Alberto Melloni asinus italicus

 Alberto Melloni asinus italicus

Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza

                                                                                                                                              Pro 26,5

 Il modernismo storicista

Alberto Melloni è il più noto ed importante storico modernista contemporaneo. È il continuatore della Scuola di Bologna di storia del cristianesimo e della Chiesa fondata da Giuseppe Alberigo, la cui impostazione ermeneutica non contempla l’evoluzione omogenea del dogma[1], ma, in accordo con lo storicismo di Wilhelm Dilthey, erede di Hegel, per il quale non esiste una verità assoluta, eterna e sovratemporale e indipendente dagli eventi della storia, la verità è relativa al mutare dei tempi e delle circostanze storiche o, come si dice, veritas filia temporis.

Per lo storicismo infatti non esiste una realtà immutabile ed universale metastorica o sovrastorica o metafisica, ossia sovratemporale, ma tutto è storia, tutto è divenire storico, tutto è in movimento, tutto dev’essere continuamente ammodernato e rinnovato, tutto invecchia, passa e trascorre per essere sostituito dal nuovo, che a sua volta invecchia e viene sostituito da un’altra novità e così all’infinito, senza che mai si possa giungere a una verità o ad una quiete definitiva ed insuperabile. Non esiste nulla che non cambi, sia nella natura che nello spirito e quindi anche nelle dottrine, nel pensiero e nella morale. Dio stesso muta e diviene nel tempo. 

Lo storicismo ammette un progresso storico. Esso però non è dato da un continuo miglioramento della conoscenza e della pratica di valori assoluti, ma dal puro e semplice mutamento dei valori precedenti, i quali vengono considerati superati non perché si ha una migliore conoscenza della verità, ma per il semplice fatto che sono precedenti e si sono consunti, non importa che fossero veri o falsi. Ad ogni passo della storia tutto viene radicalmente mutato e rivoluzionato. 

Quindi il criterio per giudicare del vero e del falso non è dato dal riferimento a ideali o princìpi immutabili, ma dalla verifica se che quei dati valori hanno o non hanno esaurito la loro funzione storica e quindi se sono ancora o non sono più di utilità, per cui, essendo invecchiati, devono essere abbandonati per non impedire il progresso storico e per dar spazio ai sempre nuovi valori, che,  affacciandosi all’orizzonte della storia, premono per entrare nell’oggi e svolgere la loro funzione storica.

Quindi, nella visione storicistica non esiste mai nulla da conservare in eterno perché tutto, prima o poi, fa il suo tempo e non serve più. Conservarlo è come se uno, invece di gettare i rifiuti, li tenesse in casa. O come se uno, all’apparire di una cura più efficace o di un miglior mezzo di comunicazione, si ostinasse a conservare quello che c’era prima e che si era sempre fatto.

Come già aveva inteso Gian Battista Vico, il fondatore dello storicismo, per lo storicista non esiste un vero assoluto che trascenda l’uomo e indipendente dall’uomo, ma il vero è ciò che l’uomo fa, sono i fatti dell’uomo, dunque i fatti della storia, opera dell’uomo: verum ipsum factum, nell’implicita presupposizione che l’uomo non possa raggiungere una verità assoluta e non possa compiere opere che superino l’usura del tempo. Il vero, quindi, è sempre e solo il concreto, il questo, l’evento, il dato misurabile e verificabile. La pretesa di astrarre un universale immutabile e trascendente dal singolare è un perdere i contatti con la realtà e vagare nel mondo delle chimere.

Si comprende a che cosa porti una concezione del genere.  Siccome non esiste una verità universale, assoluta ed eterna, i modernisti storicisti ritengono che non esistono verità razionali e filosofiche assolute e perenni, e per conseguenza  gli insegnamenti di Cristo, i dogmi della fede cattolica, e gli articoli del Credo non esprimono concetti sempre validi, non valgono per tutti gli uomini e tutte le culture, in ogni tempo e circostanza, non pongono punti fermi ed irrinunciabili, non sono dei valori assoluti, per i quali dare anche la vita, ma, se non sono reinterpretati da loro, si riducono ad essere formule meccaniche e stantìe, schemi rigidi e astratti, lettera morta, espressioni superate, parole incomprensibili, frasi fatte, noiosi ritornelli.

