Sulla questione del perdono divino
La dittatura della misericordia
Può capitare in una famiglia troppo austera che se un figlio viene educato ad una astinenza troppo severa dai piaceri, se viene troppo fermato e represso, poi, una volta liberatosi dalla tutela dei genitori, tutto il potenziale di energie represse accumulato in precedenza, tutte le brame a lungo insoddisfatte, trovano improvvisamente uno sbocco torrenziale e se prima il soggetto era oppresso dal terrore del Dio punitore e schiacciato sotto il peso di un insopportabile ed angoscioso senso di colpa e dalla disperazione, poi, presa coscienza della sua libertà, eccolo alle stelle, in preda ad uno stato di esaltazione e di euforia per il Dio della misericordia e della comprensione, per la piena liberazione, la totale innocenza, e l’indubitabile salvezza. È la storia di Lutero che si ripete.
La Chiesa prima del Concilio Vaticano II è stata in certa misura una madre arcigna del primo tipo. Una certa Chiesa uscita dal Concilio, interpretato in senso modernistico e luterano, è divenuta una madre liberale del secondo tipo, come a dire una madre che si eclissa dicendogli: «fa’ come ti pare e sta’ tranquillo ché Dio è buono, non vuole la sofferenza, non castiga e perdona e salva tutti, sempre e comunque». Ecco allora la convinzione oggi diffusa che nessuno dice no a Dio perchè l’uomo, sul modulo rahneriano, è per essenza tendenza atematica ed inconscia verso Dio o, come dice Heidegger, «apertura all’essere» o, come si può ricavare da Severino, manifestazione dell’essere o, come dice Husserl, «fenomeno dell’essere».
Se prima il cristiano era terrorizzato dalla severità divina, adesso è certo che può tranquillamente peccare, perchè il peccato non è più peccato o perché comunque è teneramente oggetto di misericordia. Questa esperienza paradigmatica di Lutero è oggi per moltissimi divenuta un vissuto personale. Se prima c’era troppa paura di andare all’inferno, adesso molti sono ultrasicuri di essere perdonati. Se prima si conteggiavano dettagliatamente le colpe vere o presunte, adesso molti sono convinti di non averne bisogno perchè si ritengono innocenti.
Essi ritengono che non occorre pentirsi, chiedere perdono a Dio, offrirGli sacrifici, fare opere di penitenza, sforzarsi e fare rinunce per correggerci, perché Dio ci prende tutti come siamo, siamo già perdonati e salvi gratuitamente. Non ci chiede altro che aver fede che ci ha salvati. Altri poi se ne infischiano del perdono divino e di tutto ciò che lo condiziona e che lo segue semplicemente perché non credono nemmeno all’esistenza di Dio.
Oggi non c’è più nessuno che, come Lutero giovane, si angoscia per la convinzione di essere riprovati da Dio. L’angoscia dell’uomo d’oggi è quella della quale parla Heidegger, angoscia per la «gettatezza», nella situazione emotiva dell’uomo colpevole (schuldig), libero e preoccupato (Sorge), dell’uomo come esserci dell’essere, «essere-che-sono-io», fondato sul nulla e tendente al nulla («essere-per-la-morte»), «nulla che nientifica», uomo come ek-sistenza, progetto, essere-nel-mondo, svelamento, esperienza, precomprensione atematica dell’essere (Vorverstândnis de Seins), casa e pastore dell’essere, «pensiero rammemorante» (andenken), ente aperto all’essere come tempo e finitezza, essere come illuminazione, come linguaggio poetico, volontà di potenza, libertà come verità, essere come presente del presente, presenza del nascosto e del mistero, come svelatezza dell’aperto e del sacro, non il Dio ipsum Esse di San Tommaso, causa prima, ente supremo e creatore, ma come il sacro nel senso di Hölderlin, il sacro greco: questo è il «Dio divino») e manifestazione della verità.
Chi in questo guazzabuglio di idee contradditorie, di oscure allusioni e di suggestivi barlumi ci capisce qualcosa e riesce trovare un filo logico è certamente lodevole e fa un lavoro utile, giacchè anche Heidegger, checché pensi dell’uomo, è un animale ragionevole non privo di doti intellettuali.
