le virtù ed operare per raggiungere Lui nostro fine ultimo e sommo bene, corrispondere con gratitudine e zelo al suo amore per noi, far fruttare i talenti ricevuti, convertirci dai nostri peccati, correggerci dai nostri vizi, cercarLo con tutte le nostre forze, dedicarci a Lui completamente, collaborare all’opera della grazia nell’osservanza dei suoi comandamenti, darGli prova del nostro amore per Lui, donandoGli tutti noi stessi fino al dono supremo della vita e infine ringraziandoLo per la possibilità stessa che ci ha dato di farci in Cristo dei meriti davanti a Lui.

Certo non dobbiamo vantarci dei nostri meriti, come se venissero esclusivamente da noi. Il vanto del cristiano, ci dice San Paolo, è la croce di Cristo. Certamente, è patire con Cristo, ma è anche agire con Cristo, poter esercitare le opere buone e soprattutto la carità.

Oggi in un clima di buonismo, col quale si è giunti a negare allegramente l’esistenza stessa del peccato, sembrerebbe che siamo agli antipodi di un Lutero che proclama angosciato che ogni azione del giusto è peccato. Eppure, se ci facciamo caso, vedremo che sia Lutero che i buonisti hanno la stessa concezione di Dio, che poi è anche quella di Luigino. Un Dio che sta a guardare quello che facciamo e basta, come nei paesi di campagna nella piazza del paese gli anziani seduti al caffè guardano i ragazzi che giocano.

Il Dio di Luigino, infatti, come abbiamo visto nelle puntate precedenti, non è il vero Dio della ragione e della fede, ma è una sua fantasiosa costruzione mentale, un Dio col quale si pone «in reciprocità», alla pari di lui in modo tale che come Luigino accoglie la sua divinità, però anche Dio deve lasciarsi «convertire» o «correggere», un Dio che non chiede «sacrifici», non chiede la «perfezione», loda la «sete», accetta l’«infedeltà» di un Luigino smarrito e inaridito, che sente il rimorso per il tradimento del suo «primo patto» della fanciullezza.

Ma che cosa è la salvezza?

Questa volta Luigino tuttavia si sente salvo e vuol ringraziare Dio. Salvo però senza meriti. Non convince. Si dice pronto ad amare chi non lo merita, perché secondo lui Dio fa così. Ma allora il merito esiste? Qui evidentemente non si tratta di uno privo di merito, ma di uno che demerita, ossia che merita un castigo. Allora si può meritare un castigo? Luigino ama il malvagio? E come? Non lo dice. Provo a dirlo io.

In verità, dire che Dio ama chi non lo merita non vuol dire, come crede Luigino, che accarezza chi gli sputa in faccia. Non è questa la vera bontà. Chi tocca i fili dell’alta tensione rimane fulminato, anche se l’alta tensione procura molti benefìci alla vita quotidiana.  Così Dio nel punire il malvagio non cessa di volergli bene. Ma qual è questo bene? Appunto il castigo, perché è bene che il malvagio sia punito: gli fa bene, perché lo spinge ad esser buono. Vediamo l’esempio del figliol prodigo.

Che Dio ama anche gli ingrati vuol dunque dire che ama anche i dannati dell’inferno, anche se certo il loro bene non potrà più essere un richiamo alla conversione, ma è stato l’accontentarli in ciò che hanno voluto: la loro propria volontà al posto di quella di Dio.

Dio dunque ama certamente anche gli ingrati, ma li ama castigandoli. Il premio invece lo concede solo ai grati. Ed è giusto. Quindi non è vero, come dice Luigino, che «Dio ci salverebbe ancora se fossimo ingrati». L’ingrato è per definizione colui che non è salvato ma è punito della sua ingratitudine. Il credere che l’ingrato sia salvo è la tipica contraddizione luterana del simul iustus et peccator, colpevole e innocente allo stesso tempo.

Quello che semmai Dio può e vuol fare è trasformare l’ingrato in grato. Allora sì che l’uomo si salva. Ma il fatto è che non tutti accettano di essere trasformati in questo modo. Se quindi vogliamo dare un senso accettabile alle parole di Luigino, dobbiamo dire così: Dio è pronto a salvarci se noi siamo pronti ad abbandonare la nostra ingratitudine e a lasciarci render grati dall’opera della sua grazia. Se invece rifiutiamo questa proposta e resistiamo alla grazia non siamo affatto salvati, ma andiamo all’inferno. Luigino invece si sente comunque salvo incondizionatamente. Pretende troppo. Ma poi che cosa intende Luigino per salvezza?