Siccome inoltre per gli storicisti la natura umana e i valori morali non sono universali ed immutabili, ma mutano con l’evolversi dei tempi e nella varietà degli individui; e siccome essi ammettono sì una vaga esistenza di Dio, ma non un Dio creatore dell’uomo e della storia, che trascende con ciò stesso l’uomo e la storia, ne concludono che il rapporto dell’uomo con Dio non si lascia definire una volta per sempre in una verità dogmatica ed immutabile, ma è soggetto alla varietà, mutabilità e relatività delle interpretazioni, compresa quella della Chiesa o delle Chiese.

E siccome per loro Dio Si è bensì incarnato nella storia, ma per loro tutto è storia, ne viene che per loro l’Incarnazione del Verbo non è il fatto storico che la Persona del Verbo, restando immutata, ha assunto una carne umana, ma Ella stessa, mutabile anch’Ella, si è mutata in quella carne. Da qui la sostituzione che fanno dell’espressione dogmatica «Cristo Persona divina in due nature», con un non meglio definito «evento-Cristo».

E  siccome in quanto creatore e causa prima, Dio non può non essere immutabile e trascendente il mondo, il tempo e la storia, ne viene per conseguenza la distruzione della natura umana e dei valori morali e la negazione dell’esistenza di Dio o quanto meno del vero concetto di Dio.

Il cattolicesimo modernista

Ma la cosa stupefacente è la pretesa del modernismo, fondato su tali princìpi, se di princìpi si può parlare o non piuttosto di deliramenti, di interpretare il Vangelo, il cristianesimo e la Chiesa meglio di quanto facciano il Magistero della Chiesa stessa e il dogma, e quindi di poter vivere, insegnare, pontificare, blaterare, demolire, imbrogliare e intrallazzare all’interno della Chiesa come un cancro all’interno di un organismo umano.

Il capo riconosciuto dei modernisti, che naturalmente non si riconoscono come tali, ma si fregiano dell’ambìto titolo di progressisti e come tali sono riconosciuti da molti ingenui, è Karl Rahner, come ho dimostrato in un mio libro su di lui[2].

Ora Alberto Melloni ha pubblicato un articoletto sul periodico Domani, rubrica Communio Ecclesiarum del 5 ottobre scorso, dal titolo Così Francesco libera la Chiesa dalle frasi fatte, articolo che vorrebbe essere un commento alla enciclica Tutti fratelli di Papa Francesco, dove tra l’altro Melloni afferma: 

 

«Francesco mostra che il problema non è di formularità o di arzigogoli pseudoteologici, ma topografico: bisogna sapere il luogo in cui la vita di fede produce letture del Vangelo del tempo».

In queste parole traspare la concezione melloniana della fede, dell’autorità del Papa e della funzione della Chiesa: il problema vivo di oggi secondo lui non è quello di ricordare che l’interpretazione del Vangelo spetta supremamente al Papa con la chiara esposizione delle formule dogmatiche, perchè questo sarebbe un diventar schiavi di «frasi fatte», dalle quali invece ci libera il Papa.

Esigere questo sarebbe un perder tempo nella «formularità e negli arzigogoli di una pseudoteologia», come per esempio quella di un certo Padre Cavalcoli, definito «teologhetto» da Melloni tempo fa sul Corriere della Sera e da lui insultato in occasione della sua catechesi a Radio Maria del 30 ottobre 2016.

Invece, la teologia e l’interpretazione del Vangelo, secondo il grande teologo Melloni, non nascono dall’interpretazione dogmatica che il Papa dà del Vangelo, ma nascono dalla geografia, ossia dai diversi luoghi nei quali emergono i pareri delle singole Chiese locali, cattoliche, protestanti ed ortodosse. Infatti per Melloni, che in fondo è un nominalista, non esiste la Chiesa, ma esistono solo le Chiese.