Che cosa salvare, che cosa recuperare in questa enorme massa disordinata e aggrovigliata di materiali filosofici, mitologici, poetici e fantastici? Esistono varie interpretazioni del pensiero di Heidegger. Esse potrebbero sostanzialmente ridursi a due: o il richiamo a tornare a Dio inteso come ispum Esse, e allora si potrebbe fare un aggancio con San Tommaso; oppure la prospettiva nicciana dell’essere come volontà di potenza e allora si fa l’aggancio col nazismo[1].
La difficoltà di capire che cosa Heidegger vuole veramente dire e la possibilità di trarre dal suo pensiero le conclusioni più radicalmente opposte è data dal fatto che egli mette assieme i pensatori maggiormente in contrasto fra di loro: la Bibbia e la mitologia greca, Parmenide, Eraclito, Anassimandro, Protagora, Platone, Aristotele, Duns Scoto, Cartesio, San Tommaso, Lutero, Hegel, Hölderlin, Schelling e Nietzsche. Da qui il fatto che si sono appropriati di Heidegger i pensatori più in contrasto fra di loro, come per esempio Vattimo e Maritain, Severino e Bertuzzi, Derrida e Ruffinengo, Mazzantini e Deleuze, Dugin e Rahner.
Eppure il guazzabuglio heideggeriano riflette proprio il caos nel quale si trova l’uomo moderno, caos ottimamente descritto da Heidegger, per cui l’uomo appare come fluido soggetto esistenziale libero, misericordiato, nostalgico ed angosciato, colpevole-innocente, estatico e preso dalla cura, emotivamente situato, essere-nel-mondo e per-la-morte, apertura dell’essere aperto sul nulla.
Alla fine non si comprende se Heidegger è un teista o un panteista o un ateo o un agnostico o un nichilista o un falso mistico o un esaltato o tutto questo insieme oppure semplicemente un abilissimo commediante ed un diabolico impostore, che, non privo di illuminazioni bibliche, metafisiche, religiose, etiche e teologiche, scalcagnato erede di Lutero, recitando la parte del vate ispirato dall’alto di incomprensibili misteri, si diverte con i suoi oracoli gnostici a prenderci in giro trattandoci da allocchi.
Che cosa è veramente la misericordia divina
Farò misericordia a chi vorrò far misericordia
Es 33.19
Non è possibile comprendere come agisce la divina misericordia se si prescinde dal mistero della predestinazione e dall’esistenza degli «eletti», dei quali parlano Cristo e San Paolo, e se si prescinde in generale dal concetto di elezione divina, cioè il fatto che Dio non salva tutti, ma solo alcuni tra i tutti, quelli che elegge o sceglie Lui, ossia quelli che si lasciano scegliere, atteso il fatto che alcuni respingono la sua chiamata e disobbediscono alla sua universale volontà di salvezza.
Molti i chiamati, pochi gli eletti, dice Cristo. Dio chiama tutti, ma non tutti rispondono alla chiamata. Alcuni preferiscono fare di testa propria, il che lo intendono come «essere liberi» o, come si esprime Cristo, «fare la propria volontà», atto che non è da intendersi nel senso del semplice esercizio del libero arbitrio, perché in tal senso, anche i beati fanno la propria volontà, ma nel senso di volere qualcosa di contrario a ciò che vuole Dio, in sostanza non volere Dio come proprio Signore, sommo bene e fine ultimo, ma un bene creato o se stessi, scelto di proprio arbitrio..
Ricordiamo che nel piano sull’uomo di fatto voluto da Dio giustizia e misericordia divine sono indissociabili. Non c’è misericordia senza giustizia. Certo, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto fare misericordia a tutti, perdonare tutti o addirittura impedire che accadesse il peccato originale e porre l’intera umanità direttamente nello stato dell’eterna beatitudine e non permettere che ognuno scegliesse secondo la propria volontà, lasciar liberi di dire sì o no.
Certo in tal caso non ci sarebbe stato l’esercizio della giustizia punitiva. Invece Dio ha voluto non impedire l’ingresso del peccato nel mondo e lasciare ad ognuno l.a possibilità di rifiutare il suo amore. Perchè non lo ha fatto? Non lo sappiamo.
