Luigino dice di no a Dio, ma se la cava lo stesso
Tu distruggi chiunque Ti è
infedele
Sal 73,27
Nuovo articolo di Luigino Bruni su Avvenire del 2 agosto. Il titolo è “Il grembo del seme diverso”. Come al solito il titolo è oscuro e non illuminante, contrariamente a quello che dovrebbe essere il titolo di un articolo di teologia, che dovrebbe far capire chiaramente ed immediatamente di che si tratta, così da invogliare il lettore alla lettura. Ma conosciamo ormai lo stile e il modo di procedere di Luigino, che confonde la teologia con la poesia. Si nasconde sistematicamente dietro a delle metafore, così da dire e non dire, insinuare senza dirlo apertamente, così da colpire senza farsi prendere. Ma questo è lo stile dei vili, che si illudono di farla franca, ma non possono non essere a un certo punto incastrati. Anche le anguille possono essere pescate.
Luigino commenta il Salmo 89, che è un canto
della fedeltà divina alle promesse del Signore, il cui adempimento è però condizionato
dall’obbedienza alla legge divina:
«se i suoi figli abbandoneranno la mia legge e
non seguiranno i miei decreti, se violeranno i miei statuti e non osserveranno
i miei comandi, punirò con la verga il loro peccato e con flagelli la loro
colpa. Ma non gli toglierò la mia grazia e alla mia fedeltà non verrò mai meno.
Non violerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa» (vv.31-35).
La lettura attenta del Salmo ci consente però
di distinguere il servo fedele dal servo infedele. Questo secondo viene punito.
Così si spiega la delusione del servo che si sente tradito e abbandonato da
Dio. Dio non tradisce affatto, ma semplicemente mette in opera l’avvertimento
che avrebbe punito il servo infedele. Di che dunque si lamenta? (vv.39-46).
La fedeltà del Signore alle sue promesse
richiede da parte nostra la fede. Ma purtroppo Luigino dà una cattiva
definizione della fede:
«È questa la fede biblica, che a differenza di quella greca e poi illuminista non è un atto cognitivo della ragione teso a credere in princìpi o enti, ma un prendere atto di una realtà che ha la sua evidenza-verità intrinseca e concreta. Sono le mani e i piedi i primi strumenti di questa fede».
Il vero
concetto della fede biblica
Occorre osservare a Luigino che non è vero
che la fede biblica non sia un atto cognitivo della ragione. Al contrario
l’atto di fede, in quanto fede in Dio, per la Scrittura, è atto della ragione,
col quale essa, illuminata dalla grazia, prende per vere le cose rivelate,
dette o promesse dal Signore. La fede, quindi, è esattissimamente un atto cognitivo
e di alta conoscenza intellettuale, perché ha per oggetto la Parola di Dio, che
è un contenuto intellegibile soprannaturale, che trascende la comprensione
della semplice ragione, e non è causato da un’evidenza o una dimostrazione
razionale, ma è motivato dall’autorità di Dio che parla o Si rivela, sicché nel
giudizio di fede la ragione non è necessitata dall’evidenza o dalla
dimostrazione, ma è determinato dalla volontà, attirata dalla credibilità del
rivelante. Si vede che la definizione della fede di Luigino non è fatta con la
ragione, ma, come dice egli stesso, «con le mani e i piedi», forse più coi
piedi che con le mani. E forse un riferimento al concetto greco e illuministico
della ragione non gli avrebbe fatto male.
La fede dunque non è affatto «un prendere
atto di una realtà che ha la sua evidenza-verità intrinseca e concreta».
L’oggetto della fede non è un qualcosa di evidente e concreto, ma è la Parola
di Dio, nel caso di questo Salmo è la promessa del Signore: «Ho stretto
un’alleanza col mio eletto, ho giurato a Davide mio servo: stabilirò per sempre
la tua discendenza, ti darò un trono che duri nei secoli» (v. 4-5).
Da qui si comprende che la fede per Luigino
non è l’umile e fedele adeguarci della nostra ragione e del nostro intelletto a
contenuti intellegibili di infinita sapienza, che mentre ci illuminano e ci
guidano, ci superano infinitamente in un indicibile, insondabile, salvifico e
beatificante Mistero di Verità e di
Fedeltà, ma è un’operazione concreta di Luigino, “mani e piedi”, sul concreto,
che cade immediatamente nell’esperienza e questo concreto per Luigino è Dio
stesso, sul quale Luigino opera con mani e piedi, ossia concretamente e
materialmente, per farlo essere quello che deve essere.
