Guido Mattiussi e Joseph Maréchal
Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant
alle origini del modernismo
Seconda Parte (2/3)
Che cosa volle fare Kant?
Kant ritenne che ai suoi tempi era giunto il momento che la ragione mettesse ordine in se stessa liberata da vane pretese o ingenue credulità, speciose illusioni, irragionevoli dubbi, mescolanza con fantasticherie, indisciplina logica, soggezione a superstizioni e fanatismi, capace di fare l’inventario dei suoi contenuti, dei suoi princìpi, delle sue operazioni e delle sue leggi, di misurare le sue forze e le sue risorse, di chiarire qual è il suo scopo, di determinare il suo ambito e i suoi confini, nel suo rapporto con i sensi, l’esperienza, la sua storia, la volontà e la realtà esterna.
Per Kant uscire dai limiti della ragione è illusione, follia, demenza, irrazionalità, immoralità. Superarli? Li supera con l’idea suprema della ragione, l’idea di un Dio, ente primo e supremo, fine ultimo, sommo bene, creatore, personale, provvidente, rimuneratore, onnipotente. Tuttavia la ragione non è superata e non è creata da questo Dio, che è immanente alla ragione la quale lo coglie come idea superando sé stessa.
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Kant si era formato alla metafisica di Wolff, la quale, alla maniera di Cartesio, non partiva dalla constatazione delle cose per ricavare la nozione dell’ente, ma partiva dalla coscienza di sé e delle cose. Inoltre Wolff sulla questione dell’oggetto della metafisica non è chiaro, perché egli espone il suo pensiero in merito in due trattati, uno in tedesco, la Metafisica tedesca, e uno in latino, l’Ontologia, dove l’oggetto della metafisica è presentato in due modi differenti.
Infatti nella Metafisica tedesca egli non pone ad oggetto della metafisica l’ente, che in tedesco si può rendere con la parola seiende o wesen o Dasein. Usa invece il termine Ding o Sache, che significa «cosa», in latino res, da cui viene realtà, in tedesco Wircklicliteit.
Ora la cosa (res) non è
esattamente l’ente (ens), ma è uno dei trascendentali, quello che si riferisce
all’ente in quanto essenza. Ente, invece, non dice solo essenza, ma anche
essere, che è l’atto dell’essenza.
Invece, nella sua Ontologia, scritta in latino, Wolff usa il termine ens per designare l’oggetto della metafisica, solo che per lui non è l’ente esistente in atto d’essere, e tanto meno è l’essere come atto d’essere, ma è l’ente possibile, nell’anima, che può essere attuato e divenire reale fuori dell’anima.
Da qui noi comprendiamo come da questa metafisica possa scaturire l’idealismo al posto del realismo. Infatti è chiaro che il possibile appartiene al piano dell’ideale e non del reale e se il primo oggetto del pensare è il possibile, il reale perde il primato che esso ha nel realismo, e diventa un derivato del possibile: l’idea diventa più importante della realtà. Opportunamente, quindi, in polemica contro l’idealismo, il Papa ci ha richiamato al primato della realtà sull’idea.
Wolff, come Cartesio, inverte e falsifica il processo del conoscere umano: noi cominciamo col conoscere le cose esistenti in atto, e da qui traiamo la nozione della loro possibilità. Non cominciamo a conoscere il possibile (ideale) per aggiungervi successivamente l’attuale (reale), ma attingiamo all’attuale, per capire successivamente che è l’attuazione del possibile. Spetta a Dio creatore e non all’uomo conoscere a priori l’idea delle cose e, se crede, scegliere fra di esse quelle che vuol realizzare creandole. Ma noi le attingiamo già create e solo conoscendole ne conosciamo la loro possibilità.
Immagine da Internet:
- La creazione, Battistero San Giovanni, Firenze
- Christian Wolff
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