Riflessioni sul peccato mortale. Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto.

 

Riflessioni sul peccato mortale

Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto

 

Introduzione

È raro che oggi si senta parlare di peccato mortale. In questi sessant’anni dopo il Concilio è avvenuto un cambiamento anche su questo punto fondamentale della vita cristiana. Ricordo infatti con quale facilità i sacerdoti, riguardo alla pratica della confessione, parlavano di peccato mortale, soprattutto in relazione ai peccati sessuali. In relazione a ciò ricordavano il fatto che il peccato mortale merita l’inferno.

Con molta facilità ci si accusava di peccati mortali e si avvertiva il prossimo che la tal cosa è peccato mortale. Diverse cose, soprattutto nel sesso, erano qualificate come peccato mortale. Si facevano casistiche nelle quali si diceva: questo è peccato mortale, quest’altro è peccato veniale.

Facilmente ci si sentiva in colpa o s’incolpava qualcuno. In molti era presente il timore di andare all’inferno e molti si astenevano dal peccare per evitare l’inferno.  Non sempre era chiaro perché una data azione era peccato. Si diceva che essa meritava l’inferno e tanto doveva bastare per astenersi da quella azione.

Si aveva la percezione dell’universalità, inviolabilità ed immutabilità della legge morale, espressione della volontà divina, legge uguale per tutti, alla quale tutti sono vincolati, per tutti obbligante e che tutti dovevano applicare nei vari casi della vita.

Oggi tutti questi discorsi sono scomparsi. Oggi viviamo in un clima di relativismo morale. Non più l’individuo soggetto alla legge, ma è la legge che è relativa all’individuo, varia da individuo a individuo. Così ognuno si sente libero di decidere per conto proprio ciò che è bene per lui senza render conto a nessuno. Si parla di dialogo, amore, di bene comune e di comunione. Ma è ovvio che un individualismo del genere non può che generare odio, competizione, conflitti, guerre e divisioni.

Oggi spesso si è perso il concetto di peccato, benché la sua nozione appartenga spontaneamente alla coscienza morale naturale, alla «sinderesi», come la Chiama San Paolo, ed essa – il peccatum - si trovi già in Cicerone: mala actio: è un’azione cattiva in quanto infrazione della legge morale, un’inadempienza al dovere. Il peccato è un atto malefico volontario, è disobbedienza consapevole e volontaria alla legge divina, causata dall’odio verso Dio. Lo scopo del peccato è l’affermazione della propria volontà.

Oggi il paradigma del male non è il peccato, ma la sofferenza, che s’intende evitare ad ogni costo, anche peccando come per esempio con l’eutanasia, come se questa fosse il male assoluto. Invece per noi cristiani la sofferenza può essere anche un bene; il male assoluto è il peccato, che pertanto, non vogliamo assolutamente e ad ogni costo. Non diciamo che sia necessariamente colpevole chi crolla sotto il peso della sofferenza. Tuttavia la coscienza ci dice che dobbiamo esser pronti a sopportare il male, pur di non fare il male.

La perdita del senso del peccato suppone in molti uno sfondo di pensiero che non distingue adeguatamente il bene dal male, nel senso che sopravvaluta il male e sottovaluta il bene; non dà al bene il primato che gli spetta nei confronti del male. Bisogna invece dire che il bene è necessario; il male è contingente. Ci si dimentica che il male non può stare senza il bene, ma il bene può esistere senza il male. Il bene è invincibile; il male è rimediabile e vincibile. Può esistere un bene senza difetti, ma l’ente difettoso ha sempre lati buoni per altri aspetti.  Può esistere una perfezione assoluta: il male è congiunto con un bene imperfetto. Una persona può essere senza peccato, ma il peccatore come persona ha sempre lati buoni.

Il rapporto del bene col male assume un aspetto assai misterioso quando si tratta di comprendere il rapporto di Dio col male. Sembrerebbe che la bontà divina richiedesse che Dio non voglia il male in modo assoluto. Invece non è così, come sappiamo dalla rivelazione. Se infatti Egli avesse voluto, avrebbe potuto creare un mondo dal quale il male fosse assente o, se fosse stato presente, avrebbe potuto toglierlo completamente, come ha creduto Origene. Invece di fatto Dio ha voluto non impedire l’esistenza del peccato e quindi ha voluto l’esistenza del male di pena, mentre il peccato assolutamente non lo vuole e non lo fa. Occorre allora concludere, benché ciò sia arduo da capire, che è bene che ci sia il male.

Che cosa è il peccato?