Il nominalista non riesce ad astrarre l’universale, l’unum in multis, dal singolo concreto e a considerarlo per sé stesso. Quindi per lui, unità non è un uno astratto dai molti, ma è solo l’unione dei molti. Ne viene che per lui è impossibile l’esistenza di una sola verità una ed unica per tutti. Ma la verità è un insieme di verità diverse, ognuna appartenente a ciascuno dei singoli dell’insieme. Per questo al nominalista, che poi si traduce nello storicista, ripugna parlare di una sola fede, una per tutti, ma esistono molte fedi, una diversa dall’altra. Per questo gli ripugna parlare di fede vera e di fede falsa, di verità e di eresia. Gli sembra un modo di pensare e giudicare contrario all’ecumenismo.

L’ecumenismo di Alberto Melloni

Melloni passa per essere e si considera egli stesso un grande esperto nell’ecumenismo, soprattutto con gli Ortodossi, probabilmente erede dell’impostazione spirituale di Don Giuseppe Dossetti, ammiratore della spiritualità orientale, fondatore di una Famiglia monastica e monaco egli stesso, nonché confondatore insieme col Card. Giacomo Lercaro del prestigioso Centro di Documentazione per le Scienze Religiose di Bologna, al quale accennerò sotto e dal quale Melloni proviene.

Senonchè però Melloni non segue esattamente ciò che il Concilio insegna sull’ecumenismo, per cui gli è capitato di fare delle figure barbine, come quando, all’inizio di questo pontificato, entusiasta dell’ecumenismo di Papa Francesco, andando al di là del ragionevole, affermò che ormai dopo 1000 anni Francesco aveva messo pace fra la Chiesa Romana e quella di Costantinopoli,  per cui si lanciò a prevedere che entro pochi mesi Papa Francesco, in uno storico  incontro col Patriarca di Costantinopoli, avrebbe rinunciato al Primato di Vescovo di Roma ed avrebbe solennemente dichiarato la sua parità di Fratellanza cristiana col Patriarca. Naturalmente non se ne fece nulla. Ma non so se Melloni ha imparato qualcosa da questa disavventura.

Stante la sua impostazione gnoseologica nominalista, temo che Melloni, del documento conciliare sull’ecumenismo abbia recepito solo la parte iniziale (n.2), nella quale si evidenziano gli elementi di diversità e di verità contenuti nelle convinzioni dei fratelli separati, ma abbia ignorato il discorso conclusivo (n.3), nel quale il Concilio dice chiaramente che il dialogo ecumenico deve adoperarsi per condurre i fratelli separati, liberati dagli «impedimenti» e dalle «carenze», che ancora fanno ostacolo, alla «piena incorporazione con la cattolica Chiesa di Cristo», la quale sola contiene «tutta la pienezza dei mezzi della salvezza».   

Osservo che un diverso che diventa falso rispetto al vero o male rispetto al bene, non è più un diverso unificante e fautore di pace, ma è un diverso ostile, conflittuale, divisivo e distruttivo. Il vero pluralismo della concordia e della pace si dà solo all’interno del vero e del bene. Il credere che anche il falso e il male contribuisca a promuovere il pluralismo e alla diversità, porta in realtà all’aggravamento della conflittualità e alla fine rende il dialogo impossibile.

La Unitatis redintegratio ci fa capire bene che l’ecumenismo non si esaurisce nel rispetto delle diversità, nel riconoscimento e nella messa in comune di valori comuni, ma richiede un’opera tesa a togliere gli impedimenti e a colmare le carenze. Occorre allora che quelle comunità che nel passato si sono separate da quella pienezza che si trova nella Chiesa cattolica, provocando con ciò stesso la perdita di alcuni valori, recuperino questi valori riorientandosi a quella piena comunione con la Chiesa cattolica, che garantiva appunto il possesso di quei valori, dei quali si sono privati appunto con la separazione.