Nel Salmo si tratta evidentemente delle
promesse a Cristo figlio di Davide. Infatti il Salmista fa dire a Dio:
«Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio
e roccia della mia salvezza. Io lo costituirò mio primogenito, il più alto tra
i re della terra. Gli conserverò sempre la mia grazia, la mia alleanza gli sarà
fedele. Stabilirò per sempre la tua discendenza, il suo trono come i giorni del
cielo» (vv.27-30).
Sono queste parole ad essere oggetto della
fede, è qui che si vede la fedeltà di Dio. Non si tratta per nulla, come pensa
Luigino, di prender atto di una situazione concreta: questa semmai è oggetto
dell’esperienza. E il Salmista ci parla con chiarezza di qual è questa esperienza:
è l’amara impressione che egli ha che Dio non sia fedele al patto:
«Ma tu lo
hai respinto e ripudiato, ti sei adirato contro il tuo consacrato, hai rotto
l’alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona. Hai
abbattuto tutte le sue mura e diroccato le sue fortezze; tutti i passanti lo
hanno depredato, è divenuto lo scherno dei suoi vicini» (vv.39-42).
Luigino richiama
Dio al suo dovere
Questa volta Luigino, nella linea che abbiamo
già visto nei precedenti suoi articoli che ho commentato, ci propone di
richiamare Dio al suo dovere di esserci fedeli, anche se noi non lo siamo stati
con lui. In tal modo noi chiediamo a Dio di superare la reciprocità tra noi e
Lui, per la quale si dà una fedeltà reciproca fra noi e Lui. E pertanto Gli
diciamo:
«Tu Jahvè non sei come noi, che siamo legati e
imprigionati dentro la legge di reciprocità e di condizionalità dei nostri
patti. Tu sei più grande perché sei capace di continuare ad essere fedele ad un
patto anche quando noi lo tradiamo».
Così Luigino dice a Dio quello che deve fare:
«Per questo devi essere fedele al tuo nome, devi essere leale al tuo ‘per
sempre’ proprio e perché noi non lo siamo più». Così, continua Luigino,
«abbiamo
imparato il perdono, anche noi abbiamo appreso una fedeltà più grande per amore
del ‘nostro nome’, per una misteriosa fedeltà verso noi stessi che ci ha fatto
diventare, qualche volta, migliori delle nostre reciprocità». Luigino sembra
dunque intimare a Dio di perdonarlo, anche se lui Lo ha tradito.
In tal modo egli avrebbe appreso una «fedeltà
più grande» non – si noti bene - per amore del nome di Dio, ma per amore del
suo proprio nome, giacché è Luigino che dice a Dio quel che deve fare e non Dio
a Luigino. Abbiamo già visto questo atteggiamento impositivo di Luigino nei
confronti di Dio in altri precedenti articoli.
Osserva poi Luigino che questo atteggiamento
nei confronti di Dio è l’atteggiamento dell’«adulto»:
«Si diventa
adulti dentro una vocazione quando si riesce a capire che la vita che stiamo facendo
non è quella che volevamo fare e nasce una profonda sensazione di infedeltà,
un’infedeltà che non è tradimento ma svelamento della verità della prima voce».
Qui Luigino sembra ricongiungersi anche
attraverso la citazione di Jakob Taubes all’interpretazione kabbalistica[1]
del peccato originale inteso come disobbedienza al comando di Dio, per la quale
Adamo ed Eva affermano la propria libertà dietro suggerimento del serpente, che
assume così la funzione del liberatore dal vincolo della legge e promotore
della libertà umana al livello della libertà divina. Opponendosi a Dio, l’uomo
dà a Dio il modo di essere Dio restando infedele mentre l’uomo è infedele.
Come Luigino
si sbarazza del rimorso di coscienza
Qui Luigino sembra voler soffocare il rimorso
della colpa, come, sulle orme del misericordismo luterano, ci consiglia di fare
nell’ultimo articolo che ho commentato in questo blog. Questa volta, per acquietare
la nostra coscienza fuori la «fedeltà», che resta anche se abbiamo tradito e non
siamo stati fedeli alla nostra vocazione
Precisa Luigino dicendo a Dio: «Io non ce l’ho
fatta a custodire la fedeltà al primo patto, ma tu devi essere fedele». Luigino
si vuol scusare della sua infedeltà e del suo tradimento alla maniera di
Lutero: non riconoscendo la sua colpa, ma avanzando una pretesa impossibilità,
così come Lutero sosteneva che, a causa della corruzione della natura umana
conseguente al peccato originale, è impossibile osservare i comandamenti.