La parola «peccato» o «colpa» sembra oggi mettere a disagio.  Così pure il parlare di cattiva intenzione, cattiva volontà, malafede, malizia, falsità, malvagità. Si preferisce parlare di sbaglio, fragilità, debolezza, mancanza, errore, che in realtà sono altre cose, effettivamente scusabili, mentre il peccato volontario e la vera colpa meritano punizione. I peccati sono atti perdonabili, ma per essere effettivamente perdonati, occorre il pentimento del peccatore.

Ma chi dice ancor oggi che dobbiamo ascoltare chi ci corregge? Che dobbiamo ritrattare i nostri errori? Che dobbiamo riconoscere i nostri peccati? Che Dio ci castiga per i nostri peccati? Che le sventure sono castighi di Dio? Che bisogna far penitenza dei propri peccati? Che dobbiamo riparare al male fatto? Che bisogna scontare ed espiare le proprie colpe? Che dobbiamo offrire sacrifici per i nostri peccati?

Il peccato è un atto umano che non pone, non costruisce, non edifica, ma diminuisce, degrada, disintegra, dissolve, distrugge o toglie l’essere, senza per questo annullarlo, perchè solo Dio potrebbe, se volesse, annullare l’ente essendone il creatore. Ma la creatura spirituale, uomo o angelo, col suo libero arbitrio può porre un ente o un atto diminuito, può causare un ente affetto dal male che è privazione di essere dovuto.

Nel peccare proviamo un piacere perverso; diversamente, se il peccato non ci apparisse attraente e piacevole, non lo commetteremmo. Viceversa il vero bene a volte ci pare insipido, vuoto, noioso, pesante, ripugnante. Per questo siamo portati a respingerlo.

Certo resta il problema di determinare i contenuti e i fini dell’agire, di ciò che è bene e ciò che è male. Ma pure seguendo San Paolo, che anche qui si accorda con Cicerone, il riferimento sono i contenuti di quella lex naturalis non scritta, che nella Bibbia, come fa notare San Tommaso d’Aquino, corrisponde ai dieci Comandamenti.

Invece sentiamo che il bene morale lo dobbiamo volere assolutamente e ad ogni costo. Certo la volontà vuole sempre un bene in senso ontologico, altrimenti non potrebbe neppure esercitarsi. Il peccato è un bene, ma un falso bene, un bene solo apparente, non un bene in sé ma deciso da noi, un bene insufficiente e carente.

La certezza d’aver peccato, come Davide, è una grazia preziosa così come la certezza di essere in grazia, come spesso canta il Salmista. La prima ci spinge ad un emendamento sincero; la seconda ci incoraggia nelle buone opere e in grandi imprese per la gloria di Dio. Chiediamo a Dio questo dono ed Egli ce lo concederà.

Osserviamo ancora che Dio è causa prima dell’ente e questi è causa seconda. Ma se questo ente è spirituale esercita una causalità deficiente tutta sua propria, che è condizionata dalla finitezza del suo essere unito al non-essere. Essa rende possibile un difetto nell’ente o la sua distruzione o degradazione o una deviazione o una frustrazione nel suo retto agire.

Dio è causa efficiente prima. La creatura libera è causa efficiente seconda mossa da Dio. Ma essa è causa indipendente da Dio del male o del peccato in quanto causa deficiente, che fa diminuire l’essere o lo distrugge o lo frustra o lo dissolve o lo disintegra o blocca nella sua crescita.

La perdita odierna del senso del peccato, il non sentirlo più come qualcosa di odioso, dipende dal fatto che non percepiamo il danno che ci viene dal contrasto fra la nostra volontà e la volontà divina e non ci rendiamo più conto delle conseguenze che ci procura tale volontario rifiuto.  Non abbiamo più il senso della trascendenza e maestà divine, dalle quali dipendiamo nel nostro esistere e nella nostra vera felicità, ma trattiamo o sentiamo Dio come se fosse un altro individuo alla pari di noi non importa delle conseguenze. Come dice Nietzsche, siamo portati a danzare anche all’inferno.