Aggiungiamo che il diverso come tale è un valore, è una ricchezza che va rispettata. Non si tratta, quindi, tra i diversi, di stabilire un unico modello per obbligare tutti gli altri a conformarsi a quello, come se per esempio si scegliessero i domenicani e si obbligassero anche i francescani e i gesuiti a conformarsi ai domenicani. È solo la presenza del falso e del male che suscita conflitti e divisioni. Per creare dunque la pace e la concordia occorre quindi togliere il falso e il male, ma non il diverso, che invece, come principio di reciprocità, è sorgente di unione e di amore reciproco fra i diversi.

Diverso è il caso dei rapporti dei cattolici con i protestanti e gli ortodossi. Qui non c’è l’innocua opposizione fra diverso e diverso, ma tra vero e falso. Non bisogna confondere, perché il confondere il diverso col falso suppone e genera una pluralità disunita, disordinata, conflittuale, che per trovare pace e unità, dev’essere liberata dai fattori di divisione, per creare la pluralità pacifica e concorde. E come? Lo dice la Unitatis redintegratio: occorre che le comunità separate tolgano carenze e impedimenti e convergano verso la piena comunione con la Chiesa cattolica, che possiede la pienezza della verità.

Un conto è dunque fra i cristiani la diversità concorde e un conto è la diversità discorde. L’ecumenismo rispetta la prima e intende togliere la seconda. Diversità concorde è per esempio la diversità fra domenicani, francescani e gesuiti. Questa è una sinfonia. Diversità discorde invece è per esempio quella fra cattolici, anglicani, ortodossi e protestanti. Questa è una cacofonìa.

Occorre dunque, secondo l’Unitatis redintegratio, che le comunità frenate da carenze ed impedimenti circa la pienezza dei mezzi della salvezza, convergano laddove trovano la pienezza di questi mezzi, ossia nella Chiesa cattolica. Naturalmente il discorso del Concilio si riferisce alle comunità; non tocca i singoli individui, perché nulla impedisce che un protestante o un ortodosso fervoroso sia più gradito agli occhi di Dio che non un cattolico senza fervore.

Invece Melloni confonde il pluralismo con la discordia, il falso col diverso. In tal modo egli lascia sussistere la discordia scambiandola per pluralismo e lascia sussistere il falso scambiandolo per diverso. Da che cosa dipende questo errore? Dal fatto che non si rende conto che non può esserci accordo tra il vero e il falso, o tra il bene e il male e che anzi si escludono a vicenda. Accordo e concordia possono esistere solo tra questo e quell’altro vero, tra questo e quell’altro bene. Ora, se i confini tra l’uno e l’altro non sono chiaramente, saldamente ed eternamente costituiti, ma si passa dall’uno altro in forza del divenire storico, si capisce allora facilmente come il concepire un Dio immutabile o un Dio che muta non mette in gioco la verità, ma solo la diversità tra una mentalità medioevale e la teologia moderna.

La nota del Papa su Rahner

Melloni cita poi compiaciuto  la nota 67 dell’enciclica, corrispondente al punto dove il Papa cita una breve affermazione di Rahner: «in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso»[3]. Un’affermazione che, presa come suona, certamente è accettabile ed è anche bella, ma che in Rahner, può avere ed anzi ha anche un altro senso, come moltissime sue affermazioni a doppio senso: uno edificante e l’altro fuorviante.

Naturalmente il Papa, con gesto magnanimo, interpreta in meliorem partem: l’uomo deve decidersi ad uscire da se stesso, dal proprio egoismo, per balzare generosamente e con entusiasmo verso gli altri e verso Dio. Chi disapproverebbe un pensiero del genere?

Ma ecco l’insidia del significato propriamente rahneriano: nel contesto dell’antropologia soprannaturale rahneriana, il «balzo» è visto bensì come effetto della grazia soprannaturale, ma il soprannaturale rahneriano non è – per esplicita dichiarazione di Rahner – una vita divina che si aggiunge alla natura, ma è un «esistenziale» necessario della concreta esistenza storica di ogni uomo,  dell’uomo come tale, per il quale l’uomo si «autotrascende in Dio come orizzonte dell’autotrascendenza umana».  