Se tuttavia Luigino non ha fatto il suo
dovere, non per questo egli non si sente in diritto, in base alla
«reciprocità», di richiamare Dio al suo dovere: io ti ho tradito, ma tu dammi lo
stesso la tua grazia. Se io non ho fatto
la mia parte, tu però devi fare la tua.
Ci può essere una maggiore sfrontatezza con
Dio? Eppure Luigino non ha scrupolo a fare questo passo. Infatti, già sappiamo
come egli è fatto: egli si sente in diritto e capace di correggere Dio e di
comandargli come deve essere per essere veramente Dio. Dio non è
sufficientemente pietoso verso l’uomo, è troppo severo? Ebbene, Luigino Gli
insegna come essere dolce, mite, pietoso e comprensivo. Il Dio di Luigino non è
un Dio fedele per essenza, ma un Dio che può sgarrare e che Luigino ha la
facoltà e il potere di richiamare all’ordine.
Luigino insiste inoltre nel far presente la
condizione disagiata di coloro che hanno tradito il «primo patto» e descrive
tale imbarazzante situazione in più modi e con efficaci metafore. Il traditore
vive
«il tempo dell’esilio, nel quale è seduto
sulle rovine della “prima promessa”; è «seduto sulle macerie del passato, nel
tempo del fallimento e della sventura; è seduto sul mucchio di spazzatura di
ciò che resta del suo patto, imprigionato dentro la legge di reciprocità e di condizionalità
del suo patto; è davanti alle macerie della vita adulta, ricorda a Dio la verità
della prima alleanza e della prima vocazione», evidentemente tradite;
«abbiamo iniziato il cammino, ci siamo
impolverati e un giorno ci siamo ritrovati in esilio in una terra straniera»;
comprendiamo che «la vita che stiamo facendo non è quella che volevamo fare e
nasce una profonda sensazione di infedeltà».
Ma ecco che Lutero tranquillizza Luigino:
«niente paura, fratello, mio complice, da qui ci sono passato anch’io: la tua infedeltà
non è tradimento, ma svelamento della verità della prima voce». «E come?» – chiede
Luigino a Lutero. «Ti rispondo – dice Lutero - con le parole di Jacob Taubes:
«solo la parola dell’uomo in risposta alla parola di Dio, che in sostanza è un
‘no’, attesta la libertà umana. Per questo la libertà di negare è il fondamento
della storia».
La nostra libertà ci rende infedeli e
traditori. Ebbene, «Dio resta fedele anche quando noi lo tradiamo. Egli è
libero anche dalla reciprocità. Egli è più grande della libertà che ci ha
donato» e per la quale Gli diciamo di no, lo tradiamo, siamo infedeli alla
prima voce. Ma proprio in questa negazione noi rinnoviamo il patto in una
seconda voce».
Luigino si
unisce alle sofferenze di Cristo
Ma ecco che il Salmista s’immedesima nel
servo sofferente e deluso:
«Ricorda,
Signore, l’oltraggio dei tuoi servi: porto nel cuore le ingiurie di molti
popoli, con le quali, Signore, i tuoi nemici insultano». Tuttavia Dio
garantisce che, da parte sua, che non verrà mai meno alla sua alleanza. Infatti
il Salmista conclude accennando a un servo che dice di se stesso: «porto nel
cuore le ingiurie di molti popoli, con le quali, Signore, i tuoi nemici
insultano» (vv.51-52).
Luigino capisce che qui c’è il riferimento a
un servo fedele e giustamente accosta questo passo a Is 53,4: «Egli si è
caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori».
Commenta Luigino: «il poeta diventa nelle sue
viscere il popolo esiliato, umiliato» e citando Guido Ceronetti, si sente
coinvolto in questo «disonore». Dunque si unisce alla passione di Cristo. Ed
aggiunge:
«tutti i
grembi dei servi e delle serve sofferenti della storia sono stati il luogo dove
è maturato un seme diverso, che un giorno si raccolse nel seno di una vergine.
Il ”rallegrati o Maria” è la risposta ai tanti “ricordati o Dio”». Evidente
allusione a Gesù Cristo.