Questa situazione si può verificare in vari modi. C’è l’ateo, il quale si sente dispensato dall’obbedire a una volontà divina, dato che per lui Dio non esiste. Per regolarsi nella sua vita, ritiene che sia sufficiente la sua volontà. C’è chi considera Dio come suo nemico, per cui rifiuta di obbedirGli.  C’è chi crede che la propria volontà sia una manifestazione della volontà divina. C’è chi crede che Dio approvi tutto quello che vuole lui. C’è chi ritiene che Dio nella sua misericordia lasci passare tutto e non condanni nessuno. C’è chi ritiene di essere Dio egli stesso sotto apparenze empiriche e quindi di fruire di quella libertà assoluta e creativa che è propria di Dio. C’è il materialista, il quale non crede al libero arbitrio, ma ritiene che l’impulso dell’istinto lo guidi infallibilmente alla felicità, peraltro puramente terrena. C’è chi ritiene che tutto è bene, anche ciò che sembra male, per cui non occorre affatto preoccuparsi di evitare il male perchè qualunque azione libera è buona. C’è chi ritiene che il male sia necessario al bene, per cui fare il male serve al bene.

Perché l’aggettivo «mortale»?

Il peccato è un atto che procura la morte.  È una forma di omicidio o di suicidio. È comunque un atto distruttivo: pensiamo per esempio alle guerre o all’inquinamento o alla distruzione della natura. Il peccatore, se potesse, vorrebbe uccidere Dio stesso. Non potendo farlo ontologicamente, lo cancella dall’orizzonte del suo pensiero, anche se tuttavia non può fare a meno di prendere posizione nei suoi confronti, perché comunque un giorno dovrà rispondere davanti a Lui del suo operato, e lo sa, ma se ne infischia e pone il suo bene non nell’amore di Dio ma di sé stesso. Oppure si forma un concetto di Dio che non è il vero Dio, ma o il proprio io o comunque qualche creatura o il demonio o qualche idolo di sua invenzione.

L’anima umana è immortale e in tal senso l’anima del peccatore, pur peccando, non muore ed è possibile la pena eterna delle anime dei dannati. Eppure il peccato mortale, che può procurare la morte del corpo, procura la morte dell’anima. Ma in che senso? Nel senso che può esistere un vivere spirituale che non è un vero vivere, non è un tenersi congiunto con le sorgenti della vita, non è il gustare i massimi valori e livelli della vita, non è il desiderio della vita eterna, non è il conservare,  il gustare,  il generare, il far sorgere, il propagare, il proteggere, il far crescere la vita, ma è un vivere separati da Dio, dalla sorgente della vita eterna, anzi è un vivere che insulta, falsifica,  sopprime, disprezza, odia le forme superiori della vita, l’umiltà, l’onestà, la veracità, l’amore, la virtù, la bontà, la giustizia, la pietà, la misericordia, la santità, la libertà.

L’anima umana ha una vita naturale inamissibile e una vita soprannaturale, divina, che è la vita di grazia, partecipazione della natura divina. Questa vita si attua nell’esercizio delle tre virtù teologali della fede, speranza e carità sostenute dai sette doni dello Spirito Santo. Il peccato mortale è il peccato che o toglie o spegne la grazia o ne impedisce l’azione.

Diversa è la materia del peccato mortale e di quello veniale. Nel mortale la volontà opta per un atto o un fine che essa determina per conto proprio e per interesse proprio indipendentemente dal fine o dall’oggetto voluto da Dio, relativo a ciò che riguarda sostanzialmente, anche se indirettamente, la congiunzione dell’uomo con Dio. In questo senso il peccato contro il prossimo è indirettamente peccato contro Dio.

Nel peccato mortale poi il tralcio, ossia l’uomo, si stacca completamente dalla vite, cioè da Dio. Nel peccato veniale il tralcio resta attaccato, ma rischia di staccarsi del tutto, eppure continua a ricever vita dalla vite, benchè indebolito. Così avviene nel peccato veniale: la grazia è indebolita, ma resta; sta al soggetto adoperarsi con la penitenza per riparare i danni e rivivificare l’anima infondendole nuove energie.

Chi pertanto cade nel peccato veniale – e questo succede spesso a tutti - può riottenere il livello di grazia perduto con pratiche penitenziali personali, mentre nel caso che abbia perduto la grazia a causa di un peccato mortale, il recupero della grazia è possibile solo - potendo accedere a un confessore – accostandosi al sacramento della penitenza.

Infatti, il peccato veniale, occasionato da materia leggera o da insufficiente consenso o deliberazione, non toglie la grazia, ma la diminuisce, e comunque deve esser tolto, perché diversamente diventa principio o stimolo di peccato mortale.