Insomma: non è un vero soprannaturale, ma è un divino che corrisponde alla stessa concezione rahneriana del conoscere umano, concepito sul modulo hegeliano, denunciato dal Fabro, dell’identità di conoscere ed essere, che conduce ad identificare il sapere umano col sapere divino. Da qui lo sbocco panteistico dell’antropologia rahneriana, denunciato dal Card. Ratzinger, nella sua accusa fatta a Rahner di pareggiare la libertà umana alla libertà divina[4].

Come valutare questa citazione di Rahner nell’enciclica? È un’approvazione del rahnerismo? È impensabile, dato il contrasto dei princìpi di Rahner con la dottrina della fede. Anzi il Papa più volte ha avuto occasione di correggere errori rahneriani senza nominarlo in gnoseologia, in ontologia, in cristologia, in sacramentaria, in ecclesiologia, nel mistero trinitario, nell’interpretazione del Concilio Vaticano II, nella dottrina della grazia e del peccato, in antropologia, in morale.

Nell’ultima parte dell’enciclica, prima del riferimento all’accordo di Abu-Dhabi, il Papa spicca il volo per elevate e profonde considerazioni filosofiche e teologiche sulla condanna del relativismo e del soggettivismo, sull’oggettività ed immutabilità della verità e dei supremi valori, sulla dignità umana, sulla dignità della coscienza, sui fondamenti teologici e metafisici della morale, sull’universalità ed intangibilità dei diritti dell’uomo e della legge naturale, tutte asserzioni che fanno piazza pulita del relativismo, dell’idealismo e dello storicismo rahneriani.

Da una semplice frase di 15 parole non si può dedurre nulla. Niente impedisce a un Papa di citare una frase accettabile di un Autore per il resto condannabile. Era stupefacente, ma anche significativo che finora il Pontefice, in sette anni di pontificato, non avesse mai citato nulla di un Autore notissimo e molto influente, con all’attivo migliaia di pubblicazioni, quando Francesco non ha problemi a citare Autori anche eretici come Lutero.

Come si deve interpretare questo silenzio, che resta, nonostante l’insignificante citazione della nota 67? Certamente il Papa è stato sottoposto a forti pressioni e suppliche da parte del fortissimo partito rahneriano. Questo silenzio a mio avviso è una sostanziale disapprovazione dei princìpi rahneriani; mentre nel contempo non manca in lui senza dubbio l’assunzione degli aspetti validi del suo pensiero. Ma come non lo cita per gli errori, così non lo cita nei lati buoni.

La questione della giusta guerra e della pena di morte 

Per quanto riguarda poi il pensiero del Papa circa la questione della liceità della guerra e della pena di morte, Melloni parla erroneamente di mutamento di dottrina. Non si tratta di dottrina ma di leggi positive. Mentre infatti la dottrina morale della Chiesa, avendo relazione col dogma, non cambia, possono cambiare e di fatto cambiano le leggi positive. È questo il caso della guerra e della pena di morte, un tempo ammesse in certi casi, mentre oggi la Chiesa tende ad opporsi in ogni caso. Ci si può chiedere però che senso abbia il mantenimento delle forze armate nei singoli Stati.

Tuttavia, la tesi del Papa che non possano esistere una guerra giusta ed una giusta pena di morte è una tesi rispettabile, ma non si può considerarla un vero e proprio obbligo morale, perché non la si può fondare sul diritto naturale. E quindi gli Stati non possono sentirsi obbligati ad accettarla, come invece sono obbligati a proibire infrazioni al diritto naturale come il furto o l’omicidio o ad imporre il rispetto del diritto naturale come quello alla libertà religiosa. Anche la stessa condanna dell’aborto o dell’eutanasia, pur essendo fondata sul diritto naturale, purtroppo la Chiesa fatica a farle introdurre nella legge civile.