Come tutti i buonisti Luigino ha sempre sulla bocca la parola «salvezza», ma, come abbiamo visto nel suo articolo Come una farfalla effimera su Avvenire dell’8 agosto scorso, che ho commentato, la salvezza per Luigino non ha nulla di celeste e di trascendente, ma non è altro che il banale pagano adagiarsi nel mondo senza speranza nell’al di là, è il mondo del «lavoro», il mondo effimero di «un giorno» - la farfalla - dove non esiste un merito soprannaturale, che faccia guadagnare il paradiso, ma solo il merito al più prosaico stipendio a fine mese.

Conclusione improvvisa e inaspettata dell’articolo: l’immagine della cicogna, che secondo il racconto di quand’ero bambino era il grazioso e nobile uccello bianco che faceva arrivare in famiglia i nuovi fratellini appesi in un sacchetto sostenuto dal lungo becco.

Il tema della cicogna dà il titolo all’articolo, ma non è per nulla sviluppato nel suo corso. Torna il tema della fanciullezza. È evocato il dovere della gratitudine verso gli anziani. Ancora la nostalgia dell’innocenza? Del «primo patto»? È possibile. Ma il quadro che Luigino ha delineato nei precedenti articoli è ormai squallido a sconfortante. È un «deserto». Luigino è «impolverato» per il lungo vagare. Ricordiamogli tuttavia intanto che cosa è la salvezza in senso cristiano.

La salvezza cristiana è la liberazione, ad opera di Cristo, dalla schiavitù del peccato e dal castigo eterno, che tale schiavitù porta con sé. Questa liberazione consente all’uomo di recuperare gradualmente fino alla pienezza definitiva e finale l’esercizio del libero arbitrio, indebolito, limitato e frenato dalle conseguenze del peccato originale e dai singoli peccati personali. Questa liberazione sarà piena solo in paradiso e alla risurrezione della carne. Ma inizia già quaggiù con l’esercizio metodico ed ascetico, sorretto dalla grazia, delle forze del libero arbitrio rimaste dopo il disastro del peccato. Con questo esercizio sorretto dalla grazia, l’uomo, dedicandosi alle buone opere, con un cammino penitenziale, crescendo nelle virtù umane e teologali, sotto l’impulso dello Spirito Santo, acquista continui meriti, che fanno aumentare di giorno in giorno il tesoro immarcescibile, che si va accumulando in cielo, dove il ladro non scassina e la tignola non consuma (Mt 6,19).

Perorazione finale

Caro Dottor Tarquinio, penso che ormai Le sarà giunta all’orecchio notizia dei miei commenti sul mio blog che vado facendo agli articoli di Luigino Bruni che Ella da vari mesi sta pubblicando su Avvenire.

Mi colpisce e mi interessa molto la perseveranza puntigliosa con la quale Luigino ogni volta, con eccezionale creatività teologica e con ricche suggestive immagini poetiche, tratte dal mondo animale, nel quale evidentemente si trova a suo agio,  senza dar segno assolutamente di risentire degli appunti che gli faccio da quattro mesi, demolisce ad uno ad uno tutti  i valori del cristianesimo sotto falsi pretesti cristiani, senza che alcuno dei nostri amati Vescovi, su 250 che sono, per quanto mi risulti, batta ciglio o si faccia in alcun modo sentire davanti alle sue corbellerie, per usare un eufemismo.

Io allora, come riconoscimento di questa straordinaria impresa di successo, che rimarrà alla storia come Summa popolare del modernismo buonista di oggi, Le suggerirei, quando Luigino avrà terminato questa sua fatica, questo suo lavoro creativo di demolizione sistematica, di raccogliere in un volume tutte queste interessantissime meditazioni col titolo Come demolire il cristianesimo dall’interno senza disturbare i vescovi. In piccolo, sotto: «a cura del Quotidiano di ispirazione cattolica Avvenire».

Intanto io continuo ad accompagnare Luigino in questa straordinaria impresa teologico-creativa come farei con un cagnolino che porto a passeggio. Ogni tanto esso fa la sua caccatina. Io allora mi piego a terra e con la carta igienica pulisco il terreno. Qui però c’è una differenza, che nel caso del cagnolino è il terreno ad essere imbrattato. Ma nel caso di Luigino ad essere imbrattata è la Chiesa e sono le anime, se Lei crede ancora nell’immortalità dell’anima e quindi nella salvezza eterna delle anime.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 settembre 2020


 Immagine da internet

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