Due osservazioni. La prima. Con quale faccia
Luigino osa far sua la passione di Cristo dopo averlo tradito? Lo soccorre
sempre Lutero, il quale lo assicura: «caro Luigino, in questo testo di Isaia è
la Scrittura stessa che parla e dice di sé con implacabile spudoratezza sacra,
quel che ha portato del mondo e nel mondo», ossia la salvezza. Continua Lutero:
«Sì, Luigino, sei uno spudorato, ma uno spudorato sacro perché a Cristo
piacciono credenti scandalosi come te. Proprio perché Lo hai tradito, sei ora
libero e perdonato. È la via che ho seguìto io stesso, nonostante i tormenti di
coscienza».
Seconda osservazione. Perché Luigino chiama Cristo il Diverso?
Perché oggi c’è la divinizzazione del diverso, che tende a soppiantare
l’opposizione vero-falso e bene-male. L’et-et soppianta l’aut-aut. Ora il
diverso ha un ruolo fondamentale nella realtà e nella convivenza umana, perché
fonda la molteplicità, l’analogia, la somiglianza, il pluralismo, il dialogo,
la reciprocità e tanti altri importanti valori.
Tuttavia succede che se assolutizziamo il
diverso, veniamo a dire cose abominevoli di questo tipo: l’eresia? Non è una
falsità: è un pensiero diverso. La sodomia? Non è peccato: è un diverso
orientamento sessuale. Il peccato? Non è un male; è un agire diverso e così
via. Cristo non mette in gioco il vero e il falso, il bene e il male. È
semplicemente un modo diverso di vivere come un altro.
Una
vocazione tradita?
In conclusione, col suo ossessivo e
tormentoso insistere sull’essere stato infedele e sull’aver tradito la propria
vocazione, nello sforzo disperato di ignorare le proprie colpe e di
giustificarsi nella vana fiducia di essere giustificato alla maniera di Lutero,
modello supremo dei preti spretati, Luigino dà l’impressione di essere egli
stesso un prete spretato, che con questi suoi discorsi falsamente consolatori e
liberanti lancia un messaggio subliminale per quelle migliaia di preti che
purtroppo negli ultimi decenni hanno tradito e lasciato il loro ministero. Così
mi spiego il successo di Luigino con Avvenire,
perché temo che molti dei suoi lettori siano appunto preti spretati.
Questo è un motivo in più che mi spinge ad
insistere con gli Amici di Avvenire
perché si rendano conto del danno immenso che sta facendo Luigino, favorendo ed
orientando col suo falso biblicismo e con le sue deliranti fandonie l’azione subdola
e dissolvente dei preti infedeli e traditori.
E vorrei aggiungere che se sono riprovevoli
qui i preti, i quali, per non aver custodito la propria vocazione o per essersi
lasciati imprudentemente persuadere da false idee sul sacerdozio, hanno perso
la fede nel sacerdozio ed hanno quindi abbandonato il ministero, almeno sono
stati coerenti in questa scelta, come del resto fece lo stesso Lutero.
Ma quanto più riprovevoli non saranno per la loro
ipocrisia quei sacerdoti, i quali, pur diffondendo idee eretiche sul sacerdozio,
come per esempio Rahner e Schillebeeckx, hanno continuato imperterriti ad esercitare
il ministero? E che dire di quei sacerdoti o vescovi, i quali hanno ordinato o
sono stati ordinati sulla base di un’idea rahneriana o scillebexiana del
sacerdozio?
Il rimorso di coscienza si toglie solo con
una vera conversione o mutamento della volontà da cattiva a buona, ossia
dall’attaccamento al peccato alla volontà di giustizia sotto l’influsso della
grazia. E se la volontà torna a peccare, non dobbiamo dire come Lutero «sono
fatto così e non c’è niente da fare», ma dobbiamo compiere quell’atto di
conversione tutte le volte che pecchiamo, perché nella vita presente la concupiscenza
resta sempre viva come stimolo al peccato. Se però saremo perseveranti in questo
cammino penitenziale di conversione fino alla fine, arriverà il momento in cui
in paradiso non peccheremo più.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 4 agosto 2020
[1] Cf Erich Fromm, Voi sarete come dèi. Un’interpretazione radicale del Vecchio Testamento
della sua tradizione, Ubaldini Editrice, Roma 1970: Hegel riprende questa
interpretazione: Cf Lezioni sulla
filosofia della religione, Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, pp.78-91; questa
interpretazione è passata nella massoneria: P. Siano, Iniziazione, esoterismo e luciferismo nella massoneria del Grande
Oriente d’Italia, in Fides Catholica, 1. 2008, pp.38, 41, 52, 61, 73, 100.
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