Un elenco degli asini 

                                                                             Allo stolto che giudica il sapiente,

                                                              il sapiente sembra stolto

Melloni, poi, uscendo dal suo ruolo di storico per atteggiarsi a teologo, con la tipica sicumera dei gradassi, sullo stile di certi studiosi che, quanto più sono eruditi, tanto più sono miopi, non ha temuto di spararla grossa con l’impudenza di ironizzare sui critici di Rahner, i quali lo qualificherebbero come «asinus germanicus», senza rendersi conto di chi andava a colpire con tale stolta ironia, che fa apparire come asini gli stessi critici di Rahner.

Si tratta infatti del meglio dell’intelligenza filosofica e teologica italiana e straniera da 60 anni a questa parte, la quale si è premurata di avvertire la Chiesa della pericolosità del Gesuita tedesco, ognuno di questi studiosi o pastori secondo la propria competenza, filosofica, gnoseologica, antropologica, metafisica, pastorale, morale, dogmatica, teologica.  

Facciamo un breve elenco degli asini principali. 

1. San Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor del 1993, n.65. Condanna la nozione rahneriana di opzione fondamentale come libertà atematica irrevocabile escludente il libero arbitrio.

2. Joseph Ratzinger, Les principes de la théologie catholique. Abbiamo già visto di che si tratta.

3. Card. Giuseppe Siri, Getsemani. Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo, Roma 1980. Dimostra la falsità del soprannaturale rahneriano abbassato al livello della natura.

4. Card. Pietro Parente, La crisi della verità e il Concilio Vaticano II, Rovigo 1983. Dimostra la truffa di Rahner di presentarsi come interprete del Concilio.

 4. Hans Urs Von Balthasar, Cordula ovverosia il caso serio, Brescia 1975, pp.96, 107. Lo storicismo hegeliano di Rahner.

5. Cornelio Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Milano 1974. La riduzione dell’essere al conoscere.

6. Antonio Livi, Il metodo teologico di Karl Rahner, in Fides Catholica, 2,2007, pp.269-276. La relativizzazione del dogma.

7. Brunero Gherardini, Natura e grazia. L’equivoco di Karl Rahner, in Fides Catholica, 2, 2007, pp.277-288. La grazia come vertice della natura.

8. Bernhard Lakebrink, Klassische Metaphysik. Eine auseinandersetzung mit der existentialen Anthropozentrik, Friburgo in Brisgovia 1967. La confusione tra natura umana e condizione umana.

9. David Berger, Commiato da un pericoloso mito. Nuovi studi su Karl Rahner, in Fides Catholica, 2,2006, pp.81-106. Il sistema idealistico di Rahner.

10. Dario Composta, La nuova morale i suoi problemi. Critica sistematica alla luce del pensiero tomista, Città del Vaticano 1990. L’etica esistenzialista di Rahner.

11. Alberto Galli, Premesse filosofiche della teologia moderna, Studio Teologico Accademico Bolognese, 1974. Il neomodernismo nella teologia morale e l’influsso di Rahner.

12. Daniel Ols, Le cristologie contemporanee e le loro posizioni fondamentali al vaglio della dottrina di San Tommaso, Città del Vaticano 1991. L’influsso hegeliano nella cristologia di Rahner.

13. Giuseppe Perini, Pluralismo teologico e unità della fede. A proposito delle teorie di K. Rahner, in Doctor Communis, 1979. Il relativismo e storicismo dogmatico di Rahner.

14. P. Eichert, Die Anthropogische Wende. Karl Rahners philosophische Weg vom Wesen des Menschen zur personalen Existenz, Frieburg, Schweitz 1970. L’essere che si risolve nell’uomo.

15. Luίs Rodrigo Ewart, Autocomunicaciόne divina. Estudio crίtico de la cristologίa de Karl Rahner a propόsito de Gaudium et spes 22, Roma 1993. Il panteismo cristologico di Karl Rahner.