È un fatto comunque che Dio ha preferito che ognuno facesse la sua scelta piuttosto che mandare tutti in paradiso. Certo Egli non è responsabile delle conseguenze logiche e necessarie del rifiuto. Ma la tesi buonista che va in paradiso anche chi rifiuta Dio è semplicemente assurda. All’ateo, al materialista, al panteista non interessa niente andare in paradiso, dato che per lui Dio o non esiste o Dio è egli stesso. Per i buonisti anche coloro ai quali anima, spirito, metafisica, soprannaturale, teologia, religione, santità, Bibbia, Chiesa, Dio non interessa per niente, anche costoro vanno in paradiso. Ma ciò è semplicemente assurdo.
Esse infatti stanno assieme non simultaneamente nello stesso soggetto, ma successivamente in soggetti diversi o nello stesso soggetto. Alcuni, impenitenti, sono puniti e condannati; altri, pentendosi, sono misericordiati e si salvano. Oppure il medesimo soggetto a seconda di come si comporta, ora viene punito, ora viene misericordiato.
Dio mostra la sua misericordia ad uno proprio castigando il suo offensore. Israele canta la misericordia divina che lo ha salvato dagli Egiziani proprio perché ha punito gli Egiziani.
Si deve certo aver pietà del debole o di chi pecca in buona fede o per fragilità. Ma si può aver pietà del malvagio ipocrita, spavaldo ed ostinato che pecca per superbia coscientemente e volontariamente? Come Cristo tratta costoro? È l’opera buona che non merita castigo o vogliamo trattare il peccato come fosse un’opera buona? È, questa, misericordia?
Se neghiamo che la sofferenza sia la paga del peccato, vogliamo ritenere giusta la sofferenza dell’innocente? Se il peccato non merita punizione, eppure la sofferenza esiste, e tutti, pur essendo peccatori, anche gli innocenti, vengono misericordiati, vogliamo dire che la misericordia irroga la sofferenza?
Se la nostra partecipazione all’opera redentrice di Cristo ci dispensa dal dovere di espiare e dall’idea che dobbiamo pagare per i peccati commessi, non è forse ciò contrario al fatto che per misericordia del Padre noi in Cristo possiamo espiare? E se non ci fosse l’espiazione, che è opera di giustizia, dove sarebbe la misericordia?
È giusto che paghi tutto Cristo che è innocente, mentre noi meritevoli di castigo siamo dispensati dal contribuire alla nostra espiazione, quando i colpevoli e debitori presso il Padre siamo proprio noi? È questa vera misericordia o è un comodo sottrarci alle nostre responsabilità?
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 15 giugno 2024
L’antropologia e l’ontologia di Heidegger sono un ritratto esatto e fedele dello stato confusionale ed angosciante nel quale si trova l’uomo d’oggi postmoderno, postcristiano, post-teista, trascendente, deietto e progettante, schiavo della tecnica, dimentico dell’essere e immerso nel «si dice» e negli enti. Per questo il pensiero di Heidegger, per quanto contorto e pieno di forzature e significati arbitrari delle parole, ha avuto tanto successo, questo è il motivo per cui tanti si riconoscono nel quadro orribile e sinistramente affascinante del Dasein.
Nello svolgimento storico di fatto del piano della provvidenza non c’è misericordia senza giustizia. Chi nega la giustizia nega la misericordia. È vero che giustizia e misericordia sono contrarie l’una all’altra, perché la prima irroga la pena ed esige l’espiazione, mentre la seconda toglie o mitiga la sofferenza. Esse infatti stanno assieme non simultaneamente nello stesso soggetto, ma successivamente in soggetti diversi o nello stesso soggetto
Dio mostra la sua misericordia ad uno proprio castigando il suo offensore. Israele canta la misericordia divina che lo ha salvato dagli Egiziani proprio perché ha punito gli Egiziani.
Se l’oppressore crede di essere perdonato pur continuando ad opprimere l’oppresso, come Dio non verrebbe ad avallare l’ingiustizia o a considerare giustizia l’ingiustizia dell’oppressore? Una misericordia che tolleri l’ingiustizia è falsa ed ipocrita. È un Dio misericordioso quello che non castiga il peccato dell’impenitente o non è piuttosto un Dio connivente e ingiusto? È vera misericordia quella che si accompagna all’ingiustizia, che chiama bene il male?
Immagine da Internet: Miriam, Basilica della Dormizione, Gerusalemme
[1] Victor Farias, Heidegger e il nazismo, Edizioni Bollati Boringhieri, Torino 1988; Andrea Colombo, I maledetti. Dalla parte sbagliata della storia, Edizioni Lindau, Torino 2017, pp.612-73.
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