Per comprendere il peccato mortale è utile prendere a paragone la morte fisica. Essa è certo il maggior male fisico che possiamo subire. Il pensiero della morte ci procura spavento, sconcerto, angoscia. Proviamo profonda ripugnanza al pensiero di dover morire e delle sofferenze che ordinariamente precedono la morte. Proviamo un senso di impotenza davanti a un fatto ineluttabile che si avvicina inesorabilmente giorno per giorno; è un fatto che ci apre un orizzonte profondamente misterioso davanti al quale ci sorge il dubbio se continueremo a vivere o sprofonderemo nel nulla. D’altra parte anche la prospettiva panteistica del mio ritorno nell’Assoluto può apparire grandiosa e geniale, ma in fin dei conti so io per primo che è pura fantasia.

«Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto» (Sal 50, 6)

Il peccato è certamente disobbedienza alla legge. È il mancato adempimento del dovere. Mi trovo davanti ad un obbligo: non rubare, non mentire. E io invece volontariamente rubo o mento. Ma questo obbligo da dove viene? Me lo do io a me stesso o mi è dato da qualcun altro? Da dove viene il fatto che io sono felice solo se non rubo e non mento? Dal fatto che ottempero leggi della mia felicità. Ma chi ha dato alla mia natura la sua legge? Evidentemente chi mi ha creato. E dunque ecco che il rubare e il mentire è sì offesa alla mia ragione, alla mia coscienza, alla mia natura, ma in ultima analisi è offesa a Dio mio creatore. Come mai Kant si è fermato alla ragione e non è andato più a fondo, come Davide comprendendo di aver offeso Dio? Ecco perchè Davide nel prender coscienza d’aver peccato, non parla con sé stesso, ma parla con Dio. La radice prima del peccato è l’odio verso Dio. 

Peccare vuol dire entrare in conflitto con Dio. Non volerlo come nostro Signore e come nostro amico.  Negare l’esistenza di Dio o dubitare della sua esistenza o dire come Kant che è impossibile sapere se Dio c’è o non c’è dopo 150 pagine di sottigliezze dialettiche nella Critica della ragion pura, non è la conclusione di un’indagine scientifica o speculativa spassionata, ma è un misero pretesto per ritenersi dispensati dall’osservanza dei suoi comandamenti. 

Basare il precetto morale solo sulla propria ragione, come fa Kant, è un meschino espediente per sottrarci alla responsabilità di dover rispondere a Dio del nostro operato. Chiediamo a Dio di farci conoscere ciò che è bene ai suoi occhi e di far sì che sia bene anche ai nostri occhi.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 4 giugno 2025


La certezza d’aver peccato, come Davide, è una grazia preziosa così come la certezza di essere in grazia, come spesso canta il Salmista. La prima ci spinge ad un emendamento sincero; la seconda ci incoraggia nelle buone opere e in grandi imprese per la gloria di Dio. Chiediamo a Dio questo dono ed Egli ce lo concederà.

L’anima umana ha una vita naturale inamissibile e una vita soprannaturale, divina, che è la vita di grazia, partecipazione della natura divina. Questa vita si attua nell’esercizio delle tre virtù teologali della fede, speranza e carità sostenute dai sette doni dello Spirito Santo. Il peccato mortale è il peccato che o toglie o spegne la grazia o ne impedisce l’azione.

Ecco perchè Davide nel prender coscienza d’aver peccato, non parla con sé stesso, ma parla con Dio.

Per comprendere il peccato mortale è utile prendere a paragone la morte fisica. Essa è certo il maggior male fisico che possiamo subire. Il pensiero della morte ci procura spavento, sconcerto, angoscia. Proviamo profonda ripugnanza al pensiero di dover morire e delle sofferenze che ordinariamente precedono la morte. Proviamo un senso di impotenza davanti a un fatto ineluttabile che si avvicina inesorabilmente giorno per giorno; è un fatto che ci apre un orizzonte profondamente misterioso davanti al quale ci sorge il dubbio se continueremo a vivere o sprofonderemo nel nulla. D’altra parte anche la prospettiva panteistica del mio ritorno nell’Assoluto può apparire grandiosa e geniale, ma in fin dei conti so io per primo che è pura fantasia.


Immagini da Internet:
- Il profeta Natan rimprovera Re Davide, Palma il Giovani, Jacopo il Giovane
- Pentimento di re Davide, Luca Giordano 

1 commento:

  1. eccellente padre,
    vedo una infinitamente lunga catena che collega il peccato originario nell'eden fino ai nostri singoli peccati umani terrestri , anche minimi e veniali. Ella ha ben qui spiegato; sono pero' ancora sempre piu' preoccupato per la moda della Chiesa attuale, che, tendenzialmente, non nomina il peccato e la pena, l'inferno ed il purgatorio, la confessione e la conversione. Prego e spero in un intervento Divino, qua siamo allo squasso. LJC

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