16. Paolo Siano, Karl Rahner massonico? Il pensiero di Karl Rahner e la cultura massonica a confronto, in Fides Catholica, 2.2007, pp.315-360. L’affinità con l’antropocentrismo massonico.

17. Tomas Tyn, Saggio sull’etica esistenziale di Karl Rahner, Verona 2011. Il soggettivismo morale di Rahner

18. Karl Rahner. Un’analisi critica, Atti del convegno internazionale promosso dai Francescani dell’Immacolata. Cantagalli, Siena 2009.

 

 Lo storico e il teologo

 

Scientia inflat, caritas vero aedificat

I Cor 8,1

Lo storico indaga le imprese e i fatti dell’uomo in questo mondo orientato all’Eterno, ossia nel tempo. Il teologo indaga l’Eterno in sé stesso e in rapporto con l’uomo, col mondo, con la storia. Lo storico parte dall’esperienza dei fatti umani e solleva lo sguardo verso Dio, il fine della storia. Usa quindi il metodo induttivo. Vede la storia come opera dell’uomo, ma nel contempo manifestazione della Provvidenza. Il teologo, informato dalla storia, si tiene librato nell’Eterno, ed usa quindi il metodo deduttivo. Come moralista, scende nella storia, la giudica e la fa progredire alla luce di Dio.

Lo storico deve stare attento a non lasciarsi assorbire e sedurre dalla storia e dal divenire, sì da perder di vista la luce dell’essere, dell’Eterno. Il teologo deve fare attenzione a non perdere gli umili contatti con la storia, e a non astrarsi dagli avvenimenti, sedotto dal piacere di pensare, dimentico della natura materiale e temporale dell’uomo. Lo storico deve meditare sull’Eterno per non abbandonare la storia a sé stessa e darle una guida. Il teologo deve tenersi aggiornato sugli eventi, per dar nutrimento e ragion d’essere alla sua ricerca su Dio e alla regolazione dell’azione umana.

Il mistero dell’Incarnazione ha dato un notevolissimo impulso alla collaborazione tra lo storico e il teologo. Infatti nell’unica Persona di Cristo il tempo si unisce all’Eterno, Dio al mondo, ciò che passa a ciò che non passa, il mutamento all’immutabile, lo stabile al transeunte, il corruttibile all’incorruttibile, il divenire all’essere, il fatto al fattore, l’evento a colui che avviene.

Ho un caro ricordo del Centro di Documentazione per le Scienze religiose, sede di studio e di lavoro della Scuola di Bologna, che frequentai negli anni fine ’60 del secolo scorso, mentre ero studente di filosofia all’Università di Bologna. Lì vi conobbi Giuseppe Alberigo. Ricordo che utilizzai il Centro per la preparazione della mia tesi di laurea in filosofia, che sostenni nel 1970.

L’anno dopo mi feci Domenicano nel convento di Bologna. Il suddetto Centro è fornitissimo. Mi dicevano che erano abbonati a 800 riviste scientifiche. Lì probabilmente si formò e lavorò anche il prof. Melloni, del quale ammiro l’erudizione. Può essere che l’abbia incontrato, ma allora non lo conoscevo. Con l’ignoranza religiosa, che c’è in giro, quanto bisogno c’è di Centri di questo genere! Quanto bene fanno! Occorre però che siano in piena comunione con la Chiesa e nutriti di sana dottrina. Poco vale, anzi sarebbe pericolosa l’erudizione senza questo zelo per la verità.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato 17 ottobre 2020

 



 Card. Giacomo Lercaro 

Immagine da internet

 

 

 

 

 



[1] Francisco Marin-Sola, La evoluciόn homogenea del dogma catόlico, BAC, Madrid 1953.

[2] Karl Rahner.Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.

[3] Karl Rahner, S.I., Kleines Kirchenjahr. Ein Gang durch den Festkreis, Herder, Friburgo 1981, p.30 (ed. it. L’anno liturgico, Morcelliana, Brescia 1964, p.34).

 

[4] Cf J.Ratzinger, Les principes de la théologie catholique, Téqui, Paris 192, pp.179-